Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 212 — |
Tanto è vero che gli pareva di poterne ridere.
Scendeva, scendeva, giunse in fondo alla valle e cominciò a costeggiare l’Isalle; la luce del tramonto era ancora vivissima e l’acqua brillava qua e là fra gli oleandri ed i giunchi, riflettendo il bagliore roseo-giallo del cielo; le ombrelle di merletto dei sambuchi e i bottoncini acuti di corallo scuro degli oleandri si disegnavano sull’aria lucida come sopra uno smalto d’argento. Costantino, già stanco, pensava che la valle non era poi così piccola come gli era parsa al primo rivederla.
— Dormirò bene in campagna, — pensava — Ma sarebbe stato così curioso arrivare lì: — dun! dun! alla porta di Isidoro. — Chi è? — Io. — Chi tu? — Ebbene, Costantino Ledda! — Che viso, quell’Isidoro! Chi sa, egli canterà il rosario a quest’ora. Ed anche quelle laudi!... Sì, oh, guarda! Io fatto delle laudi. Che cosa curiosa!
Si stupiva di certe cose passate, come da giovani ci si stupisce di certe cose fatto da bambini. Ma egli si meravigliava anche di molte cose presenti; per esempio, che fosse primavera, che la valle invece che piccola fosse interminabile, e che egli la percorresse per ritornare al suo paese.
Camminava fra due campi di frumento, sui quali la luce gettava un velo d’oro; e pensava: — Egli mi dirà: vieni dentro. Mi ha offerto la sua casa. Poi mi dirà: È morto Giacobbe Dejas: sai, è stato lui! — Ma io lo so già, dia-