Naufraghi in porto/Capitolo XIV
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XIV.
La camera ove giaceva Giacobbe Dejas era di un’altezza straordinaria, e così vasta che il lume ad olio non riusciva ad illuminarne abbastanza gli angoli. Bisogna dire però che i mobili erano proporzionati: un armadio di legno rosso, sulla parete di fondo, raggiungeva il soffitto, ed aveva alcunchè di grave e pensoso; il letto di legno, attorno ai cui piedi girava una fascia di stoffa giallognola, alto e maestoso, pareva una montagna. C’era un non so che di misterioso in quella camera dagli angoli bui e dal soffitto alto e livido come un cielo nuvoloso; la minuscola figura di zia Anna-Rosa vi si smarriva come nell’immensità di una campagna: appena la sua testa arrivava alla sponda del letto.
Giacobbe Dejas sognava su quel letto immenso. Aveva la febbre; gli pareva di essere ancora dentro la fossa; ma i due uomini che l’avevano sotterrato continuavano ad accumulare la terra attorno alla sua testa, soffocandolo. Ed egli soffriva, ma lasciava fare nella speranza di guarir più presto se lo sotterravano fin sopra la testa; e la sua testa era prete Elias, sul cui petto s’agitava la coda minuscola d’una tarantola. Nel sogno sentiva un pazzo terrore della morte: quando era entrato nel forno tiepido, aveva pensato che l’inferno poteva essere un forno acceso, entro il quale i condannati dovevano stare in eterno distesi.
Ora nel sogno gli si riproduceva esattamente quell’impressione. Dalla fossa, mentre la terra gli si accumulava intorno al viso, ed egli stringeva la bocca per non ingoiarne, vedeva un forno acceso. Era l’inferno. Ne provò un terrore tale che, anche nel sogno, anche nell’incoscienza febbrile dell’incubo, ebbe il bisogno prepotente di accertarsi che tutto era una illusione dei sensi. E si svegliò; ma con l’impressione che, se fossero sensibili, dovrebbero provare le pietre in un incendio: sentirsi ardere e non potersi muovere, non poter sfuggire all’orrendo destino. Diede un grido, un — ooh — sordo e grave, il cui suono lo confortò come una voce umana risonante presso di lui nell’orrore dell’inferno.
Dalla cucina attigua zio Isidoro — che era rimasto per aiutare in ciò che poteva la piccola vedova — sentì quel grido nel sonno ed ebbe paura; si svegliò pensando che Giacobbe fosse morto; balzò su ed entrò nella camera: e vide il malato coricato supino, con la faccia stranamente allungata, e gli occhi, che sembravano neri, lucenti di lacrime.
— Sei sveglio? — domandò piano. — Che cosa vuoi?
Gli toccò il polso, avvicinandovi l’orecchio come per sentirne il battito. Subito dopo apparve sull’altra sponda del letto il visino di zia Anna-Rosa avvolto in un fazzoletto bianco.
Allora accadde una cosa strana: il viso del malato si accorciò, la bocca si allargò, gli occhi si strinsero; e un gemito lungo sibilò nella camera. La piccola donna rivisse in un tempo lontano, quando su quel medesimo letto Giacobbe bambino piangeva; protese quindi le braccia, accarezzò il malato, parlò fra dolce e irritata: — Siano benedette le sante anime del Purgatorio, che cosa hai, cosa ti senti, fratellino mio?
Isidoro, stupito, continuava a tastare il polso del malato, cercando ora una vena, ora l’altra, e diceva:
— Oh! Oh! Questa è curiosa!
— Ebbene, che hai? Vuoi dirmi che cosa hai? Che cosa ha avuto, Isidoro Pane?
— Ma niente... ma niente... Ha gridato, ecco tutto. Forse ha fatto un cattivo sogno. Ora gli diamo un po’ d’acqua, ecco. Porta un po’ d’acqua. Ecco, ora bevi. Eh, come bevi! Avevi sete? Capisci, è la febbre, ecco tutto.
Bevuta l’acqua, Giacobbe, che s'era seduto, si calmò: una vecchia maglia di cotone bianco gli disegnava il corpo piccolo, ma robusto; il petto coperto di fitto pelo nero contrastava con la testa e la faccia pefettamente rase: piegato in avanti, pensoso, passandosi la mano sana sul braccio malato, disse con la voce ansante e lamentosa dei febbricitanti: — Brutto sogno, ho fatto, sì! Che caldo, San Costantino bello! Un caldo da forca. Ho sognato l’inferno.
— Che idee! che idee! — disse la sorella con rimprovero.
E zio Isidoro scherzò:
— E c’era caldo, uccellino di primavera?
Il malato s’irritò:
— Non scherzare, non dire più «uccellino di primavera». Mi fai arrabbiare. Io non lo dirò più, io non mi burlerò più di nessuno. Ascoltatemi, — disse poi, sempre a capo chino, palpandosi il braccio. — L’inferno è una brutta cosa. Io devo morire, e devo dirvi una cosa. Ecco, non spaventarti, Anna-Rosa, tanto io devo morire. E voi lo sapete già, zio Isidoro, quindi ve lo posso dire. Ecco, sono io che ho ammazzato Basile Ledda.
Zia Anna-Rosa spalancò gli occhi, spalancò la bocca, s’appoggiò al letto e cominciò a tremare convulsa.
— Io non sapevo niente! — gridò Isidoro.
Allora Giacobbe sollevò il viso e cominciò anche lui a tremare.
— Non mi farete arrestare? — disse, supplichevole. — Tanto io morirò. Lo direte poi? Io credevo che lo sapeste! Che cosa hai, Anna-Rò? Non aver paura, non mi farai arrestare.
— Non è questo, — ella disse, rimettendosi alquanto. Le era parso di ricevere un colpo di pietra sul capo: e una cosa misteriosa accadeva entro di lei, come se la sua anima se ne andasse, e ne prendesse il posto un’altra anima che vedeva il mondo, la vita, Dio, in modo diverso: e tutte le cose vedute dalla nuova anima erano piene di orrore, di oscurità, di caos.
— Io non dirò niente. No. No. Ma io non sapevo niente. Come potevo saperlo? — protestò Isidoro. Egli non sentiva orrore di Giacobbe, anzi ne provava pietà; ma nello stesso tempo gli desiderava la morte.
E subito tutti e tre i personaggi del dramma pensarono a Costantino; e questo pensiero non li abbandonò più un istante.
— Còricati, — disse Isidoro, battendo la mano sul guanciale.
Ma l’altro scosse la testa: e riprese, con la sua voce lamentosa e ansante, a volte supplichevole, a volte irritata:
— Io credevo che voi lo sapeste: ah, dunque non lo sapevate? Ah, vero! Come potevate saperlo? Io avevo paura di voi, però: credevo che mi leggeste negli occhi. Ecco, una notte, in casa vostra, mi diceste «puoi essere stato tu ad uccidere Basile Ledda». Io ebbi paura, quella sera. Poi un altro giorno, il giorno dell’Assunzione, qui, in questa Casa, voi mi diceste «assassino!». Era uno scherzo, ma io ebbi paura, perchè avevo paura di voi. Ebbene, quando vi proponevo di maritarvi con mia sorella lo faceva sul serio: pensava di legarvi a me.
— Gesù Cristo mio! mio piccolo Gesù Cristo! — gemeva la vedova.
Giacobbe la guardò.
— Tu hai paura, eh? Perchè l’ho fatto, tu chiedi? Ebbene, perchè odiavo quell’uomo. Egli mi aveva bastonato. Egli mi doveva del denaro. Ma mi parve di morire quando condannarono Costantino Ledda. Perchè io non ho confessato allora? Voi dite così, voi! Eh, è facile dirlo; ma farlo era impossibile. Costantino è un buon ragazzo, io pensavo: morrò prima di lui, confesserò tutto. E ciò che fece Giovanna Era mi invecchiò di cento anni. Che cosa dirà Costantino quando ritornerà? Che cosa dirà? — ripetè sommessamente, come interrogando sè stesso.
— Che cosa faremo, adesso?
Zia Anna-Rosa sospirò: le pareva di sognare un orribile sogno, ma neppure per un istante pensò di nascondere la rivelazione del fratello. E dopo?
Due cose parimenti mortali al suo cuore dovevano accadere: o la morte di Giacobbe o la sua condanna. Ella non sapeva quale scegliere.
— Ora ci corichiamo e riposiamo: domani penseremo al da farsi, — disse zio Isidoro. E battè nuovamente la mano sul guanciale. Giacobbe tornò a coricarsi supino e sollevata la mano sana cominciò a contare con le dita:
— Prete Elias uno; poi il sindaco, poi... come si chiama, Brontu Dejas. Sì, sì. Appunto lui. Li voglio qui, confesserò a loro.
— A Brontu Dejas? — chiese stupito zio Isidoro.
— Perchè lui più di tutti sarà creduto. Ma prima, tutti mi giurerete sul crocifisso che mi lascerete morire in pace. Io ho paura. Mi lascerete morire in pace, dunque?
— Ma sì! Sta tranquillo. E voi, piccola comare, tornate a letto; riposatevi, dormite. — disse il pescatore con voce tranquilla, aggiustando le coperte intorno al malato: ma Giacobbe si agitava, scuoteva la testa.
— Ho caldo, ho caldo; lasciatemi stare. Come non vi meravigliale voi, zio Sidore? Ah, io rimasi servo per non dar dei sospetti. Ma voi sapevate. Sì, sì, sapevate.
— Non sapevo nulla, ti dico, figlio di Dio.
— E allora perché non vi meravigliate?
— Nel mondo ne succedono tante! Son cose del mondo. Ebbene, sta coperto e cerca di dormire.
La vedova, che non dava ascolto al discorso dei due uomini, sollevò il viso: e quel piccolo viso s’era fatto giallo, pieno di rughe; pareva che gli anni passati placidamente senza poterlo solcare avessero preso la rivincita in un attimo.
— Giacobbe, — disse, — non ci sarà bisogno di testimoni. Non ci sarà bisogno di chiamar nessuno. Non basterò io?
Egli si sollevò ancora e guardò Isidoro. Isidoro guardò lui, ed entrambi dissero:
— È vero.
Dopo di che una gran calma parve spandersi nella camera giallognola e misteriosa. Il malato tornò a stendersi, tacque, si calmò, si assopì: anche la vedova acconsentì ai consigli di zio Isidoro ed andò a coricarsi. La faccia grave dell’armadio rossastro tornò a dominare pensosa nella penombra, ed il soffitto color nuvola gravò sul silenzio della camera come sopra una campagna deserta. Le cose tutte, calme, impassibili, parevano ripetere le parole di zio Isidoro:
— Cose del mondo!
Il medico condotto di Orlei, Dottor Puddu, era una specie di bestia grossa e gonfia. Un tempo anche lui nutriva grandi ideali; ma la sorte lo aveva sbalzato in quel paesetto solitario, dove la gente raramente ammalava, ed egli s’era dato a bere, prima di tutto per scaldarsi, poi perchè i liquori ed il vino gli piacevano immensamente. Adesso era completamente alcolizzato, tanto che neppure gli abitanti di Orlei avevano più stima di lui.
Giacobbe Dejas si lamentava di un dolore al fianco e il dottor Puddu gli cauterizzava la mano ferita dalla tarantola; e gli diceva con voce rauca:
— Stupido. Non si muore di queste cose. D’altronde, se muori tu è come muoia un asino.
Zia Anna-Rosa lo guardava con ira e brontolava. Era diventata collerica, la povera donnina: si arrabbiava con tutti, tranne che col malato. E come sembrava vecchia dopo quella notte; il suo visetto, rimasto giallo e rugoso, non pareva più quello.
La rivelazione del fratellino l’aveva cambiata in modo strano, fisicamente e moralmente: giorno e notte si domandava con profondo stupore come mai Giacobbe aveva potuto uccidere un uomo.
Lui! Lui che era allegro e mansueto come un agnello. Come mai, animuccie sante del Purgatorio? Eppure nostro padre non era un ladrone, no; era un uomo di Dio, sempre allegro e così scherzoso che quando un amico si sentiva di malumore cercava la sua compagnia.
La donnina s’inteneriva pensando al vecchio padre morto; ma, ecco, un’orrenda nuvola le oscurava la mente, e tutto il suo visetto si raggrinziva per l’orrore di un pensiero.
Che anche il vecchio allegro, il vecchio santo, abbia commesso qualche delitto?
Non c’era più da fidarsi di nessuno, nè dei vivi, nè dei morti, nè dei vecchi, nè dei fanciulli. Poi zia Anna-Rosa piangeva, si batteva il petto col piccolo pugno, si pentiva dei suoi dubbi orrendi; e andava presso il malato, ed il malato, col suo viso solcato dalla sofferenza fisica e gli occhi che pareva supplicassero la morte di risparmiarlo, le destava una grande, infinita pietà, una tenerezza materna, un dolore senza nome.
Era più che mai il suo fratellino, adesso, così raggomitolato sull’immenso letto; così spaventato, così rimpicciolito dal male; e mentre tutte le cose, tutte le persone, e persino i morti più sacri, e persino i fanciulli innocenti, destavano in lei dubbi atroci, diffidenze amare, rancori profondi, lui solo ravvivava la sua pietà, la sua tenerezza, il suo amore. Ed intanto doveva vederlo, lo vedeva morire, e doveva desiderargli la morte; e curandolo con tenerezza attenta, doveva desiderare che i medicamenti, che le cure, che tutto fosse inutile. E questa morte, questa cosa orribile che ella doveva desiderare al suo «fratellino», oltre il dolore profondo per sè stessa, doveva recarle un’altra pena più grande ancora: la denunzia del delitto.
Ma la cosa più triste, per zia Anna-Rosa, era che il malato s’accorgeva dell’angoscia di lei.
Infatti, al terzo giorno della malattia, Isidoro portò con gran mistero una medicina preparata dal sagrestano. Questa medicina era composta d’olio d’oliva entro cui avevano galleggiato tre scorpioni, un centopiedi, una tarantola, un ragno, un fungo velenoso: guariva qualsiasi puntura. Zia Anna-Rosa unse subito la mano gonfia e livida del malato: ed egli lasciò fare, guardando attentamente la mano, ma poi disse con voce calma:
— Perchè mi curi, Anna-Rò? Non vuoi che muoia?
Ella si sentì spezzare il cuore.
— Fatto anche questo! — disse poi Giacobbe, guardando Isidoro. — Ma se io non morrò, come farete voi?
— Dio ci penserà; sta tranquillo.
Egli tacque un poco, poi disse: — Andrete assieme dal giudice?
— Cosa?
— Dal giudice. Ora fa freddo, però: il viaggio è lungo. Ebbene, Anna-Rosa, non viaggiare a cavallo, sai? Va in carrozza, a Nuoro.
— Per che cosa? — ella domandò irritata.
— Ebbene, per il giudice!
Ella lo sgridò, poi uscì in cucina e pianse amaramente.
— Ecco il tuo olio, — disse ad Isidoro, quando egli fu per andarsene. — Potevi fare a meno di portarlo. Quando verrà prete Elias?
— Verrà stasera.
— Sì. Bisogna che Giacobbe si confessi. Il tempo vola, egli sta male. Stanotte non ha chiuso occhio. Ah, — disse poi, — egli mi sembra un uccellino ferito.
— Sono venuti i Dejas?
— Sono venuti. Madre e figlio; anzi Brontu è venuto due volte. Sì, vengono, vengono tutti, ma a che serve? Nessuno può dargli nè la vita nè la morte.
— Son buone e cattive entrambe, per lui, — disse Isidoro, avvolgendo accuratamente nel suo fazzoletto rosso la bottiglia dell’olio.
— E per tutti — rispose la donna.
Poco dopo venne il medico: era già ubriaco; sbuffava, sputava di qua e di là, e qualche volta anche sopra sè stesso; e dalle labbra livide gli scaturiva un alito vaporoso, puzzolente di acquavite. Tuttavia si allarmò per lo stato di Giacobbe.
— Che cosa diavolo hai? — gli chiese rudemente. — Il fianco? Il fianco? Hai diavoli al fianco! Vediamo un po’.
Sollevò le coperte, scoprì il fianco velloso di Giacobbe, lo palpò, vi mise su l’orecchio.
— È un corno! Sei viziato come una creatura, — disse, ricoprendolo in malo modo. Ma quando zia Anna-Rosa lo accompagnò fino alla porta, egli si volse e la fissò.
— Donnina, — le disse, — fatelo dunque confessare, perchè ha la polmonite.
Sull’imbrunire Giacobbe si confessò. Poi fece chiamare la sorella e disse:
— Anna-Rò, anche prete Elias verrà con te, dal giudice. Andrete in carrozza perchè fa freddo.
Infatti fuori nevicava: un barlume biancastro, di una infinita melanconia, penetrava ancora nella grande camera misteriosa il cui soffitto sembrava un cielo grave di nuvole.
Prete Elias guardò zia Anna-Rosa alla quale egli voleva un gran bene perchè rassomigliava alquanto a sua madre: ella s’era fatta ancora più piccina, tutta nera nella penombra triste del crepuscolo nevoso, e piegava la faccia, vergognosa del delitto del suo «fratellino». Prete Elias indovinava tutto il dramma di quella povera anima, e fra di sè pregava per lei.