Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella I
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IL BANDELLO
a la molto illustre e vertuosa eroina
la signora
IPPOLITA SFORZA E BENTIVOGLIA
Si ritrovarono ai giorni passati in casa vostra in Milano molti gentiluomini, i quali, secondo la lodevol consuetudine loro, tutto il giorno vi vengono a diporto, perciò che sempre ne la brigata che vi concorre v’è alcun bello e dilettevole ragionamento degli accidenti che a la giornata accadeno, così de le cose d’amore come d’altri avvenimenti. Quivi sovragiungendo io, che mandato dal signor Alessandro Bentivoglio vostro consorte e da voi a la signora Barbara Gonzaga contessa di Gaiazzo, per cagione di dar una de le signore vostre figliuole per moglie al signor conte Roberto Sanseverino suo figliuolo, allora ritornava con la graziosa risposta da lei avuta, tutti tre andammo in una camera a la sala vicina, ove io quanto negoziato aveva v’esposi. Parve al signor Alessandro e a voi che il tutto a quei gentiluomini che in sala aspettavano si devesse communicare, acciocchè ciascuno dicesse il suo parere. Proposi in sala a la presenza di tutti il fatto, come prima al vostro consorte e a voi detto aveva. Furono varii i pareri de la compagnia, secondo che gli ingegni, le nature e l’openioni sono diverse. Tuttavia ultimamente, il tutto ben considerato, si conchiuse non esser più da parlar con la signora contessa di questa pratica, poi che di già l’arcivescovo Sanseverino zio del conte Roberto teneva il maneggio di dare al detto suo nipote la sorella del cardinal Cibo, acciocchè papa Lione contro voi non s’addirasse. E così mi commetteste che di cotal deliberazione io n’avvisassi la contessa, il che fu da me il seguente giorno puntualmente eseguito. Era tra gli altri in compagnia il molto gentile messer Lodovico Alemanni, ambasciator fiorentino, il quale, avendo inteso la prudentissima risoluzione che si fece, assai con accomodate parole quella lodando, disse, che meglio far non si poteva. Ed a questo proposito egli narrò un fierissimo accidente, altre volte a Firenze avvenuto. Il quale essendo attentamente stato udito, viepiù confermò il signor vostro consorte e voi ne la fatta conchiusione. Ond’io, parendomi il caso degno di compassione e di memoria, così precisamente com’era stato dall’Alemanni detto, quello scrissi. Sovvenendomi poi che voi più e più volte essortato m’avete a far una scelta degli accidenti che in diversi luoghi sentiva narrare e farne un libro; e già avendone molti scritti, pensai, sodisfacendo a l’esortazioni vostre, che appo me tengono luogo di comandamento, metter insieme in modo di novelle ciò che scritto aveva, non servando altrimenti ordine alcuno di tempo, ma secondo che a le mani mi venivano esse novelle disporre, ed a ciascuna di quelle dar un padrone o padrona dei miei signori ed amici. Il perchè avendo questa de l’Alemanni scritta, ancor che altre ne siano state narrate a la presenza vostra, benfatto giudicai che, questa al nome vostro donando ed ascrivendo, quello a le mie novelle io ponessi per capo e difensiva insegna. Essendo adunque stata voi la causa e l’origine, non bene misurando le forze mie, che io le novelle scrivessi, quali elle si siano, convenevol cosa m’è parso che voi siate la prima a la quale io, pagando il debito de la mia servitù e di tanti beneficii vostri verso di me, ne doni una, e che innanzi al libro siate quella che mostri la strada a l’altre. Io mi do a credere, anzi porto pur fermissima openione, che voi le cose mie leggerete, perchè assai spesso ho veduto quanto lietamente esse mie ciance pigliate in mano, e buona parte del tempo quelle leggendo consumate. Nè di questo contenta, le rileggete, e, che assai più importa, quelle lodate. E ben che alcuni potrebbero dire che voi gli scritti miei commendiate, non perchè essi siano degni d’esser nè letti nè celebrati, ma perchè da me vengono che tanto vi son servidore, e che voi, la vostra mercè, in mille casi avete dimostro tener più caro che forse, risguardando a ciò ch’io sono, non si converrebbe, essendo voi, tra le rarissime donne del nostro secolo, la più, di vertù, di costumi, di cortesia e d’onestà, rara, e di buone lettere latine e volgari ornata, che a la vostra divina bellezza maggior grazia accrescono, io nondimeno me ne tengo sempre da più, conoscendo l’acutezza del vostro ingegno, la erudizione, la dottrina e tante altre vostre singolari ed eccellentissime doti. Ogni dì facil cosa è a veder la profonda conoscenza che in voi è de le buone lettere, essendovi di continovo, ora portati versi latini ed ora volgari, i quali subito voi, con una volta d’occhio leggendo, il senso loro penetrate di modo che par che altro non facciate che attender agli studi. Più e più volte v’ho io veduta disputando venir a le mani col nostro eruditissimo messer Girolamo Cittadino, che in casa con onorato salario appo voi tenete, se tallora occorreva passo alcuno recondito ne la lezione o di poeti o d’istorici, e così dottamente l’opinione vostra con vere ragioni dichiaravate, che era stupore e miracolo a sentirvi. Ma che dirò io del giudicioso vostro giudicio, intero, oculato e saldo e non pieghevole in qual banda si voglia già mai, se non quanto la ragione del vero il tira? Meravigliosa cosa certo è quanto profondamente e con sottigliezza grandissima talora certi passi degli scrittori cribriate, ventiliate, e a parola per parola e senso per senso andiate di maniera interpretando, che ogni persona che vi sente ne rendete capace. Questo mi fa, veggendo che, quando un poema od altra scrittura avete in mano, scegliete il buono ed il meglio che v’è dentro e fate differenza da stile a stile, lodando ciò che meritevole è di lode, di modo che Momo il giudicio vostro morder non saperebbe, mi fa, dico, credere che, dicendo voi bene de le cose mie, l’affezione che mi portate, non v’inganni, essendo il giudicio vostro così sincero e da ogni parte dritto e fermo. Ora, chi udita v’avesse quel giorno che il dotto dottore e poeta soavissimo M. Niccolò Amanio venne a farvi riverenza, e che furono letti i due sonetti, uno della signora Cecilia Bergamina, contessa di San Giovanni in croce, e l’altro della signora Camilla Scarampa, quanto accomodatamente disputaste de l’ufficio del poeta e de le parti che deve avere chi vuol versi latini o volgari comporre, e quanto acutamente faceste chiari i dubii che proposti vi furono, e con quanta copia di parole pure e proprie, e con quanto bell’ordine il tutto dichiaraste, averebbe egli nel vero detto che non donna era quella che parlava, ma che alcuno dei più dotti e facondi uomini ed eloquentissimi che oggi vivano fosse stato il dicitore. Io per me so bene che non mi sovviene aver così copiosamente sentito alcuno parlare di cotal materia, come con mia grandissima sodisfazione ed infinita contentezza allora la vostra dichiarazione ascoltai. Il perchè quelli che ebbero grazia d’udirvi restarono tutti sì pieni d’ammirazione, che non sapevano che dirsi. Ma io mi sono lasciato troppo trasportare, non essendo questo il luogo debito a le vostre lodi, a le quali assai più purgati inchiostri si converrebbero. Pertanto ritornando a la mia novella, che fu allora da l’Alemanni narrata e poi da me scritta, quella al glorioso vostro nome dedico e consacro, acciocchè, se mai sarà chi le mie novelle, quando tutte saranno insieme, prenda in mano, conosca che da voi a scriverle mosso fui; e se nulla di buono in quelle troverà, ringrazii prima il dator d’ogni bene, il nostro Signor Iddio, e voi appresso da cui procede, e convenevoli grazie ve ne renda. Se poi, come di leggiero forse avverrà, cose assai vi saranno rozze, mal esplicate, nè con ordine conveniente poste, o con parlar barbaro espresse, a la debolezza del mio basso ingegno l’ascriva e al mio poco sapere, e pigli in grado il mio buon volere, pensando ch’io son lombardo e in Lombardia a le confini della Liguria nato, e per lo più degli anni miei sin ad ora nodrito, e che, come io parlo così ho scritto, non per insegnar altrui, nè accrescer ornamento a la lingua volgare, ma solo per tener memoria de le cose che degne mi sono parse d’essere scritte, e per ubidire a voi che comandato me l’avete. State sana.
NOVELLA I.
Buondelmonte de’ Buondelmonti si marita con una, e poi la lascia per prenderne un’altra, e fu ammazzato.
Io porto ferma openione, signori miei, che nostro Signore Dio vi abbia spirato la sua grazia a far la determinazione che conchiusa avete di non voler più attendere a la pratica di dare una de le vostre signore figliuole per moglie al signor conte di Gaiazzo. Il parentado veramente è molto onorato e nobile, essendo il conte della antichissima casa Sanseverina, che già molti secoli ha posseduto e possede nel Reame di Napoli ducati, prencipati, contee e baronie e stati opulentissimi, da la cui stirpe sono usciti uomini eccellentissimi, così ne la milizia come in altre vertù. Esso conte poi è cavaliere molto onorato, giovine della persona benissimo disposto, e che punto da li padri e avoli suoi non traligna. Onde non potrebbe di lui se non buono ed onorevole parentado venirvi. E ben che, secondo che qui è stato detto, la signora contessa sua madre volentieri con voi s’imparentasse, pigliando la signora vostra figliuola per nora, nondimeno, avendo già papa Lione fatto principiare il maneggio di dare al conte per moglie una sirocchia del cardinal Cibo, che è figliuola d’una sorella di esso papa, io crederei che non ve ne potesse se non seguire molto disturbo; chè essendo voi fuorausciti di Bologna, e dimostrando papa Lione volervi bene e già fattovi molti piaceri, egli si potrebbe in così fatta guisa sdegnare, che a voi sarebbe di non picciolo danno, e tanto più che a la corte di Francia, ove al presente il conte si ritrova, seco la pratica per uno gentiluomo espressamente dal cardinal Cibo mandato si maneggia. Sì che, signori miei, fatto avete saviamente resolvendovi della maniera che resoluti siete. A voi non mancheranno generi secondo la qualità e grado della condizion vostra. Ed acciocchè con alcuno essempio io dimostri quanto nocivo sia far mercatanzia di questi matrimonii, a me piace di narrarvi le funeste e lagrimose nozze d’un cittadino di Firenze, origine e cagione della rovina e divisione di quella nostra città, che fino a quel tempo era vivuta in grandissima pace e tranquillità, essendo quasi tutta Italia piena di sètte e di parzialità.
Erano adunque gli anni di nostra salute mille ducento quindeci, quando il miserabil caso, di cui parlarvi intendo, avvenne; e fin allora la città nostra era sempre stata ubidiente a li vincitori, non avendo i fiorentini cercato di ampliar lo stato loro nè offender li vicini popoli, ma solamente atteso a conservarsi. E perchè li corpi umani quanto più tardano ad infermarsi, tanto più le infermità che poi li sopravengono o di febre o d’altro male sono più dannose e mortali e seco mille pericoli recano, così avvenne a Firenze che, quanto più tardi ella stette a pigliar le parti e divisioni che per tutta Italia con rovina di quella erano sparse, tanto più poi di tutte l’altre dentro vi s’involse, e le sètte seguitò, cagione del miserabile essilio e crudel morte di tante migliaia di cittadini. Chè in vero, chi ben calcolasse, io penso che tanti uomini siano stati cacciati di Firenze e tanti miseramente ammazzati, che, se fossero uniti insieme, farebbero una città più maggior assai che ora essa Firenze non si trova. Ma, venendo al fatto, dico che tra l’altre famiglie della nostra città nobili e potenti, due ce n’erano per ricchezze e sèguito di gente potentissime e di grandissima reputazione appo il popolo, cioè gli Uberti e i Buondelmonti, dopo li quali nel secondo luoco fiorivano gli Amidei e li Donati, ne la qual famiglia de li Donati si ritrovava una gentildonna vedova molto ricca, con una figliuola senza più d’età idonea a poter maritarsi. La madre di lei, veggendola di bellissimo aspetto ed avendola molto costumatamente allevata, e pensando a cui la dovesse maritare, le occorrevano molti nobili e ricchi che le piacevano assai; nondimeno sovra tutti gli altri pareva che le aggradasse più messer Buondelmonte de’ Buondelmonti, cavaliere molto splendido e onorato, ricco e forte giovine, che della Buondelmondesca fazione era allora il capo. Disegnando adunque darla a costui, e parendole che il tempo non passasse, per esser il cavaliere e sua figliuola giovini, o fosse negligenza o che che se ne fosse cagione, andava differendo, e di questo suo disegno nè parente nè amico faceva consapevole. Mentre che la vedova temporeggiava, e forse credeva poter sempre esser a tempo, ecco che il caso fece che un gentiluomo degli Amidei tenne pratica con messer Buondelmonte di dargli una sua figliuola per moglie; e stringendosi la cosa ed il maneggio da l’una parte e da l’altra, la bisogna andò di modo che la fanciulla degli Amidei, convenutosi della dote, si maritò in messer Buondelmonte. Si divolgò questo matrimonio per esser tra persone nobili subito per la città, ed il padre della promessa fanciulla pensava a l’apparecchio de le nozze, acciocchè fossero della pompa e grandezza che a le parti si conveniva. Intendendo cotesto matrimonio la vedova de li Donati, veggendo il suo disegno non le esser riuscito, si trovò di malissima voglia, e in modo alcuno non si poteva rallegrare, pensando tuttavia se modo trovar si potesse che il parentado del Buondelmonte con l’Amidea non andasse innanzi. E poi che assai pensato e ripensato v’ebbe, non le occorrendo altra via, s’imaginò provare se con la bellezza della figliuola, che conosceva essere una de le più belle fanciulle di Firenze, poteva irretire messer Buondelmonte. Il perchè senza communicar questo suo nuovo pensamento a persona, ma da se stessa consigliatasi, vide non dopo molto che messer Buondelmonte veniva, senza compagnia di gentiluomini, solo da’ suoi servitori accompagnato, per la contrada ove ella aveva la casa; onde discesa a basso si fece da la figliuola seguitare, ed essendo in porta, nel passarle vicino il cavaliere, se li parò innanzi e con ridente viso gli disse: Messer Buondelmonte, io molto mi rallegro con voi di tutte le vostre contentezze e vosco mi congratulo che abbiate preso moglie, della quale nostro Signore Dio vi dia ogni allegrezza. Egli è ben perciò vero che io vi serbava questa mia unica figliuola che qui meco vedete; e questo dicendo tirò con mano la figliuola innanzi, e volle che il cavaliere a suo agio la vedesse. Il quale, veduta la rara beltà e i bei modi della giovane, fieramente tantosto di lei s’accese, e senza pensare a la fede già data agli Amidei e al contratto giuridicamente fatto, non considerando l’ingiuria che troppo alta faceva a rompere il parentado nè a li disordini che seguire gli ne potevano repudiando la già accettata sposa, vinto dal desiderio ed appetito che aveva di goder questa nuova bellezza, che di sangue e di ricchezza a l’altra non riputava in conto alcuno inferiore, in questo modo con parole interrotte a la vedova rispose: – Madonna, poi che voi dite avere fino a qui guardata questa vostra gentile e bella figliuola per me, io sarei via più che ingrato a rifiutarla, essendo ancora a tempo di poter fare ciò che a voi più sarà a grado. Dimane io ritornerò qui a voi subito dopo pranso, e più agiatamente parlaremo insieme. Rimase la buona vedova contentissima, ed il cavaliere, avendo da lei e da la fanciulla preso congedo, andò a fare altre sue faccende. Venuta poi la notte, pensando il cavaliere a le bellezze della veduta giovane, e di quelle in modo acceso che una ora li parea un anno di esserne possessore, deliberò, senza mettervi più tempo, il dì seguente celebrare le nozze. E benchè talora la ragione li mettesse innanzi che questa era cosa malissimo fatta e indegna d’onorato cavaliere come egli era istimato, s’era il misero amante da una breve vista di begli occhi della fanciulla avvelenato e tanto a dentro il liquido fuoco e sottile dell’amor che ne la bella giovane posto avea, l’accendeva, ardeva e consumava, che venuto il giorno, come ebbe desinato, andò a trovare la vedova, e quello istesso dì celebrò le male essaminate nozze. Come queste intempestive e precipitate nozze furono per la città sapute, fu generalmente reputato che il Buondelmonte si fosse da sciocco governato, e ciascuno di lui mormorava. Ma sovra tutti, e molto più di tutti, gli Amidei se ne sdegnarono fieramente, e con esso loro senza fine si adirarono gli Uberti a quelli per parentado congiunti. Convennero adunque insieme con altri loro parenti e amici, pieni di mal talento, e di fellone animo contro messer Buondelmonte conchiusero che quella ingiuria e sì manifesta onta non era a modo veruno da sopportare, e che così vituperosa macchia non si poteva se non con l’istesso sangue del nemico e dispregiator dell’affinità loro lavare. Vi furono alcuni che, discorrendo i mali che ne potevono seguire, non volevano che tanto a furia fosse da correre, ma da pensarvi più maturamente. Era tra i congregati il Mosca Lamberti, uomo audacissimo e pronto di mano, il qual disse che chi pensava diversi partiti nessuno ne pigliava, e soggiunse quella volgata sentenza: Cosa fatta capo ha. Insomma, si conchiuse che la compita vendetta non si poteva far senza sangue. E così fu commessa l’impresa d’ammazzar messer Buondelmonte al Mosca, a Stiatta Uberti, a Lambertuccio Amidei e ad Uderigo Fifanti, tutti di parentado nobilissimo, e giovani valorosi e di cuore animoso. Ordinarono costoro ciò che bisogno era per dare effetto a tanto omicidio, e cominciarono a spiar tutti gli andamenti del cavaliere, per veder se a l’improviso coglier lo potevano, acciocchè non scappasse lor de le mani. E poi che diligentemente il tutto ebbero spiato, non volendo più tardare a dar essequuzione al fatto, essendo la settimana santa, deliberarono che il giorno di Pasqua di Resurrezione si devesse col sangue del cavalier consacrare. Così la matina della Pasqua i congiurati (essendosi la precedente notte posti in agguato nelle case degli Amidei, situate tra il Ponte vecchio e Santo Stefano, se ne stavano in ordine, attendendo che messer Buondelmonte, secondo che era consueto, dinanzi a quelle case passasse, perciocchè notato avevano che il più delle volte quella strada frequentava. Il cavaliere, che forse pensava esser così facil cosa lo smenticarsi una ingiuria come rinunziare ad un parentado, non pensando gli Amidei di ciò che loro offeso aveva curarsi, assai a buon’ora il mattino della Pasqua, essendo montato a cavallo suso un bellissimo palafreno bianco, passò dinanzi a le già dette case, per andar di là dal fiume. Quivi dai congiurati fu assalito, e per molte ferite a piè del ponte, sotto una statua che v’era di Marte, gettato da cavallo e crudelissimamente ucciso. Questo omicidio, sendo commesso in persona così notabile, fu cagione che Firenze tutta si divise, levandosi quello istesso dì a romore. Onde una parte si pose a seguitar gli Uberti, che ne la città e fuori nel contado erano potentissimi, e l’altra parte s’accostò ai Buondelmonti, di maniera che tutta la città era in arme. Ora perchè queste famiglie erano forti di palazzi e di torri e d’uomini, guerreggiarono lungo tempo insieme, seguendo d’amendue le parti di molte morti. Ultimamente gli Uberti, con il favor di Federigo secondo, re di Napoli e imperadore, cacciarono fuori di Firenze i Buondelmonti, e allora si divise la città in due fazioni come già era tutta Italia, cioè in Ghibellini e Guelfi; che fu l’ultima rovina di molte famiglie nobilissime, di modo che dopoi le discordie e le sètte tra le parti, e tra li nobili ed il popolo e tra popolani grandi ed il popol minuto fecero varie e grandissime mutazioni, e sempre con spargimento di sangue grandissimo e rovine di bellissimi palazzi ed esilio di molti, il che particolarmente ricordar non è bisogno. Basti tanto averne detto, che si sia mostrato quanto di mal processe da le repudiate nozze dell’Amidea. Il che, signori miei, penso ch’ogni or più vi farà piacer la saggia e ben pensata resoluzione che fatta avete, e tanto più, quanto che le bellissime e di nobilissima creanza vostre figliuole sono ancor fanciulle e ponno liberamente aspettar miglior occasione.IL BANDELLO
all’illustrissimo ed eccellentissimo signore
il signore
PROSPERO COLONNA
luogotenente generale cesareo in Italia
Non m’è uscito di mente, valoroso, splendidissimo signor mio, quanto vi degnaste comandarmi, quando eravate a diporto nell’amenissimo giardino del signor Lucio Scipione Attellano. Quivi intendeste che alcuni giorni avanti, ritrovandovisi la degnissima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia, il generoso signor Silvio Savello narrò una bellissima novella, che sommamente a tutti gli ascoltanti piacque. Onde, dicendovi l’Attellano che io l’aveva scritta, m’imponeste che io ve la facessi vedere. E se fin ora ho tardato ad uscir di debito, scusimi appo voi il viaggio che il dì seguente, come sapete, mi convenne fare. Ora avendola trascritta, ve la mando e dono, non per ricambiar in parte alcuna tanto bene quanto a la giornata mi fate, chè bastante non sono a sodisfar delle mille ad una minima particella, ma per ubidire, come debbo, non solamente ai comandamenti vostri ma ad ogni minimo cenno, tanto è l’obligo ch’io mi sento avervi e che liberamente a tutto il mondo confesso. Ben mi duole non aver saputo imitar l’eloquenza del signor Silvio, che in effetto ne la sua narrazione mostrò grandissima; ma io son lombardo, ed egli romano. State sano.
NOVELLA II
Ariabarzane senescalco del re di Persia quello vuol vincer di cortesia, ove varii accidenti intervengono.
Questionato s’è più volte, amabilissima signora e voi cortesi signori, tra uomini dotti ed al servigio delle corti dedicati, se opera alcuna lodevole, o atto cortese e gentile che usi il cortegiano verso il suo signore, si deve chiamar liberalità e cortesia, o vero se più tosto dimanderassi obbligazione e debito. Nè di questa cosa senza ragion si contrasta, imperciocchè appo molti è assai chiaro che il servidore verso il suo padrone non può tanto mai ogni giorno fare, quanto egli deve di molto più. Che se per sorte non ha la grazia del suo re, e pur vorrà (come fa