Michele Strogoff/Parte Seconda/Capitolo VIII. Una lepre che attraversa la strada
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CAPITOLO VIII.
una lepre che attraversa la strada.
Michele Strogoff poteva finalmente credere che la strada fosse libera fino ad Irkutsk. Egli era passato innanzi ai Tartari, trattenuti a Tomsk, e quando i soldati dell’Emiro fossero giunti a Krasnoiarsk non dovevano poi trovare che una città abbandonata. Colà nissun mezzo di comunicazione immediata fra le due rive dell’Yenisei; d’onde ritardo di alcuni giorni fino a che un ponte di battelli, difficile da preparare, permettesse loro il passaggio.
Per la prima volta, dopo il funesto incontro d’Ivan Ogareff ad Omsk, il corriere dello czar si sentì meno inquieto e potè sperare che niun ostacolo nuovo avesse a sorgere fra lui e la meta.
La kibitka, dopo essere discesa obliquamente verso sud-est per una quindicina di verste, ritrovò e riprese la lunga via tracciata attraverso la steppa.
La strada era buona, ed anzi questa porzione di cammino che si stende fra Krasnoiarsk ed Irkuts è riputata la migliore di tutto il tragitto. Pochi trabalzi pei viaggiatori, vaste ombre che li proteggevano contro gli ardori del sole, talvolta foreste di pini e di cedri che coprivano uno spazio di cento verste; non più l’immensa steppa, la cui linea circolare si confondeva all’orizzonte con quella del cielo. Ma quel ricco paesaggio era vuoto allora. Da per tutto borgate abbandonate; non più alcuno di quei contadini siberiani, tra i quali domina il tipo slavo. Era il deserto e, come è noto, il deserto per ordine.
Bello era il tempo, ma già l’aria rinfrescata durante le notti, non si scaldava che più difficilmente ai raggi del sole. Si era ai primi giorni di settembre, ed in quelle regioni d’alta latitudine l’arco diurno si accorcia visibilmente sopra l’orizzonte. L’autunno vi è di breve durata, sebbene questa parte del territorio siberiano non sia situata al disopra del cinquantacinquesimo parallelo che è quello di Edimburgo e di Copenaghen. Talvolta anche l’inverno succede quasi di botto all’estate, e devono pur essere precoci codesti inverni della Russia asiatica, durante i quali la colonna termometrica scende fino al punto di congelazione del mercurio 1, ed in cui si considera come una temperatura sopportabile la media di venti gradi centigradi sotto zero.
Il tempo favoriva i viaggiatori; non era nè burrascoso, nè piovoso. Il calore era temperato, fresche le notti. La salute di Nadia e quella di Michele Strogoff duravano buone, e dacchè avevano lasciato Tomsk, essi s’erano a poco a poco rimessi dalle fatiche passate.
Quanto a Nicola Pigassof, egli non era mai stato meglio; era una passeggiata per lui codesto viaggio, un’escursione gradita, nella quale spendeva le sue vacanze di funzionario senza funzioni.
— Assolutamente, diceva egli, questo val meglio che starsene dodici ore al giorno sopra una seggiola a manovrare un manipolatore!
Frattanto Michele Strogoff aveva potuto ottenere da Nicola ch’egli spingesse il suo cavallo ad una più rapida andatura. Per riuscire a ciò, gli aveva confidato che Nadia e lui andavano a raggiungere il padre loro esiliato ad Irkutsk, e che avevano gran fretta d’arrivare. Certamente non bisognava affaticarlo troppo questo cavallo, perchè era molto probabile che non s’avesse a trovare da barattarlo con un altro. Ma facendo delle fermate piuttosto frequenti — per esempio ogni quindici verste — si poteva percorrere facilmente sessanta verste ogni ventiquattro ore. D’altra parte questo cavallo era vigoroso, e per la sua razza medesima molto adatto a sopportare le lunghe fatiche. Non gli mancavano i grassi pascoli lungo la via, dove l’erba era abbondante. Era dunque possibile chiedergli un maggior lavoro.
Nicola si era arreso a tali ragioni. Egli era stato molto commosso dalla condizione di questi due giovani che se ne andavano a dividere l’esilio del padre loro. Nulla gli pareva più commovente. Bisognava vedere con qual sorriso egli diceva a Nadia:
— Bontà divina! che gioja sarà quella del signor Korpanoff quando gli occhi suoi vi vedranno, quando le sue braccia s’apriranno per ricevervi! E se io vado fino ad Irkutsk, e mi pare molto probabile oramai, — mi permetterete d’essere presente al primo colloquio? Sì, non è vero?
Poi battendosi la fronte:
— Ma, ora che ci penso, che dolore sarà quello di vedere suo figlio cieco! Ah! che contrasti in questo mondo!
In sostanza, da tutto questo risultava che la kibitka camminava più spedita e, secondo i calcoli di Michele Strogoff, faceva oramai dieci o dodici verste ogni ora.
Ne derivò che il 28 agosto i viaggiatori passarono il borgo di Balaisk, ad ottanta verste da Krasnoiarsk, e il 29 quello di Ribinsk, a quaranta verste da Balaisk.
Il domani, trentacinque verste al di là, essa giungeva a Kamsk, borgata più importante, bagnata dal fiume del medesimo nome, piccolo affluente dell’Yenisei che scende dai monti Sayansk. Non è che una città di poca importanza, le cui case di legno sono aggruppate pittorescamente intorno ad una piazza, ma è dominata dall’alto campanile della sua cattedrale, la cui croce dorata risplendeva al sole.
Case vuote, chiesa deserta, non più cambio di cavalli, non più albergo abitato, non un cavallo in scuderia, non un animale domestico nella steppa. Gli ordini del governo moscovita erano stati eseguiti con assoluto rigore. Quello che non aveva potuto essere trasportato era stato distrutto.
Nell’uscire da Kamsk, Michele Strogoff disse a Nadia ed a Nicola, che non troverebbero più che una piccola città di una certa importanza, Nijni-Udinsk, prima d’Irkutsk. Nicola rispose che lo sapeva, tanto più che in quella borgata v’era una stazione telegrafica. Dunque se Nijni-Udinsk era deserta, egli sarebbe obbligato ad andare a cercare qualche occupazione fino alla capitale della Siberia orientale.
La kibitka potè attraversare a guado e senza gran stento il piccolo rivo che taglia la via al di là di Kamsk. D’altra parte fra l’Yenisei ed uno de’ suoi gran tributarî, l’Angara, che bagna Irkutsk, non era più a temere l’ostacolo di qualche gran corso d’acqua, tranne forse il Dinka. Il viaggio non potrebbe dunque essere ritardato da questo lato.
Da Kamsk alla prossima borgata, la tappa fu lunga circa centotrenta verste. Non occorre dire che le fermate in regola furono sempre fatte, «senza di che, diceva Nicola, il cavallo avrebbe giustamente fatto sentire le sue ragioni. Era stato convenuto, con questo coraggioso animale, che esso si riposerebbe ogni quindici verste, e quando si fa un patto anche cogli animali, vuole l’equità che si stia nei termini del contratto.
Dopo d’aver valicato il piccolo fiume di Biriusa, la kibitka giunse a Biriusinsk nel mattino del 4 settembre.
Colà fortunatamente, Nicola, che vedeva consumare le proprie provviste, trovò in un forno abbandonato una dozzina di pogatchas, specie di pasticcio preparato con grasso di montone, ed una gran provvista di riso cotto nell’acqua. Questi alimenti andarono a raggiungere in buon punto la provvista di kumyss, di cui la kibitka erasi sufficientemente approvvigionata a Krasnoiarsk.
Dopo una fermata conveniente fu ripreso il viaggio nel pomeriggio del 5 settembre. La distanza fino ad Irkutsk non era più che di cinquecento verste. Nulla indietro segnalava l’avanguardia tartara. Michele Strogoff aveva dunque ragione di credere che il suo viaggio non fosse più intralciato e che fra otto giorni o dieci al più egli si troverebbe davanti al gran duca.
Uscendo da Biriusinsk una lepre venne ad attraversare la strada a trenta passi innanzi della kibitka.
- Ah! disse Nicola.
- Che hai, amico? domandò vivamente Michele Strogoff, timoroso ad ogni minimo rumore come tutti i ciechi.
- Non hai veduto?... disse Nicola, la cui faccia sorridente si era a un tratto oscurata.
Poi aggiunse:
- Ah! no! tu non hai potuto vedere, e fu fortuna per te, babbo mio.
- Anch’io non ho visto nulla, disse Nadia.
- Tanto meglio! Ma io.... ho veduto!...
- Che cosa? domandò Michele Strogoff.
- Una lepre che ci ha tagliato la strada! rispose Nicola.
In Russia, quando una lepre taglia la strada ad un viaggiatore, la credenza popolare vuole che sia predizione di prossima sciagura.
Nicola, superstizioso come la massima parte dei Russi, aveva fermato la kibitka.
Michele Strogoff comprese l’esitazione del suo compagno, benchè non dividesse menomamente la sua credenza rispetto alle lepri che passano, e volle rassicurarlo.
— Non v’è nulla da temere, amico, gli disse.
— Nulla per te e per lei, lo so, babbo mio, rispose Nicola, ma per me....
E soggiunse:
— È il destino!
Ciò detto, spinse di nuovo il cavallo al trotto. Frattanto, non ostante il brutto pronostico, la giornata trascorse senza alcun incidente.
Il domani, 6 settembre, al mezzodì, la kibitka si fermò al borgo di Aslalevsk, deserto anch’esso come tutta la regione circostante.
Colà, sulla soglia d’una casa, Nadia trovò due di quei coltelli a lama solida che servono ai cacciatori siberiani. Essa ne consegnò uno a Michele Strogoff, che lo nascose sotto le sue vestimenta, e serbò l’altro per sè. La kibitka non era più che a settantacinque verste da Nijni-Udinsk.
Nicola, durante queste due giornate, non aveva potuto riprendere il suo buon umore consueto. Il brutto pronostico lo teneva impensierito più che che non si potrebbe credere; e lui, che per lo innanzi non era mai stato un’ora senza parlare, cadeva talora in lunghi silenzî, da cui Nadia stentava a toglierlo. Tali sintomi erano veramente quelli d’uno spirito colpito, e ciò si spiega in questi uomini appartenenti ad una razza, i cui antenati furono i fondatori d’una mitologia paurosa.
Cominciando da Ekaterinburgo, la via d’Irkutsk segue quasi parallelamente il cinquantacinquesimo grado di latitudine, ma uscendo da Biriusink essa piega francamente verso il sud-est, in guisa da tagliare di sbieco il centesimo meridiano. Essa prende la via più breve per giungere alla capitale della Siberia orientale, valicando le ultime balze dei monti Sayansk, i quali non sono che una derivazione della gran catena degli Altai.
La kibitka correva dunque su quella strada. Sì, correva! Si sentiva bene che Nicola non pensava più a risparmiare il suo cavallo, e che egli pure oramai aveva fretta d’arrivare. Non ostante tutta la sua rassegnazione un po’ fatalistica, egli non si crederebbe più al sicuro se non nelle mura d’Irkutsk. Molti Russi avrebbero pensato come lui, e più d’uno, voltando le redini al cavallo, sarebbe tornato indietro dopo il passaggio della lepre sulla sua strada.
Frattanto alcune osservazioni ch’egli fece, e di cui Nadia potè accertare la giustezza riferendole a Michele Strogoff, diedero a credere che la serie delle prove non anco era chiusa per essi.
Infatti, se il territorio era stato dopo Krasnoiarsk rispettato nelle sue produzioni naturali, le sue foreste portavano ora le traccie del fuoco e del ferro, le praterie che si stendevano lungo la via erano devastate: evidentemente qualche drappello importante era passato di là.
Trenta verste prima di Nijni-Udinsk, gl’indizî d’una devastazione recente non poterono più esser dubbî; ed a chi altri attribuirla fuorchè ai Tartari?
Infatti, non erano più soltanto i campi calpestati dal piede dei cavalli, le foreste intaccate dall’accetta. Le poche case sparse lungo la via non erano più soltanto vuote: talune erano state demolite in parte, le altre mezzo incendiate. Impronte di palle si vedevano sulle loro mura.
Si comprendono le inquietudini di Michele Strogoff. Egli non poteva più dubitare che un corpo di Tartari avesse di recente attraversato questa parte della via, e nondimeno era impossibile che fossero i soldati dell’Emiro, giacchè essi non avrebbero potuto passargli innanzi senza che egli se ne fosse accorto. Ma allora chi erano dunque i nuovi invasori, e per qual via remota della steppa avevano essi potuto giungere alla via d’Irkutsk?
Quali nuovi nemici doveva incontrarsi di fronte il corriere dello czar?....
Queste apprensioni Michele Strogoff non le comunicò nè a Nicola nè a Nadia, non volendo inquietarli. D’altra parte, egli era risoluto a proseguire la sua strada fino a che un insuperabile ostacolo non l’arrestasse. Più tardi risolverebbe quello che convenisse fare.
Nella giornata successiva, il passaggio recente d’un importante drappello di cavalieri e di fanti divenne sempre più palese. Spire di fumo furono viste sull’orizzonte. La kibitka camminò con precauzione. Alcune case delle borgate abbandonate ardevano ancora, e certamente l’incendio non vi era stato acceso da più di ventiquattro ore.
Finalmente, nella giornata dell’8 settembre, la kibitka s’arrestò. Il cavallo rifiutava d’andare innanzi. Serko latrava lamentosamente.
— Che cosa è stato? domandò Michele Strogoff.
— Un cadavere! rispose Nicola gettandosi fuor della kibitka.
Il cadavere era quello d’un mujik, orribilmente mutilato e già freddo.
Nicola si fece il segno della croce. Poi, ajutato da Michele Strogoff, trasportò il cadavere sulla scarpa della via. Avrebbe egli voluto dargli una sepoltura decente, seppellirlo profondamente, affinchè i carnivori della steppa non dilaniassero le misere reliquie, ma Michele Strogoff non gliene lasciò tempo.
— Partiamo, amico, partiamo! esclamò egli. Non possiamo perdere neppure un’ora.
E la kibitka ripigliò le mosse.
D’altra parte, se Nicola avesse voluto rendere gli ultimi uffici a tutti i morti che oramai doveva incontrare sulla gran via siberiana, non poco tempo gli sarebbe abbisognato. In vicinanza di Nijni-Udinsk i cadaveri giacenti a terra si trovarono a ventine.
Bisognava per altro proseguire su quella via fino a che fosse manifestamente possibile di farlo, senza cadere nelle mani degl’invasori. L’itinerario non fu dunque modificato, e pure devastazioni e ruine si accumulavano ad ogni borgata. Tutti quei villaggi, i cui nomi indicano e furono fondati da esiliati polacchi, erano stati in balìa degli orrori del saccheggio e dell’incendio. Il sangue delle vittime non era ancora interamente coagulato. Impossibile d’altra parte conoscere in quali condizioni i funesti avvenimenti s’erano compiuti. Non rimaneva anima viva per dirlo.
Quel giorno, verso le quattro pomeridiane, Nicola vide all’orizzonte gli alti campanili delle chiese di Nijni-Udinsk, coronate di grosse volute di vapore, che non doveano essere nuvole.
Nicola e Nadia guardavano e comunicavano a Michele Strogoff il risultato delle loro osservazioni. Bisognava pigliare un partito. Se la città era abbandonata, si poteva attraversarla senza rischi, ma se, per un movimento inesplicabile, i Tartari l’occupavano, ad ogni costo bisognava farne il giro.
— Inoltriamoci prudentemente, disse Michele Strogoff, ma inoltriamoci.
Fu percorsa un’altra versta.
- Non sono nuvole, è fumo! esclamò Nadia. Fratello, s’incendia la città!
Era infatti palese. Bagliori fuligginosi apparivano in mezzo ai vapori. Questi turbini diventavano sempre più fitti e s’innalzavano al cielo. D’altra parte, nessuno che fuggisse. Era probabile che gli incendiarî avessero trovata la città abbandonata e vi avessero appiccato il fuoco. Ma erano Tartari quelli che così agivano, od erano Russi che obbedivano agli ordini del gran duca? Il governo dello czar aveva esso voluto che, dopo Krasnoiarsk, dopo l’Yenisei, non una borgata potesse offrire rifugio ai soldati dell’Emiro? E per quanto toccava Michele Strogoff, doveva egli arrestarsi, doveva egli proseguire la sua strada?
Era incerto. Pure, dopo aver pesato il pro ed il contro, pensò che qualunque si fossero le fatiche d’un viaggio attraverso la steppa, senza sentiero aperto, egli non doveva rischiare di cadere un’altra volta fra le mani dei Tartari. Voleva dunque proporre a Nicola di lasciar la via e, se fosse assolutamente necessario, di non ripigliarla se non dopo aver fatto il giro di Nijni-Udinsk, quando s’udì a dritta lo sparo d’una schioppettata. Fischiò una palla, ed il cavallo della kibitka, colpito al capo, cadde morto.
Nel medesimo istante una dozzina di cavalieri si gettarono sulla strada, e la kibitka fu circondata. Michele Strogoff, Nadia e Nicola senza neppure aver avuto il tempo di avvedersene, erano prigionieri e venivano trascinati rapidamente verso Nijni-Udinsk.
În questo improvviso attacco, Michele Strogoff nulla aveva perduto della sua freddezza d’animo. Non avendo potuto vedere i suoi nemici, non aveva pensato a difendersi. E quand’anche avesse avuto l’uso degli occhi, non l’avrebbe tentato. Sarebbe stato correre incontro ad un eccidio. Ma, se egli non vedeva, poteva ascoltare quanto essi dicevano.
Infatti, dal loro linguaggio, egli riconobbe che quei soldati erano Tartari, e dalle loro parole, che precedevano l’armata degli invasori.
Ecco, del resto, quello che Michele Strogoff apprese, un po’ dai discorsi fatti dinanzi a lui in quel momento, un po’ dai frammenti di conversazione che udì più tardi.
Quei soldati non erano direttamente sotto gli ordini dell’Emiro, trattenuto ancora al di là dell’Yenisei. Essi facevano parte d’una terza colonna, più specialmente composta di Tartari dei kanati di Kokand e di Kunduze, con cui l’armata di Féofar doveva congiungersi quanto prima nei dintorni d’Irkutsk.
Fu per consiglio d’Ivan Ogareff, e per assicurare la riuscita dell’invasione nelle provincie del l’Est, che questa colonna, dopo d’aver valicato la frontiera del governo di Semipalatinsk e d’essere passata al sud del lago Balkach, aveva rasentata la base dei monti Altai. Saccheggiando ogni cosa sotto la condotta d’un ufficiale del kan di Kunduze, era giunta fin sull’alto corso dell’Yenisei. Colà, prevedendo quello che s’era fatto a Krasnoiarsk per ordine dello czar, e per rendere facile il passaggio del fiume alle truppe dell’Emiro, quest’ufficiale aveva voluto abbandonare alla corrente una flottiglia di barche che, sia come imbarcazione o come materiale da ponte, dovevano permettere a Féofar di toccar la riva destra. Poi quella terza colonna, dopo d’aver fatto il giro della base delle montagne, aveva sceso la valle dell’Yenisei e raggiunto la strada presso ad Alsalevsk. Di là, dopo questa piccola città cominciava l’orribile cumulo di rovine, che forma la sostanza delle guerre tartare. Nijni-Udinsk aveva subíto la sorte comune, ed i Tartari, in numero di cinquantamila, l’avevano già lasciata per andare ad occupare le prime posizioni dinanzi ad Irkutsk. Fra poco dovevano essere raggiunti dalle truppe dell’Emiro.
Tale era la situazione in quel tempo, — gravissima per questa parte della Siberia orientale, completamente isolata, e per i difensori della sua capitale, al paragone poco numerosi.
Ecco ciò di cui Michele Strogoff fu informato: arrivo dinanzi ad Irkustk d’una terza colonna di Tartari, e congiunzione prossima dell’Emiro e d’Ivan Ogareff col grosso delle loro truppe. Perciò l’assalto d’Irkutsk e la sua resa non erano più che questione di tempo, e forse d’un tempo brevissimo.
Si comprende quali pensieri assediassero la mente di Michele Strogoff! Chi si meraviglierebbe se, in tale estremo, egli avesse alla fine perduto ogni coraggio, ogni speranza? Così però non fu, e le sue labbra mormorarono quest’unica parola:
— Arriverò!
Mezz’ora dopo l’attacco dei cavalieri tartari, Michele Strogoff, Nicola e Nadia entravano in Nijni-Udinsk. Il fedele cane li aveva seguiti, ma da lontano. Essi non dovevano soggiornare nella città, che era in fiamme e che gli ultimi predoni stavano per lasciare.
I prigionieri furono dunque buttati sopra cavalli e trascinati rapidamente: Nicola, rassegnato come sempre, Nadia, niente affatto commossa nella sua fede, e Michele Strogoff indifferente in aspetto, ma pronto a cogliere ogni occasione di fuga.
I Tartari s’erano subito avveduti che uno dei loro prigionieri era cieco, e la loro naturale barbarie gl’indusse a farsi giuoco di questo infortunio. Si camminava presto. Il cavallo di Michele Strogoff, abbandonato a sè stesso e camminando a caso, faceva spesso degli scarti che portavano il disordine nel drappello. D’onde ingiurie e brutalità che spezzavano il cuore della giovinetta ed indignavano Nicola. Ma che potevano essi fare? Essi non parlavano la lingua di quei Tartari, ed il loro intervento fu spietatamente respinto.
Poco stante, quei soldati, per un raffinamento di barbarie, ebbero l’idea di cambiare il cavallo che montava Michele Strogoff con un altro cieco. Il motivo di questo mutamento fu la riflessione d’uno dei cavalieri, al quale Michele Strogoff aveva inteso dire:
— Ma ci vede forse, quel Russo!
Codesto seguiva a sessanta verste da Nijni-Udinsk, fra le borgate di Tatan e di Chibarlinskoe. Si aveva dunque collocato Michele Strogoff su questo cavallo, mettendogli ironicamente le redini in mano. Poi, a colpi di frusta e di sassi, eccitandolo con cento grida, fu spinto al galoppo.
L’animale, non potendo essere mantenuto in dritta linea dal suo cavaliere, pur esso cieco, ora urtava in un albero, ora si buttava fuor della strada. D’onde trabalzi ed urti e cadute, che potevano anche essere funestissime.
Michele Strogoff non protestò, non mandò un gemito. Se il suo cavallo cadeva, egli aspettava che si venisse a tirarlo su. Lo rialzavano infatti, ed il crudele giuoco continuava.
Nicola, dinanzi a questi maltrattamenti non poteva contenersi. Egli voleva correre in ajuto del compagno, ma era trattenuto e picchiato.
Insomma, questo giuoco sarebbe senza dubbio durato un pezzo, con gran gioja dei Tartari, se un accidente più grave non v’avesse posto fine.
A un certo momento, nella giornata del 10 settembre, il cavallo cieco s’adirò e corse dritto ad una frana, profonda trenta o quaranta piedi, che rasentava la strada.
Nicola volle slanciarsi! Fu trattenuto. Il cavallo, non essendo guidato, si precipitò col suo cavaliere in quella frana.
Nadia e Nicola mandarono un grido di terrore!...
Dovettero credere che il disgraziato compagno fosse stato stritolato nella caduta!
Quando si andò a rialzarlo, Michele Strogoff, che aveva potuto buttarsi giù della sella, non aveva ferita alcuna, ma il disgraziato cavallo aveva rotto due gambe e non era più in grado di servire.
Fu lasciato morire in quel luogo, senza pur dargli il colpo di grazia, e Michele Strogoff, attaccato alla sella di un Tartaro, dovette seguire a piedi il distaccamento.
Non un gemito tuttavia, non una protesta! Egli camminò a passo rapido, tirato appena da quella corda che lo legava. Era sempre lo stesso uomo di ferro, di cui il generale Kissoff aveva parlato allo czar!
Il domani, 11 settembre, il distaccamento valicava la borgata di Chibarlinskoe.
Avvenne allora un incidente, che doveva avere gravissime conseguenze.
Era venuta la notte. I cavalieri tartari, essendosi riposati, s’erano più o meno ubbriacati, e stavano per ripigliar le mosse.
Nadia, che fino allora e quasi per miracolo era stata rispettata da quei soldati, fu insultata da uno di essi.
Michele Strogoff non aveva potuto veder nè l’insulto, nè l’insultatore, ma Nicola aveva visto per lui.
Allora, senza riflettere, senza forse aver coscienza della propria azione, Nicola mosse tranquillamente incontro al soldato, e, prima che avesse potuto fare un movimento per arrestarlo, afferrò una pistola dagli arcioni della sua sella, e gliela scaricò in mezzo al petto.
L’ufficiale che comandava il drappello accorse subito allo sparo.
I cavalieri avrebbero fatto a pezzi il disgraziato Nicola, ma, ad un cenno dell’ufficiale, s’accontentarono di legarlo e metterlo di traverso sopra un cavallo, ed il drappello ripartì di galoppo.
La corda che legava Michele Strogoff, rosa da lui, si lacerò nello slancio inconsueto del cavallo, ed il suo cavaliere, semi-ubbriaco, trasportato nella rapida corsa, non se ne avvide neppure.
Michele Strogoff e Nadia si trovarono soli sulla strada.
fine del terzo volume.
Note
- ↑ Circa quarantadue gradi sotto zero.