Memorie di un pulcino (1918)/Il combattimento de' galli
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VII.
Il combattimento de’ galli.
Que’ signori erano proprio buonissima gente, alla mano quanto mai. Il signor Angelo era un bell’uomo, tutto vestito di nero, con un bel paio di baffi biondi che gli davano un’aria grave e severa.
Sua moglie, cara e simpatica donnina su’ venticinque anni, era delicata e gentile come un gelsomino catalogno: occhi neri, capelli scuri, bei denti e certe manierine soavi da innamorare.
Alberto, ossia il signorino, come tutti lo chiamavano, ritirava dal babbo per la figura svelta e i modi affettuosi.
Appena arrivati, fecero grandi feste a’ miei padroni, e allorché dopo una mezz’oretta suonò l’ora del desinare, mangiarono tutti allegramente come se fossero stati della medesima condizione; è vero che i contadini servivano a tavola i loro padroni e stavano quasi sempre ritti; ma c’era tanta dolcezza nel comandare e tanta schietta allegria nell’obbedire, che era proprio una consolazione a vederli.
Dopo desinare, il signor Angelo volle visitare il podere insieme a Giampaolo e Geppino; la signora Clotilde andò con la Tonia, che a tutti i costi voleva farle ammirare certe belle lenzuola di lino greggio, filato in casa allora allora, e la Marietta con Alberto, che non si stancava mai di accarezzarmi, salirono su una specie di rustica terrazzina, dalla quale si godeva la ridente vista delle ben coltivate campagne.
Eran le sei e soffiava un ventolino piuttosto fresco; ma i due bambini non se ne accorgevano; io sì, però, e avrei dato non so che cosa per esser nel pollaio accanto alla mamma.
Ma Alberto, che fin dal primo momento, non lo dico per vantarmi, mi aveva preso subito a benvolere, seguitava a tenermi fra le sue manine, e di mandarmi a letto non se ne discorreva neppure.
La Marietta che sapeva le mie abitudini, ci pativa a vedermi lì, tutto tremante di freddo; me ne avvedevo dalle occhiate compassionevoli che mi dava alla sfuggita ogni tanto; ma non s’arrischiava a fare alcuna osservazione in proposito.
Soltanto dopo una mezz’oretta buona, disse timidamente:
— Signor Albertino, gli è buio; faremo meglio a
scender giù in cucina, dove si saranno riuniti i nostri genitori; intanto metteremo a letto il pulcino.
— Scendiamo pure; — rispose prontamente Alberto — ti racconterò qualche bel fatto: ma il pulcino deve star con me dell’altro; — e siccome vide che la mia padroncina faceva il muso un po’ lungo, si affrettò a soggiungere:
— Hai paura che gli faccia freddo? Guarda, lo rinvolto per benino nel grembiule e gli lascio fuori solamente la testa perchè possa respirare. Sei contenta?
— Oh faccia pure, — rispose cortesemente la Marietta; e rivolgendosi a me:
— Sarà il male di dormire un po’ più domattina. —
Risposi con un sommesso «pio» e mi rassegnai con tanta più facilità, in quanto che pensai che male in quel posticino non ci sarei stato, e che se il fatto narrato dal signorino m’avesse annoiato punto punto, avrei potuto schiacciar qualche bravo sonnellino anche lì.
Scendemmo e trovammo infatti tutta la brigata riunita intorno al focolare.
― Avete fatto il chiasso, eh monellucci? ― disse la signora Clotilde, ravviando i capelli un po’ arruffati del suo bambino, e baciando in fronte la Marietta.
― Oh no, signora, ― rispose quest’ultima siamo stati sulla terrazza a veder tramontare il sole; il signor Alberto mi ha raccontato tante belle cose intorno al suo viaggio in Ispagna. Mi ha parlato specialmente d’una gran città che ha un certo nome....
― Madrid ― suggerì il signor Angelo.
― Precisamente.
― Scommetto io, ― esclamò alla sua volta la signora Clotilde che non ti ha detto nulla del combattimento de’ galli, il quale ha luogo in codesta città!
― Oh mamma, ― interruppe Alberto arrossendo, ― perchè mi vuol mortificare?
― Io? tutt’altro, figlio mio, il combattimento de’ galli è uno spettacolo al quale non avevo piacere che tu assistessi, e ne sai il perchè; tu però, da quel piccosetto che sei, ci volesti andare in tutti i modi. Come andò a finire?
― Non me lo rammenti per carità, mamma....
— Via, via, non esageriamo nulla. Amici miei, — disse la signora Clotilde agli astanti — pregate mio figlio di farvene la descrizione; vi divertirà, ne son sicura....
— Via, signorino, — esclamarono i miei padroni ad una voce — racconti, racconti, non si faccia pregare! —
Alberto, che nonostante i suoi difettucci era la garbatezza in persona, sorrise, guardò il babbo e la mamma e cominciò così:
— Mi struggevo da un gran pezzo di vedere i combattimenti de’ galli, come di cosa della quale avevo sentito frequentemente parlare; ma la mamma ci si opponeva sempre, dicendomi che quello non era uno spettacolo adattato a fanciulli dell’età mia, che mi avrebbe fatto male, e un monte d’altre cose che allora, punto com’ero dalla curiosità, mi parevano noiose, ma che pur troppo riconobbi giuste più tardi.
Una mattina venne a trovarci un signore, che era grande amico del babbo; e dopo i primi complimenti:
— Sapete, signora Clotilde, disse quel che c’è di nuovo a Madrid?
— Dite, dite! — esclamammo a una voce la mamma ed io.
— C’è nientemeno che il famoso combattimento de’ galli. L’ho visto annunziato a lettere cubitali sulle cantonate. È per oggi a mezzogiorno; io ci voglio andar di certo, perchè sono curioso di veder questa lotta di nuovo genere; se loro volessero favorirmi....
— Oh io no davvero! — rispose risoluta la mamma — sono scene che fanno troppo male al cuore; ne ho sentito parlare, e basta.
― O Alberto? ― domandò quel bravo signore accarezzandomi le guancie.
Io ero tutto agitato: guardai la mamma con aria supplichevole e:
― Mandami, via, ― le dissi abbracciandola ― sii buona! ―
Si fece pregare un pezzetto, ma finì col dir di sì.
Corsi tutto lieto a mettermi il cappellino, e dopo un’ora ero seduto tranquillamente su una bella poltroncina rossa, aspettando l’arrivo de’ pennuti formidabili guerrieri.
Se tu vedessi, Marietta, com’è curioso il teatro dove si danno quelli spettacoli! Se sei stata a Firenze, o a Roma, o a Milano avrai visto di sicuro certi casotti alti, tondi, parati di cristallo, dove stanno i venditori de’ giornali; si chiamano chioschi, e sono una specie di quelli che si vedono qualche volta nelle ville de’ signori.
Ebbene, quel teatro pare un chiosco; ma è tanto grande, da contenere quasi un migliaio di persone.
La forma è precisa a quella del cappello a cilindro che porta il babbo; ma in grande, s’intende; c’entra tanta gente!
Nel mezzo c’è un palco circolare, alto poco più d’un metro, coperto d’un tappeto verde; torno torno, si vede un’altissima ringhiera a uso terrazzina, lavorata come una rete sottilissima; quel palco è il campo di battaglia de’ galli, e la rete è fatta apposta perchè non possano scappare.
Intorno a questa specie di gabbia, il piano della quale è vasto quanto una gran tavola da pranzo, ricorre un cerchio di poltrone e dietro a questo, ma un po’ più alto, un secondo. Al di là delle poltrone, s’alza una grandinata di banchi fino alla parete, nella quale s’apre una galleria sostenuta da dieci svelte colonne di marmo. La luce vien dall’alto. Io non mi saziavo di guardare: il rosso delle poltroncine, i fiori dipinti sui muri, le colonne e la luce davano al teatro un non so che d’allegro, che piace e diverte.1
All’ora fissata un uomo comparve sul palco con due cassette bucherellate in mano. Le aprì e ne uscirono due bei galli alti, svelti, diritti come fusi; la cresta non l’avevano, e sgranavano certi occhi tutt’altro che amorosi. L’uomo fece un inchino al pubblico e sparì lasciando soli i combattenti.
Sul primo non si guardarono; anzi si misero tutti e due a cantare, allungando il collo verso gli spettatori come se domandassero:
— O che diamine volete voi? —
A poco per volta e facendo vista di non essersi ancora veduti, s’avvicinarono; pareva che l’uno volesse pigliar l’altro a tradimento. A un tratto, svelti come ragazzi, fecero un gran salto con l’ali aperte, si dettero un bell’urtone, e ricascarono seminando penne da tutte le parti.
Dopo quest’urto, che fu come l’introduzione della battaglia, si fermarono e si misero l’uno davanti all’altro con certi occhi, che Gesù ci scampi e liberi.
Poi s’avventarono da capo con una furia incredibile; si ferirono a forza di zampate e di colpi di becco; si strinsero con l’ali in modo che parvero un gallo solo con due teste; si sbatacchiarono contro iferri della ringhiera, si corsero dietro; cascarono, strisciarono, svolazzarono; e via, via, i colpi si fecero più fitti, le penne della testa se ne andarono, i colli divennero di fuoco e sanguinarono che era una pietà.
Poi presero a punzecchiarsi nel capo, intorno agli occhi, negli occhi; si scorticarono con la furia di due matti che abbiano paura di esser divisi; pareva che lo sapessero que’ disgraziati, che uno dei due doveva morire. Non c’era pericolo che si lamentassero; si sentiva solamente il fruscio dell’ali agitate e delle penne che si rompevano. Non c’era un minuto di riposo, era una lotta disperata, che menava diritto alla morte. —
A questo punto del racconto, io mi sentivo morire dalla compassione; non la pigliavo con quelle povere bestie, chè dicerto loro non ci avevano che fare; chi mi faceva proprio rabbia erano i cattivi che permettevano quelle stragi e più ancora quegli altri che le stavano a vedere, seduti comodamente, col sorriso sulle labbra e con la stessa tranquillità con la quale si assiste a un bel desinare.
La Marietta, che per buon cuore non era seconda a nessuno, non potè trattenersi anche lei dal dire al signor Alberto:
— Ma sa, signorino mio, che in codesto paese gli uomini devono star molto male a cuore? O come si fa a star a vedere con indifferenza quegli orrori? Mi pare impossibile che lei ci potesse resistere, bonino com’è....
— Oh! sta’ zitta, — continuò sospirando Alberto — quando ci penso mi sento venir la pelle d’oca. Ma che vuoi? Allora ero anche più piccino, e la curiosità.... Basta, seguitiamo il racconto. Ad un certo punto, uno dei galli dette a veder chiaramente che si sentiva stanco e che le forze cominciavano ad andarsene; quell’altro approfittò subito della dolcezza del nemico, e inferocì maggiormente.
Le sue beccate caddero fitte e rabbiose negli occhi della sua vittima, con regolarità spaventosa. Il vinto si dibattè, svolazzò, cercò di aprirsi una via tra i ferri della ringhiera; ma fu tutto inutile; il suo nemico lo inseguì, sempre punzecchiandolo e lacerandolo. Finalmente il povero galletto si fermò, chinò il capo e parve come preso dal sonno; il vincitore allora si mise a guardarlo attentamente senza dargli noia.
Ma dopo un paio di minuti di tregua, il moribondo rialzò adagio adagio la testa, e quell’altro, pronto, gli rovesciò addosso una tempesta di beccate. La vittima fece di nuovo un leggero movimento, si scosse, vacillò e morì. Il vincitore allora, in segno di letizia, si mise a cantare, ma in quel mentre venne un servitore e li portò via tutt’e due. Così ebbe fine la scena dolorosa, ed era tempo. Io non ne potevo più.
Tutti gli spettatori si alzarono per andarsene; chi parlava su’ meriti de’ galli, chi sulle vicende della lotta; io piangevo dirottamente, e il mio compagno durò una gran fatica a calmarmi.
Stetti tre giorni senza poter mangiare col mio solito appetito. Ora è passato un gran pezzo da quella giornataccia; ma ogni volta che ci ripenso, mi sento tutto rabbrividire.
— Lo credo io! — esclamò commossa la Marietta, e dopo, sorridendo: ― Io, non c’è pericolo che vada a Madrid altro che in sogno; ma anche nel caso che ci andassi, i galli per me potrebbero star freschi! Non mi moverei ad andarli a vedere, neanche se mi pagassero a peso d’oro.
― Brava bambina! ― disse la signora Clotilde questi sentimenti ti fanno onore; o pensa che cosa dirai allorchè, divenuta grandina, studierai la storia e specialmente quella della nostra patria! Sentirai!
― Misericordia! O che anche lì, signora Clotilde, ci sono de’ galli che si beccano?
― Altro che galli, piccina mia! Sono uomini di carne come siamo noi....
― E perchè si battono? forse per divertir la gente?
― Tutt’altro! si battono per puntigli, perchè vorrebbero comandare su de’ paesi che non spettano a loro, e qualche volta anche per capriccio.
― Dio mio! O quelli che comandano non possono impedir questi orrori?
― A volte sì e a volte no.
― Ecco perchè, anno, quando andò soldato Cecco della Nunziatina, tutti gli piangevano dietro!
― Lo credo io, ― interruppe Alberto ― andava alla guerra! Poverino! Io, quando sarò grande, anderò a nascondermi magari sotto terra, perchè non mi piglino.
― E faresti male, ma male di molto, Alberto mio; ― disse amorevolmente il signor Angelo, traendosi il figlioletto sulle ginocchia ― senti veh: certe cose non le puoi capir per bene perchè sei ancora piccolo, ma io m’ingegnerò di farti intender questa alla meglio. Senti: le vuoi bene alla mamma?
— Perchè me lo domandi, babbo? — esclamò il fanciullo. — La mamma! Mi ha messo al mondo, mi ha allevato e quando ebbi la scarlattina, te ne ricordi? vegliò giorno e notte al mio capezzale insieme con te. Come si fa a non volerle bene?
— Dunque, — seguitò il signor Angelo se con tutto l’affetto che hai per la mamma, venisse qualcheduno, per esempio un ragazzaccio a darle noia, che cosa faresti?
— Io? figuratelo! Prima mi proverei di farlo smetter con le buone, e se non bastasse, difenderei la mamma con tutte le mie forze.
— E faresti benone. Oh se invece avesse dato noia a te, avresti dovuto aver pazienza e soffrire, piuttosto che vendicarti.... Ma alla mamma! Che si canzona! Ora per farti capire l’affare della guerra, rispondi prima a queste mie domande. Dove sei nato?
— A Firenze.
— Dove sei cresciuto?
— A Firenze.
— E i tuoi amici e i tuoi maestri di dove sono?
— Oh bella! di Firenze!
— I tuoi poveri nonni riposano pure a Firenze, al Monte alle Croci, non è vero?
— Sì, babbo, ― rispose il bambino.
— Dimmi un po’: ti dispiacerebbe a lasciarla la bella città dove sei nato, cresciuto e diventato buono? Dove riposano in pace le ossa de’ tuoi maggiori?
— Oh non me lo dir neppure! Se mi dispiacerebbe! Lo credo io!
— Ne convieni, Alberto, che la terra nella quale siamo nati è quasi una madre per noi?
— Sfido!
— E questa madre, naturalmente, avrà diritto al nostro affetto, non è vero?
— Sicuro, eh!
— E se qualcuno la insultasse e volesse padroneggiarla, a chi toccherebbe a difenderla?
— Ai suoi figliuoli.
— Bravo bambino! Vedi se intendi? Ora sappi che la nostra bella Firenze non è un mondo, ma bensì una specie di piccolo punto posto sopra una grande estensione di suolo, che si chiama Italia, la quale è la nostra gloriosa e nobilissima patria. Ebbene, a questa povera Italia, prima ne volevano far di tutti i colori....
— Chi, babbo?
— Chi? Povero mio bambino! Sarebbe troppo lungo a dirsi. Un monte di gente che non aveva che far nulla con noi, ma che pure intendeva di venir qua e farla da padrona e, pur troppo, c’è riuscita per un pezzo!
Dunque l’Italia, se in casa sua non ci voleva nessuno, a chi doveva ricorrere per esser sostenuta e difesa?
― Agli Italiani.
— Non mi resta a dirti altro. Ecco le ragioni delle guerre, ecco perchè il figliuolo della Nunziatina è andato soldato. Ora dimmi, quel giovane avrebbe fatto bene a nascondersi?
— No davvero! Sarebbe stato un figliuolo disamorato.
— O bravo il mio Albertino!
— Signora Clotilde, — esclamò a un tratto la Marietta che come tutti gli altri aveva prestato grandissima attenzione alle parole del signor Angelo — dunque le guerre, quando vengono fatte a propria difesa, non son poi tanto da condannarsi; allora, perchè dianzi ne ha parlato con tanta amarezza?
— Perchè se ogni re si contentasse del proprio stato e ogni popolano della sua casupola, non ci sarebbe alcuna ragione di battersi, e vivremmo tutti d’amore e d’accordo. Ma invece non è così, e ci vuol pazienza. Forse Iddio ci preparerà giorni migliori. —
Con queste ed altre chiacchiere sullo stesso argomento s’era fatto tardi e, come piacque al Signore, il piccolo Alberto si decise a consegnarmi alla Tonia, che mi portò subito al pollaio.
I miei fratellini dormivano saporitamente, non così però la mamma, la quale, appena mi vide, cacciò un gran sospirone, e si dispose a farmi delle domande intorno al modo con cui avevo impiegato la giornata; ma io che cascavo dal sonno, la pregai ad aver pazienza fino al giorno dopo, che allora le avrei detto tutto, e mi addormentai placidamente.