Notturno (D'Annunzio)/Annotazione
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Indice |
ANNOTAZIONE.
Questo comentario delle tènebre fu scritto, riga per riga, su più che diecimila cartigli. La scrittura è più o meno difforme, secondo la sofferenza del male, secondo la qualità delle visioni incalzanti.
Nei mesi di maggio e di giugno dell’anno 1916 mia figlia Renata lavorò a interpretare gran parte delle liste, mentre in una luce modesta io scrivevo la Licenza aggiunta alla Leda senza cigno servendomi del medesimo accorgimento ma potendo di tratto in tratto con un’occhiata soccorrere alla dirittura.
L’interpretazione mi fu letta e poi — non senza mia riluttanza — fu data al mio editore che la stampò nell’autunno del medesimo anno. Comprendeva il testo di questo libro fino all’episodio dei soldati ciechi nell’ospedaletto da campo, alcuni altri frammenti della seconda parte e tutta la passione della settimana santa, sino alla fine.
Per il resto le difficoltà del decifrare e dell’ordinare si presentavano così gravi che scoraggiarono la pazientissima copiatrice. Le liste, sfuggite ai fermagli, s’erano confuse. Molte, scritte nelle ore della peggiore ambascia, contenevano due e perfino tre righe intersecate o sovrapposte. Altre — come, ad esempio, quelle che figurano le apparizioni del volto di mia madre — erano state consegnate di nascosto alla mia fedele infermiera con l’ordine di custodirle a parte e di non mostrarle ad alcuno.
Io stesso oggi stento a rappresentarmi le vicende di quel mio sforzo: le ispirazioni subitanee, le interruzioni brusche, le riprese agitate. Il getto era distrutto dalla minima pausa. Se per un attimo la mano s’arrestava, le masse mentali incandescenti crollavano, e subito nuova materia e nuovi aspetti subentravano impadronendosi della mia attenzione.
Per più settimane, mentre stavo supino in veglia, mentre soffrivo senza tregua l’insonnio, io ebbi dentro l’occhio leso una fucina di sogni che la volontà non poteva né condurre né rompere. Il nervo ottico attingeva a tutti gli strati della mia cultura e della mia vita anteriore proiettando nella mia visione figure innumerevoli con una rapidità di trapassi ignota al mio più ardimentoso lirismo. Il passato diveniva presente, con un rilievo di forme e con un’acredine di particolari che ne aumentavano a dismisura l’intensità patetica. Si comprende come il pericolo della follia fosse di continuo sospeso sul mio capo bendato. E si comprende come la volontà di esternare tanto tumulto fosse per me un tentativo di salvazione.
Quando le insistenze della mia gente si fecero ancor più vivaci per indurmi a trascrivere le liste che io soltanto potevo decifrare o divinare, crebbe la mia ripugnanza a mettere in balìa degli estranei una parte di me tanto oscura. Né avrebbe retto a una fatica così minuziosa l’occhio che mi rimaneva, turbato e tormentato tuttavia dall’infermità dell’altro non compita.
Inoltre la mia tristezza si faceva più selvaggia come più le notizie della guerra mi giungevano frequenti recate dai miei compagni anelanti che odoravano di battaglia come il beccaio sa di sangue e il falciatore sa di fieno.
Le giornate di Santa Gorizia mutarono ogni ansia e ogni impazienza in una disperazione risoluta. Seppi allora quel che significassero le parole di Michelangelo: «Non nasce in me pensiero che non vi sia dentro scolpita la morte.»
Non riescii a dominare me medesimo se non promettendo a me di vincere tutti gli impedimenti per restituire alla mia volontà l’ala che gli era propria.
Stavano contro di me i pronostici della sapienza e le apprensioni dell’affetto. Dichiaro con orgoglio e con gratitudine, dinanzi alle figliuole alle sorelle alle madri dei combattenti, che nella lotta ebbi alleata intrepida la creatura del mio sangue. Ella conosceva la mia necessità vitale; e sapeva come il pericolo che io portavo in me fosse più certo di quello ch’ero per incontrare. Insorse contro i divieti, e dell’altrui stupore seppe sorridere.
O giornata di Parenzo, pomeriggio di settembre e torbo e chiaro, con qual segno ti segnerò nella mia tavola votiva?
Conducevo il secondo gruppo dei bombardieri navali. Luigi Bologna, che era di nuovo il mio pilota, conosceva la mia prova e la secondava maschiamente, con un cuore senza fenditure. Il bordo della carlinga, su la mia destra, era libero a disegno. Avevo preso tra le mie gambe una giunta di quattro bombe in gabbia, da lanciare a mano; e avevo messo contro l’altimetro il pronostico della cecità subitanea.
A partire dai duemila metri di quota, feci alternativamente l’osservazione oftalmica e la fumata per tenere il gruppo riunito dietro la mia fiamma blu.
A tremila metri, il monòcolo vedeva. A tremila e duecento metri, vedeva. A tremila e quattrocento metri, vedeva «pur con l’uno».
Il pilota si voltava a ogni tratto verso di me con un cenno. Con un cenno gli davo il risultato dell’osservazione. Dialogo indimenticabile dell’amicizia guerriera nella grande altezza dove non può sopravvivere nulla che sia meschino o timido.
Il gruppo di testa nella foschìa aveva deviato verso Rovigno. Arrivai primo su la piazzuola della batteria antiaerea. Ridussi la quota d’attacco. Luigi Bologna calò a mille e seicento metri, con una manovra della più ardita eleganza fra zona e zona di tiro. Nel brusco cangiamento di pressione, vedevo ancóra. Tolsi le spine dalle mie bombe da gamba, e cercai di ridurre al silenzio il nemico e la mia sorte. In quell’epoca non avevo ancor ritrovato il grido primitivo della mia razza che ha sostituito agli schinieri di bronzo le gambiere di lana; ma il mio braccio levato avrebbe potuto cogliere una stella dall’empireo, tanto lo trasumanava l’allegrezza.
Quando calammo nel canale di Sant’Andrea e rimontammo lo scivolo, mi parve che i miei giovani compagni aspettanti, nel sollevarmi sopra le loro spalle, mi esaltassero alla cima della loro gioventù e all’apice delle loro ali.
Ero rinato.
La data della mia rinascita è il 13 di settembre 1916. E fui ben ribattezzato nel mare di bile.
Intumuit mascula bilis. E poi vennero le giornate del Vallone, di Doberdò, della quota 265, del Veliki, del Faiti. La necessità di portare la benda m’era ingombrante e fastidiosissima nel servizio aereo. Mi tenni per qualche mese alla terra. Nel Carso scabro calcolavo male le ineguaglianze del terreno. Nelle petraie affilate, nella mota rossa delle trincee e dei cammini coperti, mentre mi sforzavo di ristabilire continuamente «l’equilibrio laterale» su le mie grosse scarpe chiodate, ripensavo a un vecchio motto italiano che pareva convenisse alla mia fatica: «Senz’ali non può». Cadevo e mi rialzavo. Una sera giunsi dal Faiti al Vallone con l’anca e le ginocchia insanguinate. Ripartii con un piccolo fante ignoto che mi teneva per la mano. E colui che nel tempo della viltà aveva cantato gli eroi, quel medesimo nel tempo della virtù fu celebrato da un eroe con un canto vendicatore.
Lugubre era la macchia giallastra che occupava il mento la bocca il naso di un qualunque volto da me fissato. Quando nell’imminenza dell’azione mi accomiatavo da un compagno che andasse al pericolo per un’altra via, vedevo nella sua faccia il giallume foriero del dissolvimento; e non sapevo difendermi dal presagio sinistro. Ma sul far della notte la macchia si cangiava in anelli di luce, in aureole fluttuanti. Così una volta m’avvenne di chinarmi a sera verso un ferito che avevo salutato il mattino soffrendo di quel tristo segno. Gli tolsi l’elmetto e gli vidi il mio nimbo intorno al capo glorioso.
Quel nimbo è rimasto per sempre intorno al capo di mia madre, intorno alla sua santificata bellezza.
Ella non cessava di apparirmi all’inizio di ogni azione e al colmo. Non aveva più quel viso di tremenda desolazione che m’aveva fatto tanto soffrire nel supplizio supino. Aveva il viso fermo e coraggioso dei suoi anni adulti di sventura e di lotta.
Una sera di novembre, la sera di San Carlo, dopo le due vittorie su i due calvarii, nella dolina della Bandiera, nel cenacolo della caverna dove a mensa eravamo per celebrare in ritardo la pasqua dei morti, dal colonnello Perris fiore di prodezza e di gentilezza ebbi in dono un mazzo di rose rosse che un fante ignoto gli aveva portato di non so dove, attraverso i carnai e i deserti, per la festa del suo nome. Fu come «il miracolo del sangue». Stavamo attoniti e muti, quasi che non avessimo mai veduto una rosa fresca. Allora nel fondo buio della caverna mi apparve mia madre ridivenuta spiritualmente bella come di là dalla morte.
Era una sera di gennaio — il 27 gennaio 1917 — Quando un mésso di Luigi Cadorna mi recò l’annunzio fùnebre al letto dove m’aveva coricato una gran febbre. Mi alzai. Mi avvolsi nelle mie pellicce d’aviatore. Partii. Rifeci nella neve nel ghiaccio e nella febbre il viaggio di quel marzo d’avanti l’esilio. Rivalicai il Tronto. Rividi le foci dei piccoli fiumi. Rividi per la strada litorale i bovi, i carri, l’asinaio dietro il suo somiere. Ripassai sotto l’arco di mattone. Spinsi la mia porta socchiusa. Fiutai l’orribile odore dei fiori. La scala n’era piena. La prima stanza n’era piena.
Là era la bara.
Nelle mie notti di espiazione non avevo contemplato «la morte vestita di non che celeste pudore»? non avevo pensato all’arte di quel dio che nel dì novissimo «rimodellerà i volti dei suoi eletti a simiglianza della sua bellezza recóndita»?
Ella era anche più bella che la sua apparizione nella caverna, più bella che qualunque creatura umana da me conosciuta nei miei anni. La sua faccia era rimodellata secondo i lineamenti della sua anima. La sua anima non poteva essersi partita. Era tuttora accesa alla sommità del suo corpo consunto, come quelle fiammelle in cima a quei ceri. E la sua consunzione non era disfacimento. Dopo più di tre giorni, non dava alcun segno o sentore d’impurità. Era conservata dall’aroma del suo cuore.
Il popolo inginocchiato credeva alla santità, credeva al prodigio.
Su la fine del quinto giorno, la salma esposta nella chiesa, tuttora scoperta agli occhi del popolo che non si saziava di rimirarla, appariva immune dal fato carnale. L’«amore senza figura» e la «bontà senza figura» del Mistico avevano assunto quell’aspetto al limite dell’eterno. Così la morte non era più un passaggio oscuro tra due luci, ma era la congiunzione chiara di due luci.
Tale fu poi per me, da quel punto.
La chiusura della cassa, la discesa nella fossa, il rito del seppellimento non mi parvero se non una imposizione della consuetudine. Drizzammo sopra il tumulo di zolle una rozza croce fatta con la costa maestra e col baglio di un nostro vecchio trabàccolo: una rozza e nera croce incatramata.
Ma taglieremo nella pietra delle nostre montagne le statue atlantiche delle nove Muse ammantate, che sotto le grandi pieghe colonnari soffrano la passione della bellezza futura; e le drizzeremo a sostenere il sacrario rotondo ove sarà traslatata l’umile eroina. Ed ella mi prenderà nella medesima arca. Seco prenderà quel che di me perisce e quel che di me non muore.
Le debbo, nella più dura guerra, altissime ore di perfetta pace. Abolito il trànsito oscuro tra le due luci, la dipartita verso ogni più disperata impresa era il principio di un’estasi non paragonabile se non a quella dei rarissimi spiriti che si lanciarono e arrivarono all’apice mistico della vita.
O rotta notturna di Pola! O notte francescana di Cattaro! Passaggi d’oltremare a sciogliere un vóto di continuo rinnovato!
È scritto in uno dei miei libri di bordo: «Ho in me tanta pienezza di vita che, quando mi sporgo dalla prua, mi sembra di traboccare».
Venne il vasto sforzo d’ali, nel maggio seguente, sopra l’assalto delle fanterie; e il dominio acquistato nel cielo dell’Hermada, e la Pentecoste luttuosa del Timavo. E vennero poi gli altri nomi incisi nella tavola votiva: Cielo dell’Alto Adriatico, Cielo carsico, Bocche di Cattaro, Baia di Buccari, Bombardamenti diurni di Pola, Cielo di Vienna, Cielo del Piave, Marcia di Ronchi, Presa di Fiume, Spedizione di Zara, Difesa di Fiume, Ritorno al silenzio e alla solitudine.
Avevamo ripreso le armi dopo l’armistizio ingiusto. Solo col fiore dei combattenti, avevo cacciato dalla città del Carnaro la ladrerìa dei Serbi e l’insolenza degli Alleati. Nel luogo della città di traffico avevo fondato una città di vita per riaccendervi i fuochi che s’erano estinti su gli altari della Patria e per risollevarvi le imagini della Vittoria e della Grandezza ch’erano state abbattute nel fango pingue di Roma.
Perché la città di vita non fosse disfatta nello spazio spirituale dove io avevo alzato le sue torri e i suoi fari, era necessario che il sangue fraterno fosse versato. Era necessario che tra l’Italia nuova e la vecchia Italia fosse posto il delitto inespiabile, fosse scavata la fossa insuperabile. Era necessario testimoniare, con le ferite con le morti con le rovine, che l’Italia nuova respingeva per sempre ogni conciliazione e ogni contaminazione.
Così volli e così feci. Questa tragica volontà di sacrifizio mi varrà sopra le generazioni che verranno. Il dramma del Carnaro non è se non il dramma di tutta la Patria.
Nel tumulto aperto non ho mai pensato meno altamente che dentro il mio spirito chiuso. Un Bonaparte ben sapeva che «il coraggio viene dal pensiero».
Per ciò ho potuto vincere le mie ripugnanze e consentire a compiere l’interpretazione di queste foglie sibilline, benché io non abbia del tutto risolto in me il dubbio se non fosse stato meglio abbandonarle al vento disperditore.
«Queste foglie poneva in su l’altare; e, se ’l vento le spargeva, i suoi detti non avevano virtù né efficacia; ma, quando stavano immobili, avevano virtù, ed efficacia.»
Io non le pongo su l’altare frequentato. Rientro nella mia casa deserta dove mia madre, da che s’ebbe tolto il suo calzare bianco di sposa, non lasciò mai che il fuoco si spegnesse nel focolare ma ogni notte rinnovò l’arte di disporvi sotto la cenere un tizzo che durasse fino al nuovo giorno. E questo sapeva tutto il popolo, e tutto il popolo ne ha memoria.
Rientro nella mia casa; passo di stanza in stanza; salgo i tre gradini, e penetro nella quinta. Il vasto letto la occupa, dove fui concepito e generato, dove ben nacqui. Sopra il capezzale che tenne il santo volto di mia madre trasfigurato in perpetua bellezza, pongo le foglie della mia passione e della mia devozione perché vi rimangano immobili.
Dolorosissimo fu il mio sforzo d’interprete e di trascrittore. Troppo spesso mi pareva di riaprire le mie intime piaghe e di lavorarci dentro coi ferri esatti. Troppo spesso mi pareva che i potenti fantasmi mi saltassero alla gola e mi soffocassero. E, per non poter vincere un orrore quasi corporale, ho tralasciato e abbandonato più d’un fascio di liste.
Ma come qui l’aspirazione è illuminata dalla divinazione! Inerme lo spirito sembra già osare quel che poi oserà armato. Sorgono dal silenzio parole che poi m’avverrà di sentir risalire alle vive labbra esortando compagni e seguaci. E in una delle mie imaginazioni musicali non vibrano le «tre tavole di ponte» dove poi si serreranno i Trenta di Buccari? E nel giro della strofe notturna non ritorna quella cadenza che sarà la legge ideale del combattente rientrato nella «fucina dove si fonde la sostanza nuova»?
E v’è una sola costellazione |
E in quella invenzione del fiume e del guado, condotta a consolare me stesso e l’eroe ribadito alla terra, non è quasi un presentimento di quella riva dove poi piantammo la vittoria «mutilata e sanguinosa contro l’invasore»?
Non vana era la tristezza di quel colloquio pasquale tra l’eletto della gloria e il deluso della morte. Rividi Oreste Salomone laggiù, sul campo di Puglia, alla vigilia del bombardamento di Cattaro. Era venuto seguendo la sua ansia di ridonarsi, perseguitato e attraversato dai sedentarii. Mi chiese ch’io lo prendessi nel mio equipaggio, anche in luogo del mitragliere su la torretta di poppa. Non riesca a superare gli impedimenti opposti. Rimase crucciato e umiliato a terra.
Poi, una notte, in una prova di volo a lume di stelle, appunto con uno dei miei fedeli di Cattaro, col lanciere bianco Mariano d’Ayala, scendendo al campo di Padova, per un errore manuale perse la vita. E con la sua vita restò mozza la cima di un bell’albero.
Accendetegli ogni anno un fuoco sul Vùlture!
A una a una cadono le ultime aquile della battaglia. Nel medesimo fondo di laguna dov’era precipitato Giuseppe Miraglia, in un mattino placido dello scorso settembre anche Luigi Bologna si spezzò le ali e le ossa. Nella medesima camera funeraria, all’ospedale di Sant’Anna, dove insieme avevamo vegliato il nostro compagno della prima guerra, io sollevai il lembo della bandiera per riconoscere quel viso forte che nella giornata di Parenzo s’era voltato verso di me con un cenno non dissimile a quello dell’addio.
E l’altrieri il mio pilota degli estremi ardimenti, il pilota della prima squadriglia navale di Siluranti aeree, il pilota della squadra di San Marco, quello del mio bel SIA 9 B sparvierato, Luigi Garrone, cadde in vista di quell’Isonzo che più non trascina al mare corpi d’uccisi ma speranze disfatte.
E non rivedrò quel suo pallido viso malaticcio sotto i capelli lisci e quei suoi pallidi occhi riflessivi e tutta quella sua fragilità quasi feminea che chiudeva come in una guaina di vetro la lama della sua energia. Ma ben lo rivedo in quella grande impennata repentina contro il sole, nel cielo del Grappa, fra le quattro granate esplodenti in capo in coda e alle ali del nostro «sparviero». Ma lo rivedo nel ritorno dai bombardamenti e dalle esplorazioni lungo il Piave, quella sera che sul campo di San Nicolò non erano ancóra accesi i proiettori, quando ci schiantammo in perdizione contro la pista di cemento e restammo incolumi nello sfasciume. Lo rivedo, nell’offensiva d’ottobre, in una delle nostre due partenze cotidiane, quando l’apparecchio carico di bombe impazzato su la pista perfida non obbedì al richiamo e andò con tutto il carico a urtare contro il terrapieno d’una batteria e si sfasciò miracolosamente senza esplosione, e io pur nell’urto udii l’urlo spaventoso dei miei uomini di manovra adunati per l’alalà e volgendomi li colsi tutti con le mani su gli occhi in un gesto d’orrore, e mi ritrovai nel cerchio della mia mitragliatrice intatto accanto al compagno che sorridendo si toglieva dalla gota magra un briciolo di terra e un filo d’erba.
Nel medesimo giorno, tre anni dopo, forse alla medesima ora, lo abbandonava la fortuna. E in un luogo di memoria eroica svanita, in un luogo senza genio, s’abbatteva il suo sprezzante eroismo.
Di méta in méta, di morte in morte. E più oltre.
Mentre in tristezza io trascrivevo l’esempio del contadino innominato che entra nel guado e s’inginocchia in mezzo alla correntìa e sacrificandosi incide il suo sacrifizio nell’acqua, dentro la basilica di Aquileia una madre dolorosa sceglieva tra le undici bare innominate quella che sta per discendere nel monumento.
Nella mia imaginazione la vedevo simile a quella Maria della cripta che con le divine mani scarne regge il dolore di tutte le creature acceso nel suo capo come in una lampada sempiterna. Quanti secoli di sventura nostra, quanti secoli italiani di patimento e di pazienza, quanti secoli d’iniquità e di servaggio in lei piangevano?
E perché il feretro del Grande Offeso non era ammantato dalla bandiera del Timavo, da quella che io custodisco, da quella che fu chiamata «il sudario del sacrifizio» e «il labaro del fante», da quella che fu distesa sopra le casse dei miei morti di Fiume allineate in terra?
Prima v’era rimasta effigiata l’imagine di un solo eroe morto; ma ora v’è l’imagine di tutti i morti, ché tutti quelli che sono morti per la Patria e nella Patria si somigliano come Giovanni Randaccio nella sua arca di macigno somiglia al fante ignoto raccolto fra quattro assi.
Anzi egli oggi si toglie dal capo il suo cerchio di gloria e lo rinunzia al senzanome. Così, quando viveva in terra, per umiltà verso i mille e mille eroi ignorati volle un giorno togliersi i segni azzurri dal petto; e io l’imitai.
I miei stanotte li ho dati alla fiamma.
O Aquileia, il tuo antiste, quell’uomo puro che il Signore pose alla tua guardia, non vide mia madre scendere sopra i tuoi cipressi in aspetto di colomba color di neve?
Me lo disse. Era il 15 maggio 1917.
Anche la basilica aveva avuto la sua ferita. Aveva veduto il cielo di Dio attraverso lo squarcio. Le schegge della travatura il calcinaccio il vetrame ingombravano il pavimento romano. E un altro dolore s’aggiungeva al dolore del Cristo scolpito da quel soldato ch’era rimasto quattro giorni sepolto sotto le macerie ed era risorto quatriduano come Lazaro.
Mi avviai al camposanto. L’arca di Giovanni stava lungo il battistero ancor vuota e negletta. Dietro gli antichi cipressi fogliavano i giovani allori; e nel muro di cinta, che guarda la campagna, ringiovaniva anche l’edera tenace.
Declinava il giorno. Tonava il cannone a Monfalcone e per tutta la chiostra. La caligine e il fumo celavano i monti dell’ira. A poche spanne dal muro, tra ripe erbose irte di salci, fluiva quella chiara Natissa dove furono annegate le quattro martiri di Cristo Eufemia Dorotea Tecla Erasma.
Le ripe erano dipinte di fioretti e bianchi e gialli. Lungh’essa la striscia d’erba era una banda di suolo arato; e i solchi seguivano il corso del fiumicello a paro a paro. Le rondini, volando basso, parevano imitare l’opera del vomero. Gittavano un grido, si rivolgevano e celeri senza aratro aravano.
Dietro di me tacevano i sepolcri, come chi tace trattenendo il respiro. Allora un usignuolo del vespro intonò la sua ode sopra le ombre che s’allungavano.
E vidi allora venire per la ripa un soldato grigio, più povero del Poverello di Dio, coi piedi ignudi negli zoccoli, con i calzoni laceri ai ginocchi, con la giubba logora ai gomiti. Pareva d’un sol colore, tanto i suoi panni arieggiavano la sua macilenza. Bianco era il capo fasciato.
Portava egli una rezzuola appesa a una pertica con quattro staggi.
E scelse il suo luogo, e si fermò; e calò la rete nella Natissa; e stette col povero viso chinato verso l’acqua, senza fiatare, inconsapevole che quell’acqua fosse santificata da un martirio antichissimo.
Ma forse lo sapeva il suo cuore.
Tecla Erasma Eufemia Dorotea pregavano per lui.
L’acqua era chiara sotto la ripa destra ed era bronzina sotto la ripa sinistra, verde come il bronzo delle porte sacre. E gli oppii potati avevano su i rami tozzi le foglie nuove, simili a candelabri difformi che attendessero i ceri votivi per illuminare la corrente del martirio. E le rondini seguitavano ad arare; e, come la terra si faceva più bruna, la rischiaravano col baleno bianco dei petti.
Il pescatore stava là immobile, con la pertica in mano, fiso all’acqua, paziente; e non prendeva nulla.
Erasma Eufemia Dorotea Tecla pregavano per lui.
Si riscosse; tolse dall’acqua la rezzuola vuota; camminò a ritroso; scelse un altro luogo; abbassò gli staggi; rindossò la sua pazienza; e attese.
Nessuna voce divina gli aveva detto: «Cala di nuovo la tua rete. Non disperare.»
A poco a poco tutti i romori si quetavano. Il rombo del cannone laggiù era come il mùgolo sordo del temporale. Da ciascuna tomba saliva una colonna di silenzio gloriosa incontro al primo lacrimare delle stelle.
L’ode dell’usignuolo accompagnava quell’ascensione con una forza di rapimento più impetuosa che il delirio solare dell’allodola.
Cantava la morte, cantava la vita. O mors, ero mors tua.
C’erano dietro di me due tombe di giovinetti a me familiari, due primizie dell’offerta: la tomba di Lapo Niccolini Alamanni e quella di Corradino Lanza d’Aieta. Colsi una foglia vecchia di lauro e una novella; e le ruppi come se seguissi un modo rituale. La vecchia aveva un profumo più forte; ma la novella, umida di linfa, prometteva l’acqua che disseta le alte ansie.
Non potevo più partirmi. Annottava. Le rondini avevano cessato di arare. Tra i cipressi neri la basilica latina s’era fatta di color ferrigno come vestita di tutt’arme, e della sua ferita diceva: «Non dolet. Non duole.»
Nulla della sua diceva il fante ignoto. Ma le braccia cominciavano a tremargli.
Levò la rete dall’acqua. Posò la pertica su l’erba. S’inginocchiò e si sporse per bagnarsi le mani.
Allora la campana della torre sonò l’avemaria. Per un poco la preghiera dominò l’inno. Poi parve che l'usignuolo raccogliesse l’ultimo tremore del bronzo solenne per assalire il cielo con una più veemente melodia.
Il povero pescatore s’era segnato in croce; poi s'era tolto gli zoccoli e s’era messo a sedere sul margine, coi poveri piedi penzoloni che sfioravano l’acqua del martirio.
Dorotea Tecla Erasma Eufemia pregavano per lui.
Stava egli a capo chino; e aveva a sinistra il suo paio di zoccoli, a destra la sua rezzuola vuota. E gli strappi lasciavano scorgere l’osso de’ suoi ginocchi.
Alzò la faccia verso il canto della creatura di Dio.
Si prese tra le palme il capo fasciato, e alzò verso il canto una faccia scarnita che certo somigliava quella del Poverello di Dio nella grazia del ratto.
Quale angoscia gli sorse dalle sue viscere d’uomo e gli oscurò quel bene raggiante!
Di nuovo si prese tra le palme il capo fasciato, come se la piaga gli si fosse riaperta. E richinò la faccia verso l’acqua del martirio. E pareva che piangesse.
Allora vennero per l’acqua le quattro martiri, e gli baciarono i poveri piedi.
Stanotte quel fante senza nome e senza tomba era con noi nel trivio, dove gli avevamo acceso il suo fuoco.
Era d’un sol colore, quel Poverello d’Italia, come se il suo Dio l’avesse rimodellato nella creta del Piave. E d’un solo splendore era la fiamma.
Avevamo fatto un letto alla brace con cinque pietre in tondo. Un contadino del poggio e il suo figliuolo giovinetto aiutavano a mettere fastello su fastello. Bruciavamo l’ulivo il carpino e il cipresso. Ma io avevo collocato nel cavo, tra le pietre un buon tizzone di quercia, in commemorazione del mio focolare.
Stavamo intorno accosciati, in silenzio.
Solamente il soldato e la fiamma stavano in piedi.
La fiamma era bella, e il soldato era di là da ogni bellezza con la sua divina miseria.
La fiamma ruggìva, e il soldato serrava le labbra.
E tutti i fuochi della mia cecità inaridita e sterilita non mi diedero mai tanta passione quanta me ne dava quel fuoco in terra.
Come i fastelli si furono consumati ed ebbimo attorno attorno raccolti i sermenti e gli stecchi per tutto ardere, io presi la mia bracciata di lauri e la gettai su la brace.
Restammo là sospesi a guardare, ad ascoltare.
Il lauro minacciò qualche cosa. Poi divampò come un’ira magnanima.
Fummo tutti splendenti di lui, tutti abbagliati da lui, rapiti da lui.
Ora l’ignoto non aveva altro corpo se non quello.
E la voce che aveva chiamato Lazaro, quella medesima voce disse al misero che aveva gettato invano la sua rete nella corrente del martirio: «Non temere. Da ora innanzi tu sarai prenditore d’uomini vivi, o spirito.»
Poi, quando anche l’ardore del lauro fu consunto e la mia gente si fu allontanata e il trivio fu deserto, io ritrovai l’arte di mia madre nel porre sotto la brace il capo del tizzo.
«Suso in Italia bella»
- 4 novembre 1921.
G. D’A.