Mitologia del secolo XIX/VIII. Semele
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VIII. SEMELE.
Ho ricordato più volte un detto comune: il meglio esser nemico del bene. Ora da qualcheduno mi è chiesta spiegazione; da qualche altro, che non abbisogna o mostra di non abbisognare di spiegazioni, è censurata la troppa mia riverenza a quel detto. Prima di tutto mi sembra dover dichiarare che cosa altri ed io c’intendessimo per quelle parole, indi mostrare la loro acconcezza riferendomi agli esempi della vita più ripetuti e più familiari.
Assai picciolo è il numero di quelli che non veggano il bene, quando per l’altra parte grandissimo è il numero di quelli, che, o fanno le viste di non conoscerlo, o, conosciuto che l’abbiano, battono tutt’altra strada. Non c’è gramo scolaretto a cui non sia nota la sentenza d’Ovidio posta in bocca a Medea, e chi non voglia impacciarsene co’ poeti del secolo di Augusto e col latino, ha tradotta quella sentenza medesima in tutte le lingue del mondo, e nei libri dei filosofi d’ogni tempo. Un artificio più fino della nostra malizia sta in questo, di voler carpire, abborrendo dal bene, una lode maggiore di quella che sarebbe conceduta naturalmente a chi lo operasse di tutta coscienza. Come questo? Ecco il come. Sopra il bene c’è il meglio, e questo meglio c’è sempre, qualunque sia il bene; dacchè alla nostra inferma natura, non che praticare, non è conceduto nemmeno d’immaginare il bene ultimo, il bene assoluto, impossibile ad essere migliorato. Coloro adunque che sono inabili al bene (e qui per inabili vogliamo intendere quelli che non ne hanno la volontà) accorgendosi della vergogna che loro ne verrebbe, credono rendersi scusabili, e avanzarsi fors’anco nella opinione dei poco veggenti, con dire che non fanno quel bene, che pur sarebbe lor conceduto di fare, perchè credono non essere il meglio fattibile; e, confortati da questa squisitissima ipocrisia, se ne rimangono ravvolti, o dirò anzi imbacuccati nel manto della loro accidia, contenti di sè medesimi, e censuratori accaniti del prossimo che si travaglia, non potendo raggiugnere il meglio, ad operare il bene semplicemente.
E per verità gli è doppio il danno che apportano al mondo questi amatori del meglio; primieramente di tutto quel bene che non fanno, e in secondo luogo di tutto quello che, fatto dagli altri, ha le loro censure. Infestissima razza, che potrebbe assai bene essere paragonata alla ingorda e indolente famiglia dei fuchi, i quali, a non altro buoni fuorchè a ronzare, come l’api hanno condotto molto innanzi l’opera del mele, s’intromettono furtivi nelle colme cellette e si impinguano all’altrui spese. E similmente questi poltroni maligni, vociferatori instancabili di quelle virtù che non hanno, là dove altri si strugge l’anima e si tormenta la vita a praticarne qualcuna, si credono fare il loro debito magnificando le altrui ommissioni, e stimando quello che rimane a fare sempre migliore di quello che venne fatto.
Quanto s’è detto in generale degli uomini tutti può dirsi degli artisti più particolarmente, ossia di quelli che si occupano della rappresentazione del bello sotto forme sensibili, qualunque sia il mezzo da essi adoperato in simili rappresentazioni. E qui ancora come negli altri casi il meglio si mostra nemico del bene. A secoli addottrinati, e di finissimo gusto, succedono secoli d’ignoranza e di corruttela. Della qual corruttela chi voglia indagare le riposte cagioni le trova appunto in ciò, che l’irrequietudine, naturale all’uomo, non appagandosi di quanto fino a quell’ora erale conceduto di assaporare, nè potendosi forse dall’infermità nostra passar oltre, tenendo il retto cammino, altre strade sono tentate, quasichè il divertire fosse avanzare, a simiglianza di chi, errando smarrito per gli andirivieni di un labirinto, si crede progredire verso l’uscita quando non altro fa che ritornar sui suoi passi. Oltre a questo fatto, la verità del quale è provata dalla continua esperienza, anche negli studii accade il medesimo che abbiamo notato succedere negli altri accidenti della vita, in quanto che molti uomini, cui manca il coraggio o l’abilità di produrre alcun che del proprio, si contentano di metter il dente sull’opere altrui lacerandole, e ciò fanno o palesemente e per via diritta con censure individuali al lavoro e all’artista, o copertamente e per modo indiretto, lodando sempre quel meglio cui non è dato di conseguire ai nostri intelletti limitatissimi, e non contando per nulla quel bene, che quand’anche sia poco, è benanche da pochi raggiunto e non senza grave fatica.
Ma diranno forse taluni: tener l’occhio a quel di meglio che avervi può in ogni cosa, non è egli sentimento desiderabile così nella pratica della morale, come nell’esercizio dell’arti? Rispondo, che chi questo negasse, negherebbe il fondamento alle azioni più nobili e luminose; toglierebbe all’uomo e all’artista lo sprone più efficace a procedere sempre più innanzi nel bene; e mostrerebbe di aver tanto corto l’ingegno quanto l’animo abbietto. Il detto di Cesare nella capanna dell’alpigiano: piuttosto qui primo, che in Roma, secondo; è detto, che tutta compendiava in poche parole la vastità di quell’anima assetata di gloria e d’impero. Non può ascoltarlo senza terrore chi pensi, come quel detto fosse quasi preludio a spronar oltre il cavallo, giunto alle rive del Rubicone, e a far che le spade de’ suoi soldati s’insanguinassero nei petti fraterni; ma riferito in generale a quella voce interiore onde si sente ogni uomo chiamato a tentare piuttosto questa che quest’altra strada, contiene in sè un’importante lezione, alla quale è desiderabile che gli uomini si avvezzino a conformarsi, qualunque sia la carriera in cui si trovino incamminati. Quando Colombo diceva a sè stesso: trovar nuovo mondo o affogare; non diceva egli il somigliante che Cesare? E l’essere primo a metter piede in America non era al navigatore lo stesso, che al comandante d’eserciti il cacciarsi sotto la dignità del senato, e la potenza del popolo tutta quanta?
Ma in quello che Cesare preferiva la supremazia nella capanna alla soggezione, tuttochè a solo un altro, nella capitale, contendeva ad ascendere alla cima suprema del dittatorato; e Colombo coll’animo apparecchiato ad affogare anzichè rimanersi contento ai confini del mondo antico, spingevasi più sempre innanzi verso il novello, non punto sbigottito dalle minacce dell’incognito e discreduto cammino o frastornato dalla pigrizia delle corti a prestargli mano. Con che voglio dire: essere altro il mirare al meglio, non lasciando di operare quel bene che può ad esso meglio condurre; altro contentarsi di starsene specolando, senza che la specolazione torni mai profittevole all’atto, anzi con fare ch’essa lo allontani e ritardi. A quella stessa guisa che stimo meritevoli di grande censura coloro che per badare al meglio non operano il bene, credo sia obbligo proprio di tutti gli uomini, operando il bene, di tener sempre al meglio rivolto il pensiero, e non mai concedere al desiderio di riposare.
Quanto abbiamo detto sinora degli inetti amatori del meglio, mi pare che possa trovarsi assai vivamente figurato in ciò che le favole raccontano di Semele, giovine tebana, amata da Giove. Seguendo il costume, di cui abbiamo dato parecchi esempi, spenderemo qualche parola a dichiarare alquanto minutamente il significato di quella mitologica allegoria. Fu dunque la tebana Semele una fra le amate da Giove, della quale avendo posto Giunone quel solito odio onde sentiva infiammare il geloso suo cuore, contro qualunque si fosse la donna concorrente con essa nell’amore del proprio marito e fratello, pensò una nuova astuzia a far sì che la incauta rivale fosse ella stessa strumento della propria rovina. Le spirò quindi il pensiero, assunto come vogliono alcuni l’aspetto di una vecchia nudrice, di richiedere a Giove che se le manifestasse in tutta la celeste sua pompa e grandezza, quale appunto era costumato di fare con essa Giunone. La credula e ambiziosa donna si lasciò prendere alle parole della Dea, e dopo aversi fatto giurare da Giove, con giuramento impossibile ad essere infranto, l’adempimento della domanda, sì gliela espose quale appunto dalla maligna consigliera erale stata suggerita. Si accorse egli il Dio di donde partisse il consiglio, ma non potendo per una parte distorre la donna sedotta dal suo folle proposito, e non per l’altra mancare al giuramento, accerchiato di tutto il lume della sua potenza, e colla ghirlanda corruscante delle sue folgori, si recò ai soliti colloquii della tebana. La donna mortale non resse, che tanto non venivale conceduto dalla propria natura, a quella sovrabbondanza di luce e di terribile maestà, e ne fu morta. Ora non c’è egli qui un emblema apertissimo di chi, non contento del bene, lasciandosi sedurre a tentare quel meglio, a cui non può mai arrivare la nostra miseria, ne rimane distrutto? Oh fosse rimasta contenta la povera Semele a quel tanto che vedeva di Giove! Oh non avesse voluto vagheggiarne la suprema potenza!
E a far più manifesto il senso recondito dell’allegoria, sapete voi che si narri dai mitologi in seguito all’incenerimento della disgraziata fanciulla? Si narra, che ne nacque Bacco, dio, come sapete, del vino, e per conseguenza, ci aggiungo io, dell’ubbriachezza. Ciò, che viene a dire, che questo benedetto amore, e diremo anzi furore del meglio, assai facilmente degenera in ubbriachezza, o partecipano per lo meno dell’ubbriachezza i parti che nascono da questo amore. Non vi sembrano per verità concetti di ubbriachi certe pitture, certe poesie, certe musiche, colle quali si avvisarono alcuni, tenendo altra via da quella che era stata per lo innanzi battuta, rinsavire il mondo e destarlo dal sonno nel quale, secondo il loro giudizio, era rimasto sepolto fino a quell’ora? Ecco in ciò un altro guaio non piccolo nel quale s’imbatte chi troppo s’innamora del meglio, ed è appunto in opposizione a quel primo di chi si rimane contento del contemplare. Sicchè questo infelice desiderio del meglio con danno del bene, ha due pericolosissime estremità alle quali può condannare i suoi ciechi proseliti: da un lato lo starsene colle mani in mano, come suol dirsi, e notare le altrui magagne, senza adornare sè stessi di alcuna virtù; dall’altro di correre troppo oltre e concepire disegni e tentare imprese rovinosissime e da ubbriachi.
Conchiudiamo: operando il bene mirisi al meglio costantemente; ma questa contemplazione del meglio non ci distolga dall’operare il bene. Il meglio ci ha, e ci deve essere in ogni cosa; ma prima del meglio c’è il bene, e non speri di giugnere al meglio chi non ha prima fatto prova del bene, o s’incammina per altra strada.