Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LX

Novella LX - Morte miserabile di due amanti, essendo lor vietato di sposarsi da Enrico VIII re d’Inghilterra
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[p. 164 modifica]il suo arciero che tirava al segno senza veder lume. Aveva il castellano recato seco del lume; il perché l’arciero subito, cosí ignudo come era, fu preso e legato. La donna medesimamente, piú morta che viva, fu fatta levare; a la quale il conte altro non disse se non che s’apparecchiasse a dir tutti i tradimenti che fatti gli aveva. Ma per non far lunga dimora in queste cose cosí noiose, fu quella medesima notte l’arciero strangolato. A la donna fece il conte cavar i denti ad uno ad uno con la maggior pena del mondo; la quale confessò del veleno che al marito dato avea, e che a molti, i quali nomò, s’era amorosamente sottoposta, che di mente mi sono usciti. Disse anco come il primo figliuolo, il conte Bartolomeo, era legitimo e figliuolo d’esso conte Filippo. Intesa la confessione de la moglie, quella tenne alcuni dí in prigione in pane ed acqua. Ciò che poi ne divenisse, non si sa; ma si tiene che non dopo molto la facesse, messa in un sacco, macerare in Po, con un gran sasso al sacco legato; come medesimamente si dice che aveva fatto d’una cameriera de la contessa, che in camera di lei dormiva e sempre degli amori di quella era stata consapevole.


Il Bandello al signor conte Lorenzo Strozzi


Essendo voi ambasciatore del signor duca Alfonso di Ferrara in Milano appresso al duca Massimigliano Sforza, di questo nome primo, solevate assai sovente ritrovarvi in compagnia a casa del signor Alessandro Bentivoglio vostro zio, ove io altresí il piú de le volte era. Quivi sempre si ragionava di varie cose, ma per lo piú piacevoli e da tener lieta la brigata, essendo il signor Alessandro di natura sua lieto e festevole, e che la perdita del dominio paterno molto costantemente sopportava. Ora, stando noi di brigata un dí, sovravenne il signor Azzo Vesconte, il quale, come fu giunto, disse: – Signori miei, io vi reco una gran nuova; non so mò se cosí parrá a voi. Un mio parente del sangue nostro Vesconte ha sposato la figliuola d’un beccaio, con dodici mila scudi di dote numerati a la mano, tutti in oro. Io era invitato a le nozze e non ci sono voluto andare; e venendo in qua e passando da San Giacomo, ho veduto [p. 165 modifica]suo suocero, che con la guarnaccia indosso bianca, come è costume dei nostri beccari, svenava un vitello, essendo insanguinato fin al cubito. Non vi par egli gran nuova che un gentiluomo, e de la casa Vesconte, abbia voluto imparentarsi con uno che faccia il macello? Io per me non mi vi so accordare, e se simil femina avessi per moglie, mi paria che sempre putisse di beccaio e credo che mai non osarei alzar il capo. – Ridemmo tutti del faceto detto del signor Azzo, quando messer Pietro Crescente, astrologo del nostro signor Alessandro, disse: – Signor Azzo, cotesto vostro parente, certo, se volete dir il vero, deveva esser piú mio parente assai che vostro, cioè intendetemi sanamente, deveva esser molto povero. Dodici mila scudi farebbero ridere il piú grandissimo malinconico che si truovi. Fa il vostro parente pensiero tra sé che egli è nobilissimo e che la nobiltá de l’uomo non mai dipende da la donna, ma l’uomo è quello che fa nobilissima la donna; di modo che questa vostra parente non è oggi piú beccaia ma è nobilissima, e per tale la devete voi tenere. Né questo atto è cosa nuova. Il nostro messer Galeazzo Calvo, sovranominato Marescotto, s’innamorò d’una ortolana, e la prese per moglie e n’ebbe figliuoli di grandissima stima, che tutti furono, con i figliuoli loro, sono e saranno Marescotti e non ortolani. – Alora messer Girolamo Cittadino: – Cotesti, – disse, – non sono miracoli. Io credo che i signori conti Borromei siano nobili e dei ricchi feudatari de lo stato di Milano. Nondimeno il conte Lodovico a’ nostri dí non s’è sdegnato di pigliar per moglie una figliuola d’un fornaio, e tuttavia i figliuoli suoi non sono in conto alcuno meno nobili che si siano quelli del conte Lancilotto suo fratello, che prese per moglie una sorella del signor Antoniotto Adorno duce di Genova. Non si dice anco che uno dei marchesi di Saluzzo prese una villanella per sua donna, e i figliuoli che nacquero non restarono per questo che non fossero marchesi? Sí che se il Vesconte ha preso costei, l’ha fatto per bisogno del denaro. Io ho sentito dire piú volte al signor conte Andrea Mandello di Caorsi che, come una donna passa quattro mila ducati di dote, che si può senza dubio sposare, se bene fosse di quelle che dánno per prezzo il corpo loro a vettura lá, di dietro al duomo di Milano. Credetelo a me, che oggidí, chi ha danari pur assai, è nobile, e chi è povero è riputato ignobile. Io veggio quel povero vecchio, il Vescontino, che è pure uscito del vero ceppo dei Vesconti, e nondimeno, perché è povero e va con duo secchi in collo vendendo olio per la cittá, è tenuto vile e non n’è fatta [p. 166 modifica]stima, come sarebbe se egli fosse ricco. – E cosí ragionandosi variamente di questo caso, io mi ricordo che voi diceste che anco in Ferrara il conte Ercole Bevilacqua s’era innamorato d’una donzella de la signora Diana, generata di vilissimo sangue, e nondimeno come moglie di gentiluomo e conte era per Ferrara tenuta ed onorata. Ed insomma cose assai si dissero, e che essendo il matrimonio libero e tutti noi discesi dal primo parente Adamo, l’uomo deverebbe poter tòrre chi piú gli aggrada; e medesimamente la donna si deveria poter maritare quando e con chi le piace. Il tutto perciò si disse per via di ragionamento, lasciando poi le decisioni di queste questioni a quei dottori che di simil dubii sanno con le leggi in mano giudicare. Ora non è molto, capitando un mercadante fiorentino in casa di vostra cugina la signora Gostanza Ragona e Fregosa, e a caso di simil materia ragionandosi, disse che in Inghilterra, come la donna è stata una volta maritata, ne le seconde nozze ella può prender marito chi piú le aggrada, ancora che ella fosse di sangue reale e pigliasse per marito il piú privato uomo de l’isola. Onde messer Libero Mantile, – ché cosí il mercadante si noma, – ci narrò a questo proposito una pietosa novelletta, che alora io scrissi. E volendola porre insieme con l’altre mie, l’ho coronata del vostro nome, a ciò sia eternamente testimonio de l’amicizia nostra; e cosí ve la mando e dono. In quella, signor mio, vederete, oltra la consuetudine del maritarsi, la costanza di dui sfortunati amanti, che insieme s’erano sposati marito e moglie, e vi parrá ben altro che l’amore di quel vostro amico, che gittò la berretta nel fango e quella affollò. State sano.Novella LX

Morte miserabile di dui amanti, essendo lor vietato
di sposarsi da Enrico ottavo re d’Inghilterra.


Devete sapere che questo, che oggidí è re de l’isola de l’Inghilterra ed Enrico ottavo si noma, per qualche suo appetito è divenuto molto terribile e crudele ed ha sparso grandissimo sangue umano, facendo ogni dí mozzar il capo a questi e a quelli, e per la maggior parte annullando la nobiltá di tutta l’isola. Ha anco fatto decapitare due de le sue mogli in poco spazio di tempo. Egli ebbe due sorelle, una detta Margarita che fu moglie del re di Scozia; la quale, essendo restata vedova, ritornò in Inghilterra [p. 167 modifica]e prese ne le seconde nozze per marito un cavaliero, per esser cosí la costuma in quelle contrade, che le donne dopo il primo matrimonio, pigliando la seconda volta marito, prendono chi piú loro aggrada. Il che anco si vide in madama Maria, sorella pur del detto re Enrico, la quale fu maritata primieramente nel re Lodovico decimosecondo di Francia, col quale stette a pena tre mesi che il re se ne morí, e quella se ne ritornò in Inghilterra, dove il seguente anno ella prese per marito uno a cui il re suo fratello voleva gran bene, ancor che fosse di basso legnaggio, e gli donò la duchea di Suffort, de la quale aveva cacciato il vero signore di sangue reale. Ora quella che era stata reina di Scozia ebbe del cavaliero suo marito una bellissima figliuola, la quale il re come nipote amava e teneva molto cara, deliberando di maritarla altamente al tempo suo. Ed essendo giá di quindici anni, non era in tutta l’isola fanciulla cosí bella com’ella era, la quale anco, dotata di bei costumi e leggiadri modi, era da tutti sommamente commendata, e per l’umanitá e gentilezza sua ciascuno molto l’onorava. Di questa un giovine de l’isola, chiamato il signor Tomaso, nobile e ricco, che era figliuolo d’una sorella del duca di Nofoco, fieramente si innamorò, di modo che senza la vista di lei non ritrovava riposo e in altra parte non gli era possibile che rivolgesse i suoi pensieri. Veggendo adunque che per troppo soverchio amore se ne moriva, tanto seppe fare, seguendola notte e giorno e con messi ed ambasciate sollecitandola, che ella cominciò ad amar lui ed averlo caro. Del che accorgendosi il signor Tommaso, non mancò a se stesso, e sí andò la bisogna, che egli, consentendolo ella, ebbe modo di parlar seco segretissimamente, e sí bene ed accomodatamente le seppe le sue passioni dire e certificarla del suo fervente amore, che non si partirono d’insieme che si sposarono per marito e moglie, e con soavissimi baci e strettissimi abbracciamenti dolcissimamente consumarono il santo matrimonio, aspettando tempo oportuno di publicarlo. Ed in questo mezzo tutte le volte che potevano esser in compagnia, piú segretamente che loro fosse possibile, vi si trovavano ed amorosamente si godevano. Ma perché uno smisurato amore non si può del tutto celare e a lungo andare partorisce troppo domestichezza, di maniera che s’usano degli atti e cenni che fanno che la gente se n’accorge, la cosa fu da alcuni pigliata in sospetto; i quali, spiando piú cautamente che poterono gli andari e l’operazioni di questi dui amanti, vennero, non so come, in cognizione ch’essi insieme si godevano. E perché l’invidia è proprio vizio dei cortegiani, ci [p. 168 modifica]furono di quelli che, non potendo sofferir il bene di questi dui amanti, lo rapportarono al re, certificandolo come il signor Tomaso si giaceva con la nipote sua assai sovente. Di che il re fieramente se ne sdegnò, e mettendogli de le spie a torno, una notte gli fece tutti dui a salvamano pigliare e metter in prigione nel castello di Londra, l’uno perciò separato da l’altro. Volendo poi il re intender come il fatto era passato, gli fece essaminare; i quali, non essendo per negar la veritá, confessarono che come marito e moglie si giacevano insieme. E concordando l’una confessione con l’altra, e convenendo i constituti loro puntalmente insieme, gli essaminatori lo riferirono al re. Ora non so io per qual cagione il re non volesse accettare per buona questa loro vera confessione, la quale agli amanti nulla giovò, onde un giorno, nel Conseglio privato del re, Tomaso Cremonello contestabile d’Inghilterra, acerbo e perpetuo nemico di tutta la nobilitá de l’isola, de la quale la maggior parte aveva estinta e fattone infiniti decapitare, fece pronunciar la sentenza che al signor Tomaso nipote del duca di Nofoco fosse mozzo il capo. Si divolgò questa fiera sentenza per Londra con general compassione di ciascuno, parendo a tutti che ella fosse pur troppo ingiusta. Il perché, sentendo questo, il duca di Nofoco, uomo di gran riputazione appo il popolo e di nobilissima ed antica schiatta, se n’andò in castello per parlar al re; e trovato il contestabile che era ne l’anticamera, passò di lungo senza dirgli motto né fargli segno alcuno di riverenza, e picchiò a l’uscio de la camera del re, e subito fu intromesso. Come fu dentro, fece la debita riverenza al re, e pieno d’ira e mal talento, gli disse: – Sire, che cosa è questa che io veggio? Egli mi pare che vogliate sopportare che tutta la nobiltá d’Inghilterra debba morire, e che oggi uno sia ucciso e dimane un altro decapitato, di modo che oramai i nobili sono piú rari che i corvi bianchi. – Il re, mostrandosi nuovo e non sapere a che fine il duca dicesse cotesto, gli disse: – Duca, per che cagione dite voi queste parole? Che vi muove a tanta còlera, come io veggio esser adesso in voi? – Il duca alora gli rispose, dicendo: – Sire, a me sembra pur troppo di strano che Tomaso Cremonello, figliuolo d’un furfante cimatore di panni, si voglia tutto il dí lavar le mani nel nostro sangue e fare un macello di tutti i nobili de la contrada, non essendo mai settimana che qualcuno non ne faccia decapitare, per restare senza persona che gli ardisca rinfacciare la viltá del suo sangue poltroniero, non si sapendo di che ceppo suo padre sia uscito. Egli ha fatto condannare il signor Tomaso mio nipote a morte e vuole che dimane su la [p. 169 modifica]piazza di Londra publicamente, come un assassino, gli sia mozzo il capo. E perché? che sceleratezza ha egli commessa? che fallo, che per man d’un manigoldo debbia morire? Egli forse dirá: perciò che ha sposato la figliuola di madama vostra sorella, che nel primo matrimonio fu reina di Scozia. Ma questo che peccato è? Non sapete, sire, che i matrimoni deveno esser liberi e volontarii e che ciascuna donna può prender per marito chi piú le aggrada, ed altresí l’uomo è ne la medesima libertá, e il padre proprio non può vietare che la figliuola non prenda per marito quell’uomo che vuole? Non fa il matrimonio il giacer insieme e godersi carnalmente un uomo e una donna, ma il cambievole consentimento libero e volontario è quello che rende il matrimonio vero. Sí che, signor mio, non permettete questi omicidii anzi publici assassinamenti, e levate via l’occasione ai vostri sudditi d’incrudelire contra i vostri ufficiali. – Il re su questo fece chiamare il contestabile in camera e gli domandò la cagione de la sentenza data contra il signor Tomaso. E dicendo il Cremonello certe sue pappolate senza ragione, il duca se gli rivoltò contra e, senza rispetto veruno de la presenza del re e de l’ufficio del contestabile che egli aveva, gli disse le maggior villanie del mondo e fieramente lo minacciò. Il re, che che se ne fosse cagione, lo lasciò liberamente dire contra il suo contestabile tutto quello che egli volle. A la fine, dopo essersi lungamente disfogato, il duca ultimamente disse: – Io prometto a Dio, se mio nipote per questo matrimonio muore, non avendo altrimenti, che si sappia, peccato, che ne morranno piú di dieci. – E detto questo, se n’uscí de la camera del re senza prender altro congedo, e se n’andò al suo albergo. Rimase il re molto di mala voglia de la mala contentezza del duca, e si dice che stette buona pezza senza dir parola. Ora, perché il duca era il piú nobil barone che fosse in tutta l’isola de l’Inghilterra ed uomo appresso a quei popoli di grandissima stima e di molto séguito, non volle che il contestabile per quel giorno uscisse di castello, dubitando tuttavia di qualche inconveniente, e mandò piú fiate per ispiare ciò che il duca faceva, il quale non fece altro movimento che saper si potesse. Il dí seguente fece il re rivocar la sentenza publicata contra il signor Tomaso; nondimeno volle che tutti dui gli amanti rimanessero in prigione. Era il nipote del duca in una torre, a l’alto de la quale montando, poteva veder sua moglie, che era in un alto torrione assai vicino, e poteva da certe finestre parlar insieme; il che era pure a le passioni loro qualche alleggiamento, avendo tuttavia speranza che il re, mosso a pietá, [p. 170 modifica]gli farebbe cavar fuori. Ma la speranza loro era vana, perché il re s’aveva fitto in testa di voler che lá dentro facessero la vita loro. Condolendosi adunque tutti dui dei loro infortunii e pascendosi di vana speranza, s’andavano di giorno in giorno ingannando. Essendo poi certificati de la deliberazione del re, il signor Tomaso un giorno, essendo sua moglie a la finestra, che piangeva di questo crudel proponimento del re, dopo averla, a la meglio che seppe e puoté, consolata, ancor che ella consolazione alcuna non ammettesse, cosí le disse: – Consorte mia carissima e signora, io non vi cominciai giá mai ad amare per ammorzar in modo alcuno questo mio amore; ma la volontá mia sempre fu ed ancora è, fin ch’io viverò, amarvi ed onorarvi. Medesimamente l’animo mio non fu mai di far cosa che in qual si voglia occasione vi potesse recare né danno né noia. Ora io porto ferma openione che, se io fossi morto, il re vostro zio vi caveria di prigione, e cosí uscireste di questa misera cattivitá. Possendo io adunque con la mia morte rendere la vita a voi, che piú de la vita mia io amo, assai meglio sará che, io solo morendo, liberi voi da morte, che perseverar tutti dui in questa viva morte, senza speme d’uscirne giá mai. E perché non mi piace con le proprie mani incrudelire in me stesso, né appiccarmi come un ladrone o gettarmi da le finestre o dar del capo nel muro come forsennato, ho eletto morire a poco a poco, privandomi del cibo. E questa morte mi sará gratissima, sapendo che sará la salute vostra. – La donna lagrimando lo confortava, e diceva che, morendo egli, parimente ella non voleva restar in vita. Messosi adunque il signor Tomaso in cotal deliberazione, e non volendo a modo alcuno cibarsi, se ne morí. Il che sapendo la donna, deliberò di morire e stette dui o tre dí che mai non volle mangiare. Il che intendendo il re, la fece levar di prigione e con l’aiuto dei medici, cibandola per forza, la tenne in vita. Ma ella non s’è mai voluta maritare, e stando sempre malinconica, intendo che mena una vita molto lagrimosa, e mai non fa altro che pietosamente ricordar il suo signor Tomaso, maledicendo la crudeltá di chi cosí miseramente lo lasciò morire.


Il Bandello a l’illustre signore Ridolfo Gonzaga