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— Siano benedette le sante anime del Purgatorio, che cosa hai, cosa ti senti, fratellino mio?

Isidoro, stupito, continuava a tastare il polso del malato, cercando ora una vena, ora l’altra, e diceva:

— Oh! Oh! Questa è curiosa!

— Ebbene, che hai? Vuoi dirmi che cosa hai? Che cosa ha avuto, Isidoro Pane?

— Ma niente... ma niente... Ha gridato, ecco tutto. Forse ha fatto un cattivo sogno. Ora gli diamo un po’ d’acqua, ecco. Porta un po’ d’acqua. Ecco, ora bevi. Eh, come bevi! Avevi sete? Capisci, è la febbre, ecco tutto.

Bevuta l’acqua, Giacobbe, che s'era seduto, si calmò: una vecchia maglia di cotone bianco gli disegnava il corpo piccolo, ma robusto; il petto coperto di fitto pelo nero contrastava con la testa e la faccia pefettamente rase: piegato in avanti, pensoso, passandosi la mano sana sul braccio malato, disse con la voce ansante e lamentosa dei febbricitanti: — Brutto sogno, ho fatto, sì! Che caldo, San Costantino bello! Un caldo da forca. Ho sognato l’inferno.

— Che idee! che idee! — disse la sorella con rimprovero.

E zio Isidoro scherzò:

— E c’era caldo, uccellino di primavera?

Il malato s’irritò:

— Non scherzare, non dire più «uccellino di primavera». Mi fai arrabbiare. Io non lo dirò