Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XXX
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte seconda - Capitolo XXIX | Parte seconda - Capitolo XXXI | ► |
CAPITOLO XXX
Come aveva giá preveduto, la Ricci partita dalla lettura del dramma con la facella infernale accesa, trovato il Gratarol che la attendeva, non saprei dire con qual industria comica abbia colorita la faccenda e fatto bere l’amaro calice a quel signore, ch’io esponeva alle pubbliche risa la di lui persona in un appellato «don Adone» ch’entrava nel mio dramma: Le droghe d’amore.
Prestando egli tutta la fede alla comica, infiammato ciecamente il cerebro contro di me, senza fare alcun prudente esame sulla veritá e sul mio carattere, mi proscrisse dall’animo suo, e valendosi boriosamente de’ forti mezzi, si pose a far de’ passi che non sono mai cauti e sono sempre perniziosi in queste tali materie.
Nel punto che con la cautissima e secreta mia direzione, per una pura mia delicatezza di sospetto sul mal animo d’una attrice, aveva io fermato il mio dramma innocente dall’entrare in sulla scena, il Gratarol che aveva giudicata rea l’opera mia sulla sola asserzione d’un’attrice con me inviperita, giva invasato facendo de’ caldi uffizi ne’ sacrari — uffizi impossibili da tener celati e ch’erano giá superflui — onde il mio dramma fosse impedito.
Contro ogni aspettazione, quattro giorni dopo il mio stabilito impedimento per affogare tutti i discorsi alterati che potrebbero gorgogliare per la cittá, m’incontrai nel Sacchi, il quale mezzo tralunato mi disse: — Con mio stupore Ella è stato indovino. Convien dire che la Ricci abbia fatta la mala azione da lei sospettata la sera medesima della lettura del suo dramma. La sospensione da lei comandata del dramma fu fuori di tempo, o quella pettegola, vogliosa di far nascere una scena disgustosa verso la compagnia e verso lei, abbia tenuto in silenzio l’ordine mio di non piú recitare in quest’anno quell’opera. Questa mattina il signor Francesco Agazi, secretario notaio revisore al magistrato sopra alla bestemmia, mi comandò di mandargli nuovamente il dramma: Le droghe d’amore da rivedere, quantunque il libro fosse stato da lui letto, esaminato e licenziato per il mio teatro. Gli chiesi in grazia il perché di questa doppia revisione. Mi rispose ch’erano stati fatti de’ pettegolezzi sopra a certa parte d’un don Adone ch’entrava nell’opera, e che aveva de’ calzanti stimoli per avere di nuovo quel libro nelle mani.
A tal riferta risi alquanto e per la compiacenza di non essere un indovino dappoco e perché il mio naturale è forzato a ridere sopra infiniti movimenti del genere umano.
Richiamata la serietá — Ebbene — diss’io, — voi averete prontamente consegnato il dramma al signor Agazi.
— Io no — rispos’egli; — mi potrebbe essere trattenuto per sempre sopra un falso ricorso, e non voglio perdere quel capitale. Ho detto al signor Agazi che m’era stato chiesto dalla tal dama da leggere per divertimento, che riavuto che l’abbia glielo consegnerò, ed egli sorrise dicendomi: — Bene, bene; letto che l’abbia quella dama, ricordatevi di riconsegnarlo al magistrato. — Infatti — soggiunse il Sacchi — per non comparire bugiardo sono corso poco fa da quella dama, ho consegnato a lei il libro, l’ho supplicata a leggerlo, informandola dell’indegno uffizio della Ricci, delle ingiuste mosse del Gratarol, del pericolo in cui io ero di perdere quell’opera senza alcun ragionevole proposito, e mi sono caldamente raccomandato alla protezione di quella dama.
La riferta del Sacchi fu per me una spezie di folgore. Non potei difendermi da qualche dispetto udendo la narrazione di quell’istrionico raggiro, che mi presentava agli occhi mentali chiaramente un’estensione di solenni pubbliche ciarle perniziose.
— Avete fatto malissimo — diss’io al comico con del calore. — Io non merito che la brama del vostro interesse vi orbi sul pericolo a cui esponete il mio buon nome. Conosco quella dama allegra, bizzarra e puntigliosa. Questa sera alla di lei numerosa conversazione l’argomento de’ discorsi sará il mio dramma e lo saranno i passi imprudenti fatti dal Gratarol, credulo alle pettegole asserzioni inventate dalla comica con me crucciosa. Il Gratarol ha molti nimici. Domani Venezia sará piena di strane chiacchiere sulle mie spalle e sopra quelle di quel signore. Dovevate riconsegnare al signor Agazi il libro. Siccome so ridermi delle private frascherie, sarei uno stolto se non curassi la volontá de’ tribunali dal canto mio e se cercassi de’ sotterfugi per non obbedirli ciecamente. Tutte le opere ch’io scrissi, quantunque forse un po’ troppo franche, trovarono della indulgenza e della condiscendenza nel mio Principe ne’ loro passaggi al pubblico. Mi rincrescerebbe moltissimo che da questo punto fossero guardate con occhio di sospezione. Ricordatevi che se ciò nasce non ho piú né calamaio né penne per il teatro. Spero che ricupererete il dramma e lo darete con sollecitudine al magistrato. Vi ricordo che se ciò non farete, potranno nascere delle sciagure anche a voi. Co’ tribunali non s’usano raggiri.
— A dirle il vero — mi rispose il Sacchi, — ho preso il partito che le ho palesato, perché ho avuto timore che gl’ingiusti maneggi e la forza del signor Gratarol cagionassero che il dramma non mi fosse piú restituito, e per delle pazze malignitá non voglio perdere quel capitale per il mio teatro.
— Gran capitale! — diss’io. — Farmi d’udire la dama che mi nominaste divertirsi coll’acume suo vivace sopra a questa faccenda. La strada che avete presa, quanto piú il mio dramma è innocente, tanto piú cagionerá de’ susurri, e piuttosto ch’egli divenga argomento di que’ tumulti che prevedo e abborrisco, sarebbe meglio che andasse le mille miglia sotterra.
Il Sacchi alquanto audacemente mi rispose le seguenti grossolane precise parole: — Eh! mi perdoni, lei ha troppi dubbi e troppi riguardi di delicatezza: convien far fronte e non lasciarsi cacar sul capo da certi sopraffattori.
Averei dovuto accendermi sull’audacia del Sacchi, ma per i miei sistemi fissi i comici non ebbero mai vigore di destare in me l’irascibile. Mi contentai di dire a quel capocomico: — Voi udirete nascere de’ discorsi e de’ schiamazzi disgustosi che forse a voi non dorranno e a me dorranno infinitamente. — Detto ciò, gli volsi le spalle lasciandolo.
Se il signor Gratarol avesse avuto due dramme di saggia avvertenza non averebbe mai fatti i passi ch’egli fece contro l’opera mia. Per quanto cotesti suoi passi sieno stati secreti, doveva prevedere che non sarebbero rimasti nella secretezza. Il sospetto era stato istillato in lui da una comica e i suoi passi urtavano troppe persone.
L’unico passo era quello di far ammutolire la attrice come una referendaria di cosa impossibile, e quello di venire da me amichevolmente e scherzevolmente a fronte aperta a dirmi il sospetto che quella femmina aveva tentato di destare in lui. Egli averebbe trovata una calma perfetta nella mia ingenua onestá. Ma fosse che quel signore sentisse internamente di meritarsi da me una mortificazione assolutamente contraria all’indole mia ed al mio carattere, fosse che la comica, resa giá mia nimica per le cose dette, avesse coltivato per il corso d’un anno nel di lui cervello e nel di lui animo il disprezzo e il livore di me e verso me, egli prestò ciecamente fede alle riferte d’un’attrice, fece ciecamente i suoi passi falsi e ciecamente mi considerò capace di que’ sentimenti ch’egli m’ha poscia attribuiti con una facilitá e un’ostinazione non degne d’un uomo saggio, ben nato, ben educato e ragionevole.
Niente sta occulto sulle materie teatrali, e il piú picciolo movimento fatto per impedire l’ingresso nel teatro d’una nuova rappresentazione, nota ed attesa con aviditá dal pubblico, d’un autore concittadino conosciuto per scrittore ardito, è palese immediatamente e inevitabilmente con infinite variazioni e alterazioni de’ scioperati ciarlieri.
Non potrá giammai essere mio difetto la dipendenza che s’è abbassato ad avere il Gratarol alla maliziosa e falsa relazione d’una donnicciuola scenica per delle mosse e degli uffizi, vestendo se medesimo d’un obbietto che non doveva temere.
Non sará giammai difetto di chi per aderire con amicizia a’ suoi inopportuni timori fece delle ricerche sul mio dramma, mettendo de’ dubbi in chi l’aveva letto, esaminato e licenziato magistralmente per il teatro.
Non sará giammai accusabile di difetto l’impuntabile ministro signor Agazi revisore, se spinto dagli uffizi chiese la restituzione del dramma al capocomico per esaminarlo di nuovo, per favorire gli uffiziatori oltre al soddisfare al zelo della di lui ispezione.
Sará uno sciocco niente conoscitore del mondo quello che si degnerá d’accusare un capocomico dell’aver proccurato di porre in salvezza senza urbani riflessi cosa da cui sperava dell’utilitá, nume de’ commedianti.
Mi si dirá se con tutti gli oggetti e tutte le persone in contrasto in quella circostanza, i passi fatti dal Gratarol per far proscrivere il dramma potevano rimanere secreti.
Tutti hanno degli amici a’ quali credono di poter narrare in secretezza delle cose. In una materia teatrale che in quella stagione interessa il popolo immerso nelle leggerezze e nelle voluttá, tutti i sopraddetti passi fatti sopravanzano in cento doppi ciò che basta ad empiere una cittá d’oziosi dialogatori in questo proposito. Il solo signor Gratarol fu il cieco, ché raggirato come una trottola da una comica, corse adombrato a far de’ passi, secreti nel suo cervello, e senza prevedere le conseguenze e una pubblicitá irreparabile.
S’egli volesse fare a me un delitto delle circostanze che lo circondavano e nelle quali s’era posto, o de’ nimici ch’egli aveva e che s’era fatti colle sue direzioni, è cosa certa ch’io potrei giudicarlo stolto senza rimorsi. Non ho scarsezza di fatti per qualificarlo stolto, come proverò ad evidenza.
La dama a cui il Sacchi aveva data a leggere l’opera mia e raccomandata, prevenendola con una imprudenza mossa dalla venalitá, di quanto girava per la fantasia del Gratarol sparsa di corrotti vapori dalla Ricci, leggendo l’opera con tutta la prevenzione, non trovò niente in essa che avesse relazione a ciò che sospettava il detto signore.
Quel strepitoso dramma passò accompagnato dalle accennate nozioni e dalla risa della dama lettrice sotto la lettura d’altre dame ragguardevoli, di molti rispettabili cavalieri, e sempre con le prevenzioni d’avviso sopra accennate. Nessuno trovò in quel dramma ciò che realmente non v’era.
Le franche esagerazioni cominciarono a volare. Si accusava di stomachevole petulanza il Gratarol, perch’egli infinocchiato da una comica cercasse d’impedire un divertimento innocente alla cittá d’una rappresentazione teatrale nuova, di che v’era tanta scarsezza, e ch’egli avesse l’audacia di contraddire e in certo modo di correggere e di cozzare con una grave magistratura che l’aveva giá esaminata, trovata morale, innocente e licenziata per il teatro.
In due giorni tutta Venezia da un capo all’altro fu pienissima di cicalecci sul mio povero dramma, sugli omeri del Gratarol e sugli omeri miei.
I popoli inclinano a bramare che tutte le cose sieno gigantesche e della natura de’ turbini, per avere di che favellare, di che far stupire e far spalancare delle bocche e degli occhi. Se tali non sono, lascia fare ad un popolo a farle divenir tali.
Si narrava che l’opera mia era una satira sanguinosa, ch’io metteva in sulla scena il Gratarol non solo, ma i tali signori e le tali signore al numero di tanti e tante che in veritá il palco scenario, il parterre e tutti i palchetti non averebbero potuto contenere il gran numero di persone che si nominavano, ed erano tutti oggetti conosciutissimi. Si contrastava, si disputava, si negava, si sosteneva, si argomentava, si aggiungeva, si alterava, si riferiva, si confidava negli orecchi, si narravano cagioni immaginarie, aneddoti contradicenti e spropositati; e tutti sapevano tutto da un vero fonte infallibile.
Il Gratarol era per la pubblica fama giá stabilita il protagonista dell’opera, e l’effetto vero de’ cicalari era un apparecchio immancabile d’illusione, risvegliato a pregiudizio di quell’infelice da’ passi da lui fatti, timoroso ed incauto, a istigazione d’una maligna farfalla.
Nell’apparato delle cose imbrogliate vedeva nascere un’idra invincibile e mi scorgeva grado grado spogliato interamente d’ogni padronanza sul mio parto, e ciò ch’è peggio, scorgeva che i puntigli de’ Grandi avrebbero cacciato in iscena in quel carnovale medesimo il mio povero dramma, divenuto bersaglio di tutte le lingue ad onta della mia tacita, ben ordinata e fissata sospensione col capocomico.
Tuttavia nauseato da’ cicalecci che bollivano, volli tentare un uffizio verso la dama, alle mani e gli occhi di cui era passata la mia composizione colle malnate informazioni e malnate raccomandazioni del Sacchi.
Benché io avessi avuto l’onore di conoscere quella dama da molto tempo, il vivere a me medesimo ch’è mio costume, la alienazione ch’io ho del farmi schiavo delle etichette, delle coltivazioni, soggezioni, del cercar protezioni e fortune, pago essendo delle mie limitate sostanze, mi resero sempre negligente nel far quelle visite che l’umanitá s’è compiaciuta di intitolare «convenienze doverose», ma che per lo piú non sono che adulazioni d’un artifizio da me abborrito; ed è per queste sole ragioni ch’io non visitava da qualche mese la dama accennata. La incontrava talora per la via. Faceva il mio dovere con un inchino. Ella retribuiva gentilmente, salutandomi col titolo d’«orso», ed io era contentissimo di quel titolo che giustificava la mia tana solitaria.
Giudicai miglior mezzo di me appresso la dama mio fratello Gasparo, quotidiano visitatore di lei e ch’ella appellava col tenero nome di «padre». Lo trovai, ed ecco il discorso ch’io gli feci.
— Caro fratello, vi prego cordialmente d’un favore. Il Sacchi ha dato alla tal dama ch’è assai benigna verso di voi il mio dramma: Le droghe d’amore, con alcune di lui informazioni inopportune e pericolose, acceso dalla sola immagine del di lui interesse. Io v’ho letto quel dramma, l’avete letto anche voi per proccurare d’accorciarlo, l’ho letto a piú di trenta persone, l’ha letto e licenziato per il teatro la magistratura sopra la bestemmia: nessuno doveva o poteva prevedere che de’ cattivi uffizi e de’ contrattempi lo facessero divenire una satira sul signor Pietro Antonio Gratarol. Si è disseminato ciò e ciò. Il cicaleccio è universale e si va apparecchiando un’illusione inevitabile che mi ributta. Vi prego caldamente con tutto il cuore di esporre a quella dama per parte mia e per parte vostra che mi dorrebbe intimamente ch’ella prendesse impegno di sostenere l’esposizione nel teatro di quell’opera, ch’è divenuta l’odio mio e ch’io maledico. Non vi nego che averei del dispiacere che si dicesse essere il dramma stato proibito per aver io tentato di porre in iscena il Gratarol; ma io soffro in pace questo dispiacere per non provare l’altro dispiacere maggiore di vedere in sul teatro quel personaggio per una giá stabilita illusione non piú ammorzabile. Assicurate quella dama ch’io non ho il menomo affetto per quella schiccheratura scenica. Supplicatela a non opporsi ch’ella rimanga inoperosa e seppellita nell’obblivione almeno per quest’anno. Usate tutta la forza perch’ella intenda la ingenuitá del mio sentimento, il calore della mia premura, e per farla uscire da qualunque puntiglio ch’ella potesse avere a mio o ad altrui riguardo in questo proposito.
— Ho udito discorrere nell’adunanza di conversazione di quella dama — rispose il fratello. — Il libro è passato sotto la lettura di molti, e tutti unanimi affermano ch’egli non racchiude che caratteri universalissimi e che il Gratarol è un sognatore, com’è di fatto.
— Non importa — diss’io, — fatemi il piacere che v’ho chiesto, con tutto il fervore e con tutti i prudenziali riflessi. Nessuno meglio di me può sapere che il Gratarol non ha che fare col mio dramma; ma la comica Ricci ha creduto di fare una bella impresa, per alcuni suoi fini velenosi e vendicativi c’hanno sorgente dalle tali e tali cose avvenute, di fargli credere questa baia, e la faccenda è ridotta ad una sicura illusione per i ciechi passi fatti dall’infiammato Gratarol, i quali hanno suscitati i discorsi che bollono, che mi trafiggono e che vorrei affogati. Credetemi che il fermare la rappresentazione del dramma è l’unico rimedio a’ mali che possono succedere.
— Gran maledette femmine! — esclamò mio fratello. — Non dubitate, ché farò questa sera medesima con tutto lo spirito l’uffizio che m’avete raccomandato.
La risposta ch’ebbi fu la seguente: — La dama m’ha detto di dirvi ch’ella stupisce che vi prendiate pena d’una freddura; che non avendo l’opera vostra assolutamente nessuna relazione col Gratarol, né per la di lei né per l’opinione di molti a’ quali l’ha fatta leggere, per un pettegolo maligno uffizio d’una frasca e per una sciocca credulitá di quel signore non era giusto che fosse trattenuto da una fanatica violenza un divertimento conosciuto innocente, licenziato con gli ordini legali e sacri, atteso dal pubblico, e un utile a delle povere genti; che il donare una rappresentazione a de’ comici era la stessa cosa che averla donata al pubblico sopra cui i soli tribunali comandano; ch’io non aveva piú arbitrio alcuno sopra al dramma donato; che tuttavia il manoscritto sarebbe nuovamente passato sotto il dovuto novello esame del grave tribunale d’ispezione in obbedienza della nuova chiamata e che dipenderebbe da’ comandi di quello.
Ognuno potrá agevolmente vedere ch’io non poteva che ristringermi nelle spalle ed ammutolire a quella risposta.
Mi contentai di esagerare nuovamente le mie previsioni col fratello sulla illusione giá consolidata da’ discorsi; illusione che sarebbe forse coltivata da’ nimici del Gratarol e dalla maliziosa venale aviditá de’ commedianti che si vedevano favoriti. — Il Gratarol — aggiunsi al fratello, — quanto piú sará protetta e sostenuta la innocenza dell’opera mia da’ Grandi in puntiglio, tanto piú terrá sempre l’occhio verso me solo, considererá me solo l’oggetto della sua disgrazia, e sarò sempre io solo il bersaglio del suo cervello rovente e delle sue stravaganze. Ecco il frutto ch’io colgerò da un favore ch’io supplichevole chiedo di non avere e che mi si vuol fare a forza in quest’argomento, non so se a riguardo mio, a riguardo de’ commedianti o di qualche capriccio.
Trascorsi che furono alquanti giorni dopo tenuto il ragionamento con mio fratello, mi vidi comparire a fronte il signor Francesco Agazi segretario notaio revisore al magistrato sopra la bestemmia. Egli era togato e mi disse in un tuono serio e magistrale: — Lei ha donata una commedia che ha per titolo: Le droghe d’amore alla compagnia del capocomico Sacchi. Quella commedia fu letta, esaminata e licenziata per il teatro in San Salvatore dal magistrato a cui servo. La commedia è licenziata e deve entrare nel teatro. Lei non ha piú alcun arbitrio. Si ricordi di non opporsi e anzi di sollecitarne la rappresentazione. Il magistrato non falla.
Disarmato io d’ogni facoltá da quell’ordine, non lasciai però di lagnarmi dolcemente con quel signore de’ passi fatti dal Gratarol, del sospetto ingiurioso che aveva nodrito contro di me e del non essere egli venuto da me come un amico nel principio de’ dubbi suoi, risvegliati in lui da una comica e da lui alimentati con una persuasione vergognosa. Protestai ch’io gli averei dato liberamente il mio manoscritto da leggere e da mutilare in tutto ciò che piacesse a lui. Dichiarai i miei dispiaceri, e spezialmente quello che il Gratarol fosse disceso a credermi un suo nimico per delle puerilitá indegne di lui e di me.
Le proteste d’animo sincero ch’io feci al signor Agazi non solo, ma che aveva fatte a tutti gli amici miei liberamente in quella congiuntura, cagionarono poscia a me e all’onesto signor Carlo Maffei, amico del Gratarol e amico mio, de’ contrattempi spiacevoli, sopraffattori e proditorii, come si vedrá con chiarezza nel progresso di queste mie ingenue narrazioni.
Il signor Agazi mi rispose che non era da stupirsi delle stravaganze del cervello del Gratarol rovesciato dalle idee ch’egli aveva acquistate, le quali non erano nazionali; ch’io non doveva prendere de’ pensieri superflui ed inutili; che era ben vero che un revisore d’opere teatrali non poteva essere informato di tutti gli aneddoti particolari e privati in un esame; ma che la commedia in questione era stata replicatamente esaminata in tutte le viste, anche con le sparse prevenzioni, e che nulla conteneva da poter essere giudicato precisamente allusivo al Gratarol. — Ella averá veduti — seguí il signor Agazi — dieci o dodici versi da me segnati nella duodecima scena dell’ultimo atto della sua commedia sino dalla prima revisione, perché i comici non ardiscano di esprimerli nel teatro. Que’ dieci o dodici versi contengono in vero delle dottrine dannose predicate nelle societá dal Gratarol e da’ molti suoi simili a’ nostri giorni. Da ciò Ella intenda che ho esaminata l’opera con rigore e che il magistrato non falla.
— Ma — diss’io — le protesto che non ho posti i sentimenti di que’ versi se non che con una mira alle massime rese presso che generali nelle famiglie, e che si meritano secondo la sana morale per lo meno una critica derisoria. Ella averá veduto che gli ho posti con una chiara ironia e in aspetto di derisione per renderli possibilmente spregevoli a’ spettatori e per aprir loro gli occhi.
— È vero — rispose il signor Agazi; — ma noi guardiamo le opere teatrali con la cognizione che abbiamo della nostra popolazione. Ella ascolta materialmente; non ha la finezza di distinguere un’ironia critica da una massima predicata; le parole presso a quella valgono per ciò che suonano, e apprende da quelle ciò che per avventura non ideava prima di udirle. Ci sono certi signori che vorrebbero comandare fuori dalla loro giurisdizione. Le replico che il magistrato non falla e le replico gli ordini. — Detto ciò, il signor Agazi salutandomi se ne andò a’ fatti suoi.
Mi costrinsi a obbedire vedendo troncata ogni via al mio vivo desiderio d’impedire la esposizione del dramma, massime dopo l’ordine del considerabile ministro signor Agazi.
Mosso dal mio rammarico non potei trattenermi di narrare al patrizio Paolo Baldi, al signor Raffaele Todeschini e ad altri amici a’ quali m’incontrai, l’avvenutomi col signor Agazi, con estrema amarezza dell’animo mio, prevedendo la verificazione di quanto aveva pronosticato. Oltre alla testimonianza del signor Agazi, i testimoni ch’io nomino apertamente non patiscono eccezione.