Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LXI
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gli farebbe cavar fuori. Ma la speranza loro era vana, perché il re s’aveva fitto in testa di voler che lá dentro facessero la vita loro. Condolendosi adunque tutti dui dei loro infortunii e pascendosi di vana speranza, s’andavano di giorno in giorno ingannando. Essendo poi certificati de la deliberazione del re, il signor Tomaso un giorno, essendo sua moglie a la finestra, che piangeva di questo crudel proponimento del re, dopo averla, a la meglio che seppe e puoté, consolata, ancor che ella consolazione alcuna non ammettesse, cosí le disse: – Consorte mia carissima e signora, io non vi cominciai giá mai ad amare per ammorzar in modo alcuno questo mio amore; ma la volontá mia sempre fu ed ancora è, fin ch’io viverò, amarvi ed onorarvi. Medesimamente l’animo mio non fu mai di far cosa che in qual si voglia occasione vi potesse recare né danno né noia. Ora io porto ferma openione che, se io fossi morto, il re vostro zio vi caveria di prigione, e cosí uscireste di questa misera cattivitá. Possendo io adunque con la mia morte rendere la vita a voi, che piú de la vita mia io amo, assai meglio sará che, io solo morendo, liberi voi da morte, che perseverar tutti dui in questa viva morte, senza speme d’uscirne giá mai. E perché non mi piace con le proprie mani incrudelire in me stesso, né appiccarmi come un ladrone o gettarmi da le finestre o dar del capo nel muro come forsennato, ho eletto morire a poco a poco, privandomi del cibo. E questa morte mi sará gratissima, sapendo che sará la salute vostra. – La donna lagrimando lo confortava, e diceva che, morendo egli, parimente ella non voleva restar in vita. Messosi adunque il signor Tomaso in cotal deliberazione, e non volendo a modo alcuno cibarsi, se ne morí. Il che sapendo la donna, deliberò di morire e stette dui o tre dí che mai non volle mangiare. Il che intendendo il re, la fece levar di prigione e con l’aiuto dei medici, cibandola per forza, la tenne in vita. Ma ella non s’è mai voluta maritare, e stando sempre malinconica, intendo che mena una vita molto lagrimosa, e mai non fa altro che pietosamente ricordar il suo signor Tomaso, maledicendo la crudeltá di chi cosí miseramente lo lasciò morire.
Crederete voi forse, perché siate in Italia ed io qui ne l’Aquitania, che qui si chiama Guienna, che di voi mi sia scordato, o vero che le mie lettere non saperanno passar l’Alpi e trovarvi? Da questo, oltra agli infiniti commodi e grandissima utilitá e piaceri che le lettere dánno a’ mortali, si conosce di quanti bene elle siano cagione. E perciò non si può se non dire che bellissimo trovato sia quello de le lettere, le cui lodi e beneficii chi volesse raccontare non ne verrebbe cosí tosto a capo. Ma questo sapete voi meglio di me, e desiderate che io vi scriva di quelle cose che non sapete. Il che farò io volentieri; e prima vi darò nuova di madonna la signora Costanza Rangona e Fregola, mia onorata padrona e vostra amorevolissima zia, e dei signori suoi figliuoli, che tutti sono la Dio mercé sani. E per fuggir i caldi che in questi dí caniculari fanno grandissimi, siamo partiti tutti da la cittá e venuti ad un castello, o sia villa, detta Bassens, vicina a la Garonna, posta sopra un fruttifero ed amenissimo colle, ove abbiamo un’aria salubre e freschissima. Qui abbiamo di continovo buona compagnia di signori baroni e dame del paese, che vengono molto spesso a visitar madama, e stiamo di brigata allegramente, prendendoci quei diporti che la stagione ci presta. Ci venne questi dí madama Maria di Navarra, figliuola del re Giovanni e sorella d’Enrico oggidí re di Navarra. Eraci madamisella di Lusignano e madamisella di Vaulx con altre donne. V’era anco monsignor di Frigemont de la nobilissima stirpe di Montpesat, e vi si ritrovò il barone di Ramafort, giovine di nobilissimo e molto antico legnaggio, il quale è stato assai in Italia e intende e parla assai acconciamente il parlar italiano. Egli è poi il piú festevol compagno e quello che meglio sappia con bei motti e faceti rallegrare e tener in festa quelli che seco sono. Onde, essendo le donne ritirate in camera e tutti noi altri iti a diporto nel giardino, che ci abbiamo molto bello, fu pregato il barone di Ramafort che con una de le sue novellette ci volesse intertenere. E cosí, essendo tutti assisi sotto un pergolato, egli narrò una novella che pur assai ci fece ridere e meravigliarsi tutta la compagnia. E certo a me parve una cosa molto strana. Avendola adunque scritta, con la comoditá di questo messo ve la mando e vi dono, a ciò che sempre col vostro onorato nome in fronte si veggia, e s’intendano i varii accidenti che, or qua or lá, tutto ’l dí accadono. State sano.Novella LXI
Ritornando io ultimamente d’Italia, feci il camino per la Linguadoca, e, passando per una antica e nobile cittá, mi fu da un mio oste detto che non era molto che era accaduta una novella, la quale parendomi strana, me la feci narrare piú d’una volta per meglio imprimerla ne la mente. Ora che le nostre madame sono ritirate e che abbiamo alquanto piú largo campo di novellare che quando elle ci sono, io vi vo’ dir quanto alora in Linguadoca intesi, che dapoi da persone molto degne di fede m’è anco stato affermato per cosa indubitata e vera. Dico adunque che in quelle parti fu un monastero di monache di san Francesco, ed ancora v’è, di santitá e religione famosissimo, nel quale sono vestite monache nobilissime e de le prime schiatte di tutta Francia, che vivono sotto il governo di cinque o sei frati minori a tal cura dal loro ministro de la provincia deputati. Questi dimorano di continovo ne le stanze a posta fabricate per loro e che col monastero son congiunte. E parlando tutto il dí e conversando con le monache, prendono con quelle una famigliar domestichezza; cagione che talora quella conversazione che deverebbe tutta essere spirituale, diventa carnale e fa che si viene ad carnis resurrectionem, perciò che la troppo familiaritá partorisce poco rispetto, e come la riverenza manca, si vien poi ad un guazzabuglio. Ora avvenne che in detto luogo fu mandato un fra Filippo, uomo di ventitré o ventiquattro anni, che era nei servigi de le donne molto gagliardo, e in quelli assai piú volentieri s’affaticava che a cantar in coro o far gli altri essercizii de la santa religione. Questi, come fu giunto in quel santo collegio e vide la privata domestichezza che s’usava, tra sé deliberò di mettersi a la prova, per vedere se trovava possessione da vangare e lavorare col suo piuolo, col quale egli soleva talor piantar gli uomini. E tentando diversi terreni, si domesticò molto con la vicaria del monasterio, che era donna d’altissimo legnaggio, e seco cominciò a parlare de le cose spirituali, narrandole l’istoria de le stigmate di san Francesco e de la penitenza che fece in Toscana nel monte de l’Avernia. E continovando questa sua pratica, cominciò a venir al basso e parlare de le cose de l’amore. Al che la vicaria dava poca udienza, del che egli si mostrava restar molto di mala voglia. Nondimeno da l’impresa punto non si ritraeva, ma piú di giorno in giorno si mostrava d’arder per lei. E perché le povere monache lavavano i panni dei frati fin a le brache, egli talvolta dava le sue brache a lavare, che erano stranamente ricamate a la damaschina con certi parpaglioni su, che averebbero fatto stomaco a Guccio porco. Né ad altro effetto fra Filippo dava le brache cosí ricamate se non che, veggendole la sua amica dipinte di quel modo, si movesse a pietá di non lasciarli gettar via l’umor radicale, ma fosse contenta di prestargli il mortaio, a ciò che esso potesse pestarvi dentro col suo pestello la salsa. Insomma non poteva fra Filippo far cosa che gli profitasse. Per questo si deliberò non parlar piú in zifera, ma apertamente dirle il suo bisogno. E cosí, pigliata un giorno la oportunitá ed entrato seco in varii ragionamenti, a la fine le disse: – Madama, io piú e piú volte mi sono apposto per farvi conoscer l’amore ch’io vi porto e la tormentosa passione che per voi soffro; ma voi non m’avete mai voluto intendere, di modo che, veggendomi da soverchio tormento morire, sono sforzato gittarmi a’ piedi vostri ed umilissimamente chiedervi mercede e supplicarvi che abbiate pietá di me, perciò che io non posso piú durare in queste passioni. – La monaca, che poco di lui e meno de le sue ciance si curava, gli rispose che egli le pareva un pazzo a dir simili materie e che in altro pensasse. Fra Filippo, che averebbe voluto appiccar la coda a la cavalla di compar Piero, le rispose e le disse: – Madama, voi non fate se non dire, e non sentite ciò che sento io. Ma se la cosa vostra vi desse la metá fastidio che fa quel mio diavolo che ho tra le gambe, voi pregareste me, ove io ora sono astretto a pregar voi; ché vi giuro per lo battesimo che ho in capo, che tutto il dí e tutta la notte egli mi sta dritto e duro come una cavicchia di ferro, e mi dá tanta passione che io nol posso sofferire.– Sentendo queste pappolate, la monaca quasi mezzo adirata gli disse: – Fra Filippo, se voi non lo potete sofferire, vostro sia il danno: andate e tagliatevelo via, e sarete libero dal tormento che dite che vi dá. – Si partí molto di mala voglia messer lo frate, ed entratogli il diavolo nel capo, se n’andò a la sua camera, ed avuto, non so come, un rasoio, prese un laccio e quanto piú stretto puoté con dui e tre nodi si legò vicino ai testimoni il membro, e col rasoio in un tratto via se lo tagliò tutto netto. E non sentendo ancor dolore, perciò che la stretta legatura aveva di modo mortificato il membro, che sangue non ne usciva né gli dava doglia alcuna, se n’andò a trovar un frate suo compagno, che era consapevole dei suoi segreti, e sí gli disse: – Frate mio, io mi sono castrato, e so che il mio membro piú non mi molesterá. Guarda qui. – Restò il compagno a simile spettacolo tutto stordito, né sapeva che si dire. Da l’altra parte fra Filippo, a cui pareva d’aver fatto uno dei bei tratti del mondo, si messe d’allegrezza a saltare. Ed ecco che al secondo o terzo salto che fece, il laccio si snodò e cominciò il sangue con larga vena ad uscire, e il dolore a crescere, di modo che il povero fra Filippo, perdute le forze, si abbandonò e si lasciò andar stramortito in terra. Il suo compagno, veggendo cosí strano accidente, levò la voce e quanto poteva piú alto domandava alta, ed avevasi recato fra Filippo ne le braccia. Gli altri frati, udendo il grido, corsero tutti lá e trovarono fra Filippo piú morto che vivo, e dal suo compagno intesero la cagione del suo male; il che a tutti parve pure la piú strana cosa del mondo, e quasi pareva loro che fosse incredibile. Tuttavia, veggendo l’abbondanza del sangue che per terra era, essendovi tra loro alcuno che un poco di cirugia s’intendeva, andò e con certi suoi ogli e polvere fece stagnare il sangue e mitigò assai il dolore a l’infermo, il quale liberamente a tutti narrò la cagione perché sí stranamente s’era circonciso. Alora tutti quei frati corsero a picchiar la porta del monastero con tanta furia che pareva che il mondo abissasse. Le monache, sentito il romore, corsero ad aprir la porta, ed aspettando sentir qualche gran novella d’importanza, i buon frati le dissero la fiera disgrazia e strano accidente che al padre fra Filippo era avvenuto. Le monache, udendo simil pazzia e credendo che i santi frati si burlassero, gli dissero che avevano fatto una bella baia a metter tutto il monastero col lor battere a la porta in romore, e che non credevano a le lor ciance. I frati affermavano pure con santi giuramenti la cosa esser cosí. E veggendo che le monache non erano disposte a volerla credere, dui o tre di loro andarono ne la camera ove fra Filippo aveva fatto la beccaria, e trovarono il povero ser Capoccio in terra tutto pallidetto e languido, e quello presero, mettendolo suso un quadro, il quale tutto copersero, ché era di maggio, di rose, fiori e d’erbe odorifere, come se fosse stata la reliquia di san Brancaccio. Cosí ben adornato, lo portarono a le monache e dissero loro: – Eccovi il testimonio di quanto v’abbiamo narrato, a ciò non crediate che noi v’abbiamo detto bugia. – Le buone donne presero il quadro in mano e discopersero il povero pistello e molto bene lo guardarono, biasimando tutte fra Filippo che avesse fatto sí gran pazzia. Dopoi con dolor di tutti fu data sepoltura a quella poca carne, che non era piú buona a far servigio; e fra Filippo, come fu guarito, non potendo sopportar la baia che le monache e i suoi compagni tutto il dí gli davano, avuta la dispensa dal sommo pontefice, si fece monaco di san Benedetto.
Non mira il cielo con tanti occhi in terra alora che è piú lucido e sereno, quanti sono i varii e fortunevoli casi che in questa vita mortale avvengono. E se mai fu etá ove si vedessero di mirabili e differenti cose, credo io che la nostra etá sia una di quelle ne la quale, molto piú che in nessun’altra, cose degne di stupore, di compassione e di biasimo accadono. S’è veduto a’ nostri dí, ne le cose pertinenti al culto divino e dei santi e circa la fede catolica, quante sètte, dopo che Martino Lutero ha contra la Chiesa alzate le corna, sono nasciute e quante cittá e provincie, sprezzato il vivere dei padri loro, da tanti dottori antichi e santi uomini approvato e generalmente dal publico consenso dei buoni dal nascimento di Cristo in qua osservato, variamente vivono; di maniera che oggidí, in quelle genti che da la Chiesa separate si sono, per vivere non ne la libertá de lo spirito buono, ma ne la libertá de l’affezioni loro, sono altre tante le sètte quanti sono quelli che giudicano, sforzandosi ciascuno in particolare di trovar qualche error nuovo, e tutti insieme esser differenti. Il che mi par esser assai manifesto indizio e fortissimo argomento che il Redentor nostro Cristo Giesu non ha parte in loro, ché se egli v’avesse parte, ve l’averebbe anco lo Spirito Santo, la cui vertú e proprietá è unire le cose disunite, non dividere né separar quelli, che devono una medesima cosa essere e caminar una medesima via. Ne le cose poi mondane ha questa nostra etá veduto i turchi aver pigliato tutta la Soria e disfatto il soldano con la setta dei mamalucchi, vinto Belgrado, debellato Rodi, soggiogata la piú parte de l’Ongaria ed aver assediata Vienna d’Austria e fatto in