Naufraghi in porto/Capitolo XV
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XV.
Era di maggio. La grande vallata dell’Isalle, di solito così severa, coperta di altissime erbe, di macchie fiorite, di campi d’orzo che ondulavano alla brezza, sorrideva alla primavera, come un vecchio selvaggio, ubriaco di vino e di sole, copertosi per scherzo di fronde e di ghirlande.
Fischi acuti e liquidi di usignuoli gorgheggiavano come note di flauto nell’immenso silenzio della valle, quasi fondendosi con la fragranza dei narcisi e delle ginestre. E dei narcisi e delle ginestre i grandi cespugli fioriti s’abbandonavano sul l’orlo dei ciglioni, come intenti a guardare il fondo della valle.
Una fata benigna era passata, stendendo tappeti d’oro, di fiori violetti e rosei. I radi alberi ridevano e bisbigliavano alla brezza.
Era appena tramontato il sole. Il cielo ad occidente aveva il colore della pesca matura, mentre ad oriente ed a nord le montagne spiccavano come enormi pietre preziose sopra una fascia di raso lilla.
Costantino Ledda, scarcerato poche ore prima a Nuoro, ritornava a piedi al suo paese, scendendo la valle senza affrettarsi, con una piccola bisaccia di tela sulle spalle. Qualche volta si fermava, guardava di qua e di là del sentiero, pensava:
— Oh, oh, la valle mi sembra più piccola, adesso: sarà perchè ho veduto il mare.
Era invecchiato, sbarbato, molto bianco in viso, ma senza quell’aria tragica che gli sarebbe convenuta. Ritornava solo ed a piedi perchè non aveva avuto modo d’indicare il giorno preciso della sua liberazione; altrimenti qualche parente o qualche amico non avrebbe mancato d’andargli incontro. Inoltre l’impazienza di rivedere il paesetto lo urgeva.
Scendeva, scendeva. Era quasi allegro, forse perchè a Nuoro s’era provveduto di un fiasco di buon vino. Nello scendere le gambe qualche volta gli si piegavano, ma egli non s’impensieriva per così poco.
— Ecco, — pensava, — quando non ne posso più, mi sdraio e dormo. Ho pane e vino nella bisaccia. Che altro occorre? Io sono libero come gli uccelli. Ah! sì, sono libero! Guarda che cosa curiosa! Una volta avevo moglie, ora sono come scapolo.
Gli parve di ridere, ma in realtà le sue labbra non si mossero. E scendeva e scendeva, ora guardando il sentiero giallognolo tracciato fra l’erba alta, ora guardando gli uccelli che avevano destato il suo paragone e che volavano bassi, quasi sfiorando il suolo, e si ritiravano nelle macchie per dormire. Ricordò la vecchia gazza del reclusorio e sentì qualche cosa sciogliersi entro il suo petto.
Ebbene, perchè negarlo? Egli aveva provato dolore nel lasciare quel luogo di pena, quei compagni che non amava, quei muri orrendi, quel cielo che lo aveva per tanti anni oppresso dall’alto del cortile come una lastra di metallo.
Dopo la morte del vero colpevole giorni e mesi erano trascorsi prima che la giustizia avesse esaurito le sue formalità per liberare l’innocente. E a Costantino, informato di tutto, i giorni erano parsi anni; eppure, nell’andarsene, aveva quasi pianto.
Adesso anche questo dispiacere era passato. Tutto era passato. Anche il grande dolore per il tradimento di Giovanna.
Tanto è vero che gli pareva di poterne ridere.
Scendeva, scendeva, giunse in fondo alla valle e cominciò a costeggiare l’Isalle; la luce del tramonto era ancora vivissima e l’acqua brillava qua e là fra gli oleandri ed i giunchi, riflettendo il bagliore roseo-giallo del cielo; le ombrelle di merletto dei sambuchi e i bottoncini acuti di corallo scuro degli oleandri si disegnavano sull’aria lucida come sopra uno smalto d’argento. Costantino, già stanco, pensava che la valle non era poi così piccola come gli era parsa al primo rivederla.
— Dormirò bene in campagna, — pensava — Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: — dun! dun! alla porta di Isidoro. — Chi è? — Io. — Chi tu? — Ebbene, Costantino Ledda! — Che viso, quell’Isidoro! Chi sa, egli canterà il rosario a quest’ora. Ed anche quelle laudi!... Sì, oh, guarda! Io fatto delle laudi. Che cosa curiosa!
Si stupiva di certe cose passate, come da giovani ci si stupisce di certe cose fatto da bambini. Ma egli si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio, che fosse primavera, che la valle invece che piccola fosse interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.
Camminava fra due campi di frumento, sui quali la luce gettava un velo d’oro; e pensava: — Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerto la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas: sai, è stato lui! — Ma io lo so già, diavolo, non hai a altro da dirmi? — Ecco, tua moglie ha preso un altro marito. — Eh. lo so già, anche questo. — Come, tu non piangi? — Perchè devo piangere? Ho già tanto pianto che adesso non ne ho più voglia. O credi che io sia un idiota? Ora ho bene dell’esperienza: ho viaggiato, ho veduto il mare, non sono più un ragazzo. Non m’importa più di nulla.
Ma ecco, d’un tratto, mentre vantava a sè stesso la sua forza d’animo, sentì il cuore stretto come da una mano fredda.
— Ah, ritornare là, nella piccola casetta; trovare Giovanna, il bambino, il passato! È passato il vento ed ha portato via tutto. Tutto... Tutto... Tutto... — Sul limite del campo di frumento sedette soffocato dal dolore. Ecco cosa era. Il grande dolore era andato via, sì, da tempo, ma pareva si fosse nascosto nella valle fra le pietre e le macchie, aspettando il ritorno di lui: e adesso balzava su, lo assaliva, lo azzannava, poi tornava a nascondersi. Seduto sul confine del campo di frumento, Costantino trasse dalla sua piccola bisaccia una zucca secca piena di vino, e bevette arrovesciando il capo.
La rimise e guardò il campo. Pareva d’essere sulla riva d’un lago, sul cui smeraldo dorato galleggiassero le macchie di sangue dei papaveri.
Poi riprese il viaggio, e sembrava rasserenato, ma non camminava più con l’ardore di prima. Arrivare quel giorno, arrivare l’indomani valeva lo stesso; tanto non aveva nessuno che l’aspettasse. E va, e va, le prime ombre della sera lo avvolsero mentre finiva di percorrere il fondo della valle. I grilli pareva segassero l’erba con piccole falci di argento, i profumi dei fiori e dei cespugli gravavano tiepidi sull’aria; la brezza s’era spenta, gli uccelli tacevano, e solo i triangoli neri dei pipistrelli solcavano la cenere luminosa del crepuscolo.
Oh, la divina melanconia delle sere di primavera, che rattrista anche le anime felici! Non è forse la nostalgia atavica del paradiso terrestre, dei fiori e delle erbe e del tepore fragrante di un’eterna primavera, per cui l’uomo fu creato e che egli ha perduto in eterno?
Costantino camminava e camminava; dopo lunghi anni di brutale oppressione, passati tra mura infette, fra uomini corrotti, in un cerchio ove l’aria stessa era imprigionata, egli attraversava lo spazio libero, calpestava l’erba, le pietre, ed a misura che saliva le montagne sorgenti dalla valle vedeva spalancarsi più e più l’orizzonte, ed il cielo stendersi infinito e dolce come la libertà stessa; eppure mai, nel carcere, aveva provato il senso profondo di tristezza che lo invadeva col cader delle ombre da quel libero cielo. Egli andava, ma perchè andava? dove andava? Era stato allegro al principio del viaggio, gli era parso di andare verso un luogo ove avrebbe trovato un po’ di gioia. Adesso si stupiva di tutto questo. Gli pareva, nell’incerlezza del crepuscolo che velava le lontananze, che il suo viaggio fosse inutile, vano. Egli camminava invano: non aveva più patria, nè casa, nè famiglia; egli non sarebbe arrivato mai, mai a nessun posto. E gli sembrava di essere smarrito in un deserto infinito e cinereo come il cielo disteso sul suo capo, dove le stelle si accendevano come fuochi di viandanti solitari, ignoti gli uni agli altri, smarriti come lui nella vana libertà di un deserto.
Eppure egli non si rattristava pensando a Giovanna, alla felicità perduta per sempre, alle disgrazie che un ingiusto destino gli aveva mandato; queste tristezze gli avevano già tanto macerato l’anima ed il corpo che formavano il fondo stesso del suo essere, tal che gli pareva di averle dimenticate, come si dimentica la veste che si ha indosso; ma lo rattristavano certi ricordi lontani, di cose materiali che aveva lasciato e che non ritroverebbe più.
Ricordava con intensità lo spiazzo davanti la casa di Giovanna, le pietre del muricciuolo dove sedevano assieme nelle sere d’estate, e sapratutto ricordava il letto alto ed ampio dove riposava, vicino a lei, dopo la giornata faticosa. Ecco, gli sembrava di ritornare, stanco, dopo una di quelle lontane giornate; ma non aveva più dove andare a riposarsi.
Giunto sull’alto d’una china sedette e aprì la bisaccia.
La notte era scesa, ma chiara e diafana; ad oriente, fra i monti che nascondevano il mare, biancheggiava l’alba lucida della luna; la via lattea attraversava il cielo come una strada bianca e deserta.
Un albore fantastico circondava le montagne; si distingueva il sentiero, le macchie apparivano compatte come greggie nere; e nel silenzio immenso vibrava solo il singulto prolungato del cuculo.
Costantino mangiò e bevette; poi si arrovesciò sul ciglione e per un momento fissò lo sguardo nella solitudine profonda di quella strada chiara che solcava il cielo. Poi chiuse gli occhi; provò il benessere del cibo, del vino e del riposo, e si sentì allegro come al principio del viaggio.
Ed ecco, appena chiusi gli occhi, rivide i suoi compagni di pena, e provò la sensazione fisica di trovarsi ancora a lavorare le scarpe. E sentì una gioia infantile pensando alle cose che aveva da raccontare ai suoi amici d’Orlei. Bisognava alzarsi, riprendere il viaggio, arrivar presto.
Ma non si mosse. Visioni confuse passavano nella sua fantasia; il re di picche cavalcava un asino e attraversava la via lattea; e d’un tratto gittò uno, due, tre gridi, chiamando Costantino: Costantino aprì un occhio velato, lo richiuse, lo tornò ad aprire.
— Stupido, è il cuculo, — pensò. — vado, sì... vado, vado...
E si addormentò.
Quando si svegliò, la luna già alta guardava sulle montagne; e col suo chiarore azzurrognolo cadeva la rugiada. Ombre fitte come drappi neri coprivano certi fianchi delle montagne; ma ogni rupe, ogni macchia, ogni fiore, si disegnava nettamente sul terreno ove la luna batteva. Il cuculo ripeteva sempre i suoi gridi sottili e metallici.
Costantino rabbrividì, si sentì umido di rugiada, s’alzò e sbadigliò: l’ahaa — prolungata del suo sbadiglio risonò nel grande silenzio.
Poi egli guardò il cielo per indovinare l’ora; la stella, cioè Diana, non mostrava ancora al di sopra del mare il suo grande smeraldo dorato. L’alba quindi era lontana e Costantino si rimise in viaggio, con la speranza di arrivare al paese prima che la gente si svegliasse.
Non voleva esporsi alla pubblica curiosità e temeva, sopratutto, di esser veduto da Giovanna o da sua madre. Egli contava di evitarle, non voleva vederle, non voleva passare davanti alla loro casa. Tutto era passato; dopo anni di dolore, di odio, dopo mille propositli di vendetta, adesso gli sembrava di disprezzare Giovanna, e voleva anche lui cominciare una nuova vita.
Si rimise dunque in viaggio. Saliva, scendeva, si arrampicava sui poggi illuminati dalla luna. Le macchie di cisto, l’asfodelo bagnato di rugiada, le roccie stesse, emanavano un odore umido e irritante; qualche filo d’acqua scendeva silenziosamente fra i puleggi fioriti.
Nei vasti orizzonti il cielo svaporava azzurro sopra montagne azzurre evanescenti, e tutte le lontananze si dissolvevano in una vaporosità cerulea di sogno. E l’uomo camminava, camminava. Sentiva la mente un po’ assonnata, ma le membra agili e fresche. Ogni tanto faceva dei salti, passava per scorciatoie ripide, e si fermava in alto, anelante, col cuore che gli batteva forte. La luna metteva scintille d’argento entro i suoi occhi limpidi.
Più procedeva, più riconosceva i luoghi; sentiva nell’aria la fragranza selvaggia della terra natia, riconosceva i salti melanconici seminati d’orzo e di frumento ancora verde, le brughiere di lentischio, i radi alberi selvatici mormoranti a qualche soffio di vento come vecchi dormenti che parlano in sogno; e più in là le grandi sfingi, azzurre alla luna, e più in là ancora la lama del mare, di quel mare che egli si sentiva superbo di aver varcato, non importa come.
Giunto presso la chiesa di San Francesco sostò ancora, si scoprì il capo e pregò: e la sua preghiera fu sincera, perchè in quel momento egli sentiva tutta la gioia del ritorno come ancora non l’aveva sentita.
Cominciava appena ad albeggiare quando Isidoro sentì picchiare alla sua porticina.
Da quindici, — da venti giorni, — da mesi e mesi, — egli aspettava quel dun dun scricchiolante alla sua porticina: e balzò in piedi, ancor prima che il vecchio cuore cominciasse a balzargli in petto.
Aprì. Vide, o intravide, un individuo alto, che invece del costume del paese, indossava un abito di fustagno duro come cuoio, ed aveva un viso lungo e pallido. Sulle prime non lo riconobbe.
Costantino si mise a ridere, un riso stridente che fece male al pescatore. Allora Isidoro riconobbe il suo giovane amico, ma sentì un senso di freddo. Sì, quello era Costantino, ma non era più il Costantino d’una volta. Tuttavia lo abbracciò, senza baciarlo, e sentì il suo cuore fondersi in lagrime.
— Ecco, voi non mi riconoscevate! disse Costantino, liberandosi della bisaccia. — Io lo sapevo.
Anche la sua voce ed il suo accento erano cambiati. Dopo il freddo, dopo la pietà, zio Isidoro provò un senso di soggezione.
— Perchè sei vestito così? Tu potevi attendere a Nuoro: io ti avrei portato il costume. Ed anche il cavallo. Sei tornato a piedi?
— No. San Francesco mi ha prestato il suo cavallo. Ecco, cosa fate, zio Isidoro? Io il caffè non lo voglio. Avete dell’acquavite?
Il pescatore, che si era messo a scoprire il fuoco, si sollevò turbato, confuso di non poter offrire altro che un po’ di caffè.
— Io non sapevo... — disse, aprendo le mani, — ma aspetta, vado subito... Ecco, ti aspettavo e non ti aspettavo... — e s’avviò per uscire.
— Dove? Dove? — gridò l’altro, fermandolo. — Non voglio niente. L’ho detto pen scherzo. Sedetevi qui.
Isidoro sedette, cominciò a guardare timidamente Costantino, poi a poco a poco si fece coraggio, gli palpò i pantaloni, sul ginocchio, e domandò se rimaneva vestito così.
Dalla porta spalancata penetrava la luce dell’alba, ed il viso di Costantino appariva grigio e disfatto.
— Io rimarrò vestito così, sì, — disse, e rise ancora di quel cattivo riso. — Tanto dovrò andarmene tra poco.
— Tu dovrai andartene? Oh, e dove?
— Io ho conosciuto tanta gente, — cominciò Costantino, come recitando una lezione. — Eh, c’è della gente che mi aiuterà. Cosa volete che faccia qui?
— Ebbene, tu farai il calzolaio! Non mi hai scritto che volevi fare il calzolaio? Guadagnerai molto.
— Io conosco un maresciallo chiamato Burrai (per Costantino il re di picche era sempre un maresciallo), vive a Roma e mi ha scritto. Egli mi farà dare un posto da calzolaio nella casa del re.
Zio Isidoro lo guardò con occhi pietosi. Ah, il disgraziato era un altro, era un altro!
— Perchè parla così, perchè dice sciocchezze, mentre abbiamo tante cose sanguinanti di cui parlare? — si domandò.
Ma gli parve che Costantino fingesse, che si avvolgesse in un velo di falsa indifferenza. Ma perchè? Se non si apriva con lui, con chi si sarebbe aperto?
— Ecco, parliamo d’altro, adesso, Costantino. Ma davvero, perchè non vuoi un po’ di caffè? Ti farà bene.
— Di che volete parlare, dunque? — disse Costantino con la sua voce monotona. — Io lo sapevo, che vi sareste stupito se non piangevo. Ho pianto tanto che non ne ho più voglia. Eppoi me ne andrò: non è possibile restar qui, dopo aver varcato il mare. Ebbene, datemi un po’ di caffè. Ma chi è che passa? disse poi, animandosi nel sentire un passo nello spiazzo.
— Non voglio che mi vedano! — S’alzò e chiuse la porta.
Quando si volse aveva il viso mutato, ed un tremito gli agitava il mento. Disse con voce sottile, sempre più sottile:
— Sono passato là, nel venir qui. Non volevo passarci, ma mi ci sono trovato senza volerlo. Come, come posso rimaner qui?... ditelo... voi!
E si strinse la tempia con una mano, scuotendo disperatamente la testa. Poi si gittò per terra e si contorse e pianse con urli soffocati d’una violenza indescrivibile, come un toro preso al laccio e marcato col ferro rovente.
Il pescatore impallidì; ma non disse parola per calmare quell’uragano di dolore. Ah, finalmente riconosceva il suo Costantino!