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ANNOTAZIONE | VII |
Vittoria e della Grandezza ch’erano state abbattute nel fango pingue di Roma.
Perché la città di vita non fosse disfatta nello spazio spirituale dove io avevo alzato le sue torri e i suoi fari, era necessario che il sangue fraterno fosse versato. Era necessario che tra l’Italia nuova e la vecchia Italia fosse posto il delitto inespiabile, fosse scavata la fossa insuperabile. Era necessario testimoniare, con le ferite con le morti con le rovine, che l’Italia nuova respingeva per sempre ogni conciliazione e ogni contaminazione.
Così volli e così feci. Questa tragica volontà di sacrifizio mi varrà sopra le generazioni che verranno. Il dramma del Carnaro non è se non il dramma di tutta la Patria.
Nel tumulto aperto non ho mai pensato meno altamente che dentro il mio spirito chiuso. Un Bonaparte ben sapeva che «il coraggio viene dal pensiero».
Per ciò ho potuto vincere le mie ripugnanze e consentire a compiere l’interpretazione di queste foglie sibilline, benché io non abbia del tutto risolto in me il dubbio se non fosse stato meglio abbandonarle al vento disperditore.
«Queste foglie poneva in su l’altare; e, se ’l vento le spargeva, i suoi detti non avevano virtù né efficacia; ma, quando stavano immobili, avevano virtù, ed efficacia.»
Io non le pongo su l’altare frequentato. Rientro nella mia casa deserta dove mia madre, da che s’ebbe tolto il suo calzare bianco di sposa, non lasciò mai che il fuoco si spegnesse nel focolare ma ogni notte rinnovò l’arte di disporvi sotto la cenere un tizzo che durasse fino al nuovo giorno. E questo sapeva tutto il popolo, e tutto il popolo ne ha memoria.
Rientro nella mia casa; passo di stanza in stanza; salgo i tre gradini, e penetro nella quinta. Il vasto letto la occupa, dove fui concepito e generato, dove ben nacqui. Sopra il capezzale che tenne il santo volto di mia madre trasfigurato in perpetua bellezza, pongo le foglie della mia passione e della mia devozione perché vi rimangano immobili.