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108 parte prima


tradito; ma avendo innestato quest’aneddoto in un’opera destinata a vendicarmi, credetti necessario il far precedere il racconto dell’episodio, prima di passare a far parola del soggetto principale. Tutti conoscono quella cattiva rappresentazione spagnuola, dagli Italiani chiamata Il Convitalo di Pietra, e dai Francesi Le Festin de Pierre. Io l’ho sempre riguardata con orrore, nè ho mai potuto intendere come questa farsa si sia sostenuta per sì lungo tempo, abbia richiamato in folla gli spettatori, e fatto le delizie di un paese colto. N’erano maravigliati i comici italiani stessi; e, o per burla, o per ignoranza, alcuni di loro dicevano che l’autore del Convitato di Pietra aveva fatto il patto tacito col diavolo perchè lo sostenesse. Non mi sarebbe mai pertanto caduto in pensiero di fare il minimo lavoro sopra questa composizione; ma imparata la lingua francese quanto bastar poteva per darle una lettura, vedendo che Molière e Tommaso Cornelio se ne erano occupati, mi accinsi anch’io a fare alla mia patria il bel regalo di questo tema, ad oggetto di mantenere la parola al diavolo con un poco più di decenza. Vero è che non potendo darle l’istesso titolo per la ragione che nella mia rappresentazione la statua del commendatore non parla, non cammina, nè va a cena in città, la intitolai il Don Giovanni, a somiglianza del Molière, aggiungendovi o il Dissoluto. Credetti di non dover sopprimere il fulmine che lo incenerisce, perchè l’uomo malvagio deve esser punito; maneggiai bensì questo avvenimento in modo che comparir potesse un immediato effetto dello sdegno di Dio, e potesse pur provenire da una combinazione di cause seconde, dirette sempre dalle leggi della Provvidenza. Siccome in questa commedia che è di cinque atti ed in versi sciolti, non avevo dato luogo all’arlecchino e all’altre maschere italiane, supplii alla parte comica con un pastore ed una pastorella, che insieme a don Giovanni dovean far riconoscere la Passalacqua, il Goldoni, ed il Vitalba, rendendo nota sulla scena la maligna condotta dell’una, la buona fede dell’altro, e la malvagità del terzo. Elisa si chiamava la pastorella e la Passalacqua appunto aveva nome Elisabetta. Il nome di Carino dato al pastore era, eccettuatane una lettera, il diminutivo del mio nome battesimale (Carlino) e il Vitalba sotto il nome di Don Giovanni rappresentava esattamente il carattere suo naturale. Mettevo in bocca ad Elisa i discorsi stessi dei quali la Passalacqua si era servita per ingannarmi; le facevo far uso in scena di quelle lacrime e di quel coltello medesimo di cui ero stato la vittima e mi vendicavo della perfidia della comica nel tempo che Carino si vendicava della sua infedele pastorella. Era ultimata la composizione, nè d’altro si trattava che di farla recitare: pur troppo avevo previsto che la Passalacqua non avrebbe acconsentito a porre in scena sè stessa. Ne avvertii il direttore ed il proprietario del teatro e senza far lettura della rappresentazione dispensai le parti. La Passalacqua, che subito conobbe il personaggio che doveva sostenere, andò a lagnarsi col direttore e con sua eccellenza Grimani. Protestò all’uno e all’altro, che assolutamente non sarebbe comparsa in questa commedia prima che l’autore non vi avesse fatte mutazioni grandissime: ma fu deciso ch’ella reciterebbe la parte d’Elisa com’era, o escirebbe dalla compagnia. Spaventata da tale alternativa, prese da brava il suo partito, imparò la sua parte e la portò perfettamente.

Nella prima rappresentazione, avvezzo il pubblico nel Convitato di Pietra a vedere Arlecchino salvarsi dal naufragio coll’aiuto di due vesciche, e don Giovanni escire all’asciutto dall’acqua del mare