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ANNOTAZIONE | XI |
Anche la basilica aveva avuto la sua ferita. Aveva veduto il cielo di Dio attraverso lo squarcio. Le schegge della travatura il calcinaccio il vetrame ingombravano il pavimento romano. E un altro dolore s’aggiungeva al dolore del Cristo scolpito da quel soldato ch’era rimasto quattro giorni sepolto sotto le macerie ed era risorto quatriduano come Lazaro.
Mi avviai al camposanto. L’arca di Giovanni stava lungo il battistero ancor vuota e negletta. Dietro gli antichi cipressi fogliavano i giovani allori; e nel muro di cinta, che guarda la campagna, ringiovaniva anche l’edera tenace.
Declinava il giorno. Tonava il cannone a Monfalcone e per tutta la chiostra. La caligine e il fumo celavano i monti dell’ira. A poche spanne dal muro, tra ripe erbose irte di salci, fluiva quella chiara Natissa dove furono annegate le quattro martiri di Cristo Eufemia Dorotea Tecla Erasma.
Le ripe erano dipinte di fioretti e bianchi e gialli. Lungh’essa la striscia d’erba era una banda di suolo arato; e i solchi seguivano il corso del fiumicello a paro a paro. Le rondini, volando basso, parevano imitare l’opera del vomero. Gittavano un grido, si rivolgevano e celeri senza aratro aravano.
Dietro di me tacevano i sepolcri, come chi tace trattenendo il respiro. Allora un usignuolo del vespro intonò la sua ode sopra le ombre che s’allungavano.
E vidi allora venire per la ripa un soldato grigio, più povero del Poverello di Dio, coi piedi ignudi negli zoccoli, con i calzoni laceri ai ginocchi, con la giubba logora ai gomiti. Pareva d’un sol colore, tanto i suoi panni arieggiavano la sua macilenza. Bianco era il capo fasciato.
Portava egli una rezzuola appesa a una pertica con quattro staggi.
E scelse il suo luogo, e si fermò; e calò la rete nella Natissa; e stette col povero viso chinato verso l’acqua, senza fiatare, inconsapevole che quell’acqua fosse santificata da un martirio antichissimo.
Ma forse lo sapeva il suo cuore.
Tecla Erasma Eufemia Dorotea pregavano per lui.