Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
capitolo xxxix | 109 |
senz’avere scomposta la sua pettinatura, non sapeva che cosa significasse quell’aria di nobiltà data dall’autore a questa rancida buffoneria; ma siccome era a notizia di molte persone l’avventura succedutami con la Passalacqua e col Vitalba, l’aneddoto ravvivò la rappresentazione, tutti trovarono da divertirsi, e notarono che la commedia ragionata è sempre preferibile alla triviale ed insulsa. Il mio Don Giovanni acquistava ogni giorno sempre più credito e concorso; fu recitato senza interruzione fino al martedì grasso, e con questo si chiuse il teatro.
Malgrado il suo buon effetto, non era destinato ad aver luogo nella raccolta delle mie opere, e così ancora doveva essere del Belisario, poichè era quello, per vero dire, il Convitato di Pietra riformato, ma questa riforma non era quella che avevo in mira. Trovando in Bologna questa composizione stampata e orribilmente maltrattata, acconsentii a darle posto nel mio teatro, solo perchè se il mio Don Giovanni non era del nuovo genere propostomi, non era però assolutamente di quello da me rigettato. La compagnia di San Samuele doveva in quell’anno passare la primavera a Genova, e l’estate a Firenze; e siccome vi erano sei attori di nuovo, credè Imer necessaria la mia presenza, proponendomi per questo di condurmi seco. Si trattava di andare a vedere due delle più belle città d’Italia; ero libero dal pensiero di qualunque spesa, e l’occasione mi pareva magnifica. Ne parlai con mia madre, e con lei le mie ragioni erano sempre buone; partii dunque per Genova in compagnia del direttore. Il nostro viaggio fu felice, il tempo sempre bello; c’incomodò solamente un poco il calore del sole più che il freddo della stagione nel traversare l’alta montagna denominata la Bocchetta. Dopo esser passati per il ricchissimo e delizioso villaggio di San Pietro d’Arena, scoprimmo Genova dalla parte del mare. Che spettacolo piacevole e maraviglioso! È un anfiteatro in semicerchio, che forma da un lato il vasto bacino del porto, elevandosi dall’altro gradatamente sul declivio della montagna con fabbriche immense, che sembrano da lungi situate le une sopra le altre, e terminano con terrazze, balaustrati e giardini, che servono di tetto alle diverse abitazioni.
In faccia a questi differenti ordini di palazzi, di alberghi, e di appartamenti urbani, gli uni incrostati di marmo, gli altri ornati di pitture, si vedono i due Moli, dai quali è formata l’imboccatura del porto, opera degna de’ Romani, avendo i Genovesi, malgrado la violenza e la profondità del mare, superato la natura che si opponeva al loro collocamento. Scendendo dalla parte del fanale diretti alla porta di San Tommaso, vedemmo quell’immenso palazzo Doria, ov’ebbero quartiere tre sovrani nell’istesso tempo, e andammo in sèguito all’albergo di Santa Marta per aspettare che ci fosse assegnato l’appartamento destinatoci.
Facendosi appunto in quel giorno l’estrazione del lotto, avevo voglia di andarla a vedere. La lotteria che dicesi in Italia il Lotto reale di Genova, ed a Parigi il Lotto reale di Francia, non era in Venezia ancora stabilita; si trovava bensì qualche occulto prenditore, che accettava biglietti per Genova; ed io fra l’altre cose aveva in tasca un riscontro relativo ad una giuocata da me fatta in mia casa. Questo giuoco fu inventato a Genova, e ne diede la prima idea il solo caso. I Genovesi tirano a sorte due volte all’anno il nome di cinque senatori i quali debbono subentrare a quelli che escono di carica. Tutti questi nomi messi nell’urna, e che possono uscire, sono conosciutissimi; i particolari adunque della città inco-