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mortificato; ma nonostante il suo buon senso, la sua saviezza, la sua religione, non poteva spiegarsi che male c’era se si cercava di guarire il morso della tarantola coi canti, i suoni, i riti usati dai padri e dagli avi del villaggio sin dal tempo nel quale i giganti vivevano nei Nuraghes.

Le donnicciole si erano sbandate nella strada, a gruppi di due o tre, e a bassa voce, nell’ombra, commentavano l’accaduto. Chi la prendeva sul serio, chi criticava il prete: una ragazza molto allegra si batteva le mani sulle anche canticchiando ironicamente:

Faladu m’est su tronu,
O mama de ranzolu.1

Era la nenia che si doveva cantare intorno al letto del malato, se non sopraggiungeva prete Elias. Alcune donne s’avvicinarono ad Isidoro; ma egli andò oltre a lunghi passi, pensieroso: allora tutte se ne andarono, e intorno alla case della vedova regnò la sera fredda e verdognola. Le stelle parevano occhi d’oro velati di lagrime.

XIV.

La camera ove giaceva Giacobbe Dejas era di un’altezza straordinaria, e così vasta che il lume ad olio non riusciva ad illuminarne abbastanza gli angoli. Bisogna dire però che i

  1. M’è caduto un fulmine,
    O madre del ragno.