Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXIX

XXXIX

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXXIX
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CAPITOLO XXXIX.

Il mio Convitato di Pietra, sotto il titolo di Don Giovanni Tenorio, ossia il Dissoluto. — Completa vendetta contro la Passalacqua. — Mio viaggio per Genova. — Colpo d’occhio di questa città. — Origine del lotto reale. — Mio matrimonio. — Mio ritorno a Venezia.

Non è per abbellire le mie Memorie, nè per ricevere congratulazioni sulla mia balordaggine, che nel precedente capitolo ho fatto una descrizione minuta delle infedeltà di una comica, che mi ha [p. 108 modifica] tradito; ma avendo innestato quest’aneddoto in un’opera destinata a vendicarmi, credetti necessario il far precedere il racconto dell’episodio, prima di passare a far parola del soggetto principale. Tutti conoscono quella cattiva rappresentazione spagnuola, dagli Italiani chiamata Il Convitato di Pietra, e dai Francesi Le Festin de Pierre. Io l’ho sempre riguardata con orrore, nè ho mai potuto intendere come questa farsa si sia sostenuta per sì lungo tempo, abbia richiamato in folla gli spettatori, e fatto le delizie di un paese colto. N’erano maravigliati i comici italiani stessi; e, o per burla, o per ignoranza, alcuni di loro dicevano che l’autore del Convitato di Pietra aveva fatto il patto tacito col diavolo perchè lo sostenesse. Non mi sarebbe mai pertanto caduto in pensiero di fare il minimo lavoro sopra questa composizione; ma imparata la lingua francese quanto bastar poteva per darle una lettura, vedendo che Molière e Tommaso Cornelio se ne erano occupati, mi accinsi anch’io a fare alla mia patria il bel regalo di questo tema, ad oggetto di mantenere la parola al diavolo con un poco più di decenza. Vero è che non potendo darle l’istesso titolo per la ragione che nella mia rappresentazione la statua del commendatore non parla, non cammina, nè va a cena in città, la intitolai il Don Giovanni, a somiglianza del Molière, aggiungendovi o il Dissoluto. Credetti di non dover sopprimere il fulmine che lo incenerisce, perchè l’uomo malvagio deve esser punito; maneggiai bensì questo avvenimento in modo che comparir potesse un immediato effetto dello sdegno di Dio, e potesse pur provenire da una combinazione di cause seconde, dirette sempre dalle leggi della Provvidenza. Siccome in questa commedia che è di cinque atti ed in versi sciolti, non avevo dato luogo all’arlecchino e all’altre maschere italiane, supplii alla parte comica con un pastore ed una pastorella, che insieme a don Giovanni dovean far riconoscere la Passalacqua, il Goldoni, ed il Vitalba, rendendo nota sulla scena la maligna condotta dell’una, la buona fede dell’altro, e la malvagità del terzo. Elisa si chiamava la pastorella e la Passalacqua appunto aveva nome Elisabetta. Il nome di Carino dato al pastore era, eccettuatane una lettera, il diminutivo del mio nome battesimale (Carlino) e il Vitalba sotto il nome di Don Giovanni rappresentava esattamente il carattere suo naturale. Mettevo in bocca ad Elisa i discorsi stessi dei quali la Passalacqua si era servita per ingannarmi; le facevo far uso in scena di quelle lacrime e di quel coltello medesimo di cui ero stato la vittima e mi vendicavo della perfidia della comica nel tempo che Carino si vendicava della sua infedele pastorella. Era ultimata la composizione, nè d’altro si trattava che di farla recitare: pur troppo avevo previsto che la Passalacqua non avrebbe acconsentito a porre in scena sè stessa. Ne avvertii il direttore ed il proprietario del teatro e senza far lettura della rappresentazione dispensai le parti. La Passalacqua, che subito conobbe il personaggio che doveva sostenere, andò a lagnarsi col direttore e con sua eccellenza Grimani. Protestò all’uno e all’altro, che assolutamente non sarebbe comparsa in questa commedia prima che l’autore non vi avesse fatte mutazioni grandissime: ma fu deciso ch’ella reciterebbe la parte d’Elisa com’era, o escirebbe dalla compagnia. Spaventata da tale alternativa, prese da brava il suo partito, imparò la sua parte e la portò perfettamente.

Nella prima rappresentazione, avvezzo il pubblico nel Convitato di Pietra a vedere Arlecchino salvarsi dal naufragio coll’aiuto di due vesciche, e don Giovanni escire all’asciutto dall’acqua del mare [p. 109 modifica] senz’avere scomposta la sua pettinatura, non sapeva che cosa significasse quell’aria di nobiltà data dall’autore a questa rancida buffoneria; ma siccome era a notizia di molte persone l’avventura succedutami con la Passalacqua e col Vitalba, l’aneddoto ravvivò la rappresentazione, tutti trovarono da divertirsi, e notarono che la commedia ragionata è sempre preferibile alla triviale ed insulsa. Il mio Don Giovanni acquistava ogni giorno sempre più credito e concorso; fu recitato senza interruzione fino al martedì grasso, e con questo si chiuse il teatro.

Malgrado il suo buon effetto, non era destinato ad aver luogo nella raccolta delle mie opere, e così ancora doveva essere del Belisario, poichè era quello, per vero dire, il Convitato di Pietra riformato, ma questa riforma non era quella che avevo in mira. Trovando in Bologna questa composizione stampata e orribilmente maltrattata, acconsentii a darle posto nel mio teatro, solo perchè se il mio Don Giovanni non era del nuovo genere propostomi, non era però assolutamente di quello da me rigettato. La compagnia di San Samuele doveva in quell’anno passare la primavera a Genova, e l’estate a Firenze; e siccome vi erano sei attori di nuovo, credè Imer necessaria la mia presenza, proponendomi per questo di condurmi seco. Si trattava di andare a vedere due delle più belle città d’Italia; ero libero dal pensiero di qualunque spesa, e l’occasione mi pareva magnifica. Ne parlai con mia madre, e con lei le mie ragioni erano sempre buone; partii dunque per Genova in compagnia del direttore. Il nostro viaggio fu felice, il tempo sempre bello; c’incomodò solamente un poco il calore del sole più che il freddo della stagione nel traversare l’alta montagna denominata la Bocchetta. Dopo esser passati per il ricchissimo e delizioso villaggio di San Pietro d’Arena, scoprimmo Genova dalla parte del mare. Che spettacolo piacevole e maraviglioso! È un anfiteatro in semicerchio, che forma da un lato il vasto bacino del porto, elevandosi dall’altro gradatamente sul declivio della montagna con fabbriche immense, che sembrano da lungi situate le une sopra le altre, e terminano con terrazze, balaustrati e giardini, che servono di tetto alle diverse abitazioni.

In faccia a questi differenti ordini di palazzi, di alberghi, e di appartamenti urbani, gli uni incrostati di marmo, gli altri ornati di pitture, si vedono i due Moli, dai quali è formata l’imboccatura del porto, opera degna de’ Romani, avendo i Genovesi, malgrado la violenza e la profondità del mare, superato la natura che si opponeva al loro collocamento. Scendendo dalla parte del fanale diretti alla porta di San Tommaso, vedemmo quell’immenso palazzo Doria, ov’ebbero quartiere tre sovrani nell’istesso tempo, e andammo in sèguito all’albergo di Santa Marta per aspettare che ci fosse assegnato l’appartamento destinatoci.

Facendosi appunto in quel giorno l’estrazione del lotto, avevo voglia di andarla a vedere. La lotteria che dicesi in Italia il Lotto reale di Genova, ed a Parigi il Lotto reale di Francia, non era in Venezia ancora stabilita; si trovava bensì qualche occulto prenditore, che accettava biglietti per Genova; ed io fra l’altre cose aveva in tasca un riscontro relativo ad una giuocata da me fatta in mia casa. Questo giuoco fu inventato a Genova, e ne diede la prima idea il solo caso. I Genovesi tirano a sorte due volte all’anno il nome di cinque senatori i quali debbono subentrare a quelli che escono di carica. Tutti questi nomi messi nell’urna, e che possono uscire, sono conosciutissimi; i particolari adunque della città [p. 110 modifica] incominciarono a dir fra loro, scommetto che alla prossima estrazione escirà il tale; l’altro diceva, ed io scommetto il tal altro; e la scommessa era eguale. Poco tempo dopo vi furono persone accorte che tennero banca pro e contro con condizioni vantaggiose per i giuocatori. Il governo ciò seppe, e le piccole banche subito si proibirono; ma essendosi presentati appaltatori, furono esauditi. Ecco pertanto stabilito il lotto in principio per due sole estrazioni: si accrebbe bensì il numero di esse di lì a poco. In oggi si trova quasi per tutto, nè starò ad esaminare se sia un bene ovvero un male. M’impaccio sempre di tutto, senza decider nulla; e procurando di riguardar le cose dalla parte dell’ottimismo, a me sembra che il lotto di Genova sia una buona rendita per il governo, un’occupazione per gli sfaccendati, una speranza per gl’infelici. Riguardo a me, quella volta trovai il lotto molto piacevole; vinsi un ambo in cento doppie, ed ero più che contento. Ebbi però in quel paese una fortuna molto più da valutarsi, e che formò la delizia della mia vita. Sposai una giovine savia, onesta, graziosa, che m’indennizzò di tutte le male azioni fattemi dalle donne, e mi riconciliò col bel sesso. Sì, mio lettore, mi sono ammogliato, ed ecco come. Il direttore ed io eravamo alloggiati in una casa di attenenza del teatro. Dirimpetto alle finestre della mia camera avevo qualche volta veduto una ragazza che mi pareva assai bella, e con la quale avevo desiderio di far conoscenza. Un giorno, essendo al balcone sola, la salutai con qualche dimostrazione di tenerezza; mi fece una riverenza, disparve nel momento, nè si lasciò in sèguito più rivedere. Ecco stimolata la mia curiosità ed il mio amor proprio: procuro subito di sapere chi siano le persone che abitano in faccia al mio quartiere, e sento che vi stava il signor Conio notaro del collegio di Genova, uno dei quattro notari deputati alla banca di San Giorgio; uomo rispettabile, e che aveva del bene, ma per essere aggravato di una numerosissima famiglia non era così comodo quanto avrebbe dovuto essere. Va benissimo: voglio far conoscenza del signor Conio a qualunque costo. Era a mia notizia che Imer aveva alcuni fondi su codesta banca provenienti dai fitti dei palchetti che egli negoziava in quella piazza col mezzo di sensali di cambio; lo pregai di affidarmi uno di quei fondi, come fece senza alcuna difficoltà, ed io mi portai a San Giorgio per presentarlo al signor Conio, e profittar così dell’occasione, affine di scandagliare il di lui carattere. Trovai il notaro circondato di gente; aspettai che fosse solo, mi accostai al banco, e lo pregai di avere la compiacenza di farmi pagare la valuta della mia rendita.

Mi accolse questo brav’uomo con la maggior garbatezza, ma egli mi disse che avevo sbagliato la via, poichè tali biglietti non si pagavano alla banca: che per altro qualunque agente di cambio o negoziante mi avrebbe a vista sborsato il mio danaro. Feci pertanto a lui le mie scuse, dicendo che ero forestiero... ero suo vicino... Volevo dirgli molte cose; ma l’ora essendo avanzata, mi domandò permesso di chiudere il suo banco, soggiungendo che si sarebbe parlato con comodo cammin facendo. Esciamo insieme; mi propone di andare a prendere una tazza di caffè per aspettare l’ora del pranzo, ed io accetto, giacchè si prendono in Italia dieci tazze di caffè per giorno. Entriamo nella bottega di un acquacedrataio, e prendiamo posto; e siccome il signor Conio mi aveva veduto con i comici, mi domandò quali erano le mie parti in scena. — Signore, io gli dissi, la vostra proposizione non mi offende punto, poichè chiunque altro si sarebbe ingannato al pari di voi; — quindi gli manifesto quello [p. 111 modifica] che realmente ero, e ciò che facevo, ed egli si scusò. Amava gli spettacoli, andava al teatro comico, aveva veduto le mie rappresentazioni, ed era fuor di sè dalla gioia di aver fatto la mia conoscenza, come me di aver fatto la sua. Eccoci l’uno e l’altro avvicinati: veniva spesso da me, ed io da lui; così vedevo la signorina Conio, ed in lei trovavo ogni giorno nuove grazie, nuovo merito. In capo a un mese feci io stesso al signor Conio richiesta della di lui figlia. Non ne fu stupito; erasi già accorto benissimo della mia inclinazione, nè temeva un rifiuto per parte della signorina; ma saggio e prudente qual era, domandò tempo, e fece scrivere al console di Genova a Venezia per avere informazioni riguardanti la mia persona Reputai giustissima la dilazione, e nel tempo medesimo scrissi ancor io. Partecipai a mia madre la nuova idea, le feci il ritratto della mia sposa, e la pregai di spedir subito tutti gli attestati necessari in simili occasioni.

In capo ad un mese ricevetti da essa l’assenso, insieme coi fogli richiesti, e alcuni giorni dopo il signor Conio ebbe per parte sua le più belle testimonianze in mio favore; onde il nostro matrimonio fu fissato a luglio, fu assegnata la dote, e firmato il contratto.

Nulla sapeva Imer di tutto questo, avendo io le mie ragioni per temere che non frastornasse il disegno. Ne fu dolentissimo, poichè dovea andar a Firenze a passarvi l’estate, e bisognò che vi andasse senza di me. Promisi ciò non ostante, di non abbandonar la compagnia, di lavorare per Venezia, di trovarmici in tempo, e non mancai di parola. Eccomi il più contento e il più felice uomo del mondo: ma poteva io avere una soddisfazione, senza che ella fosse seguita da un disgusto? La prima notte del mio matrimonio mi sopraggiunge la febbre, e viene per la seconda volta ad assalirmi il vaiuolo che aveva già avuto a Rimini nella mia prima gioventù.

Pazienza! Per buona fortuna non era maligno, nè diventai più brutto di quello che ero. Quanto pianse al capezzale del mio letto la povera mia moglie! Essa era la mia consolazione, e tale è sempre stata.

Partimmo finalmente ambedue per Venezia, al principio di settembre. O cielo! Quante lacrime essa sparse! che crudele separazione per mia moglie! lasciava in un tratto padre, madre, fratelli, sorelle, zii e zie... ma se n’andava per altro con suo marito.