Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXVIII

XXXVIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XXXVIII
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CAPITOLO XXXVIII.

Mio ritorno a Venezia. — Colloquio con mia madre. — Condotta dell’antica mia bella. — Ritorno a Venezia della compagnia de’ miei comici. — Mia propensione per la signora Passalacqua. — Sua infedeltà.

Giunto a Venezia, la mia maggior premura fu quella di andar subito ad abbracciar mia madre. La nostra conversazione fu lunga: i miei capitali di Venezia erano liberi da ogni ipoteca, le rendite di Modena erano aumentate, e mio fratello era rientrato al servizio. Avrebbe desiderato mia madre che mi fossi dato un’altra volta alla professione di avvocato. Le feci vedere che avendo una volta abbandonato quella professione, ed essendo comparso in patria sotto un aspetto affatto diverso, non potevo più sperare di quella fiducia che avevo demeritata, e che la vita intrapresa parevano in egual modo onorevole e lucrosa. Essa allora con le lacrime agli occhi soggiunse, che non osava opporsi ai miei voleri, che aveva sempre da rimproverarsi l’avermi distolto dalle cancellerie criminali, e che perciò mi lasciava padrone di scegliere quello stato che più mi fosse piaciuto, riconoscendo che erano in me ragione, onoratezza e operosità. La ringraziai, l’abbracciai per la seconda volta, e di discorso in discorso, venni all’argomento St*** e di sua figlia, molto contento, che il disprezzo di queste dame dimostrato per il mio nuovo impiego mi avesse reso libero da ogni timore, e da qualunque impiccio. — Niente affatto, replicò mia madre, t’inganni. [p. 105 modifica]La signora St*** e sua figlia son venute a trovarmi, e ricolmandomi di gentilezze mi hanno parlato di te, come di un giovine stimabile e da ammirarsi; la fama dei tuoi ottimi successi ti ha reso degno della loro considerazione, anzi tuttavia contano sopra di te. — No, ripresi allora in tono di sdegno, no, madre mia, non sarà possibile che io possa mai legarmi con una famiglia che mi ha deluso, rovinato, ed in ultimo mi ha avuto a vile. — Non t’inquietare per questo, ella soggiunse, esse continuano sempre ad esser ricche come prima; anderò a restituir loro la visita, ne terrò proposito, e m’impegno di tirarti ben presto fuori d’ogni difficoltà. Parliamo un poco di altre cose: che hai fatto nel tempo della nostra separazione? — L’appagai nel momento: la misi al fatto di parecchie mie avventure, occultandone una gran parte, e la feci ridere, piangere, tremare. Desinammo in compagnia dei nostri parenti; essa moriva di voglia di ridere alla conversazione, in tempo di tavola, ciò che le avevo raccontato; ma imbrogliandosi ad ogni poco, non faceva che risvegliar maggiormente la curiosità di chi l’udiva: ero dunque obbligato di ricominciar sempre io. L’allegria del pranzo mi ravvivava: dicevo pertanto anche le cose da me taciute: — Ah! briccone, ella dicevami di tempo in tempo, questa cosa non me l’avevi detta, quella neppure, neppur quest’altra; in somma passai molto piacevolmente la mia giornata, e feci ridere a mie spese i vecchi e le vecchie zie, che non ridevano mai. Per vero dire avevo forse molto più grazia nel parlare, che nello scrivere.

Verso la fine del mese di settembre ritornò alla capitale la compagnia dei miei comici; si replicarono le prove della nostra apertura, e il dì 4 d’ottobre andò in scena. Di quella novità rimasero tutti colpiti. L’assemblea letteraria fu gustata molto. La commedia di un sol atto andò a terra, a cagione dell’Arlecchino che non incontrava; l’Opera comica poi fu bene accolta, e rimase al teatro.

Il direttore era soddisfatto che la parte musicale prevalesse, benchè non fosse troppo contento della signora Passalacqua: la sua voce era falsa, monotona la maniera, ingrata la fisonomia. Volendo Imer sostenere gl’intermezzi in tutti i modi, gliene propose la maniera un sonatore dell’orchestra. Questo buon vecchio di sessanta anni aveva sposato di fresco una signorina che non passava i diciotto. La istruiva nel canto sul suo violino, ed essa dimostrava un’ottima disposizione. Incontrando molto presso Imer, mi pregò subito di averne cura, ed io me ne incaricai con tutto il piacere, trovandola bellissima e docilissima. La signora Passalacqua ne divenne gelosa, ed avendo già fatti tentativi inutili ad Udine per guadagnarmi, il di lei colpo non andò a vuoto a Venezia. Ricevo un giorno un biglietto di sua propria mano, col quale mi prega di andare in sua casa verso le ore cinque della sera; non potei per ragion di convenienza ricusare; ci vado, ed essa mi riceve in un abbigliamento da ninfa di Citera: mi fa sedere sopra un canapè accanto a sè, e mi dice le cose più lusinghevoli e più galanti del mondo; già la conoscevo bene, onde stetti in guardia, sostenendo la conversazione con un eroico contegno. E poi non l’amavo; era magra, aveva gli occhi verdi, e copriva la sua faccia pallida e giallastra un’infinità di liscio. Annoiata della mia indifferenza, adoprò allora tutte quante le armi della sua scaltrezza: — E sarà possibile, ella mi disse in tono appassionato, che di tutte le donne della compagnia, io sia la sola ad aver la disgrazia di dispiacervi? So esser giusta; ho saputo rispettare il merito fintantochè vi vidi avere una propensione per la signora Ferramonti; ma vedervi in [p. 106 modifica]oggi preferire a tutte una giovine stupida ed una donna senza ingegno e senza educazione, questa è cosa che fa vergogna a voi, ed è umiliante per me. Oh Dio! non aspiro già alla fortuna di possedere il vostro cuore, non ho merito bastante per nutrirne la speranza; ma son comica, non mi trovo altro stato, non ho altro partito; giovine, senza esperienza, abbisogno di consiglio, di esercizio, di protezione. Se avessi la fortuna di piacere a Venezia, sarebbe stabilita la mia reputazione, assicurata la mia sorte; voi frattanto potreste contribuire alla mia felicità col vostro ingegno e con le vostre cognizioni, e sacrificando per me i vostri momenti di ozio, potreste rendermi felice; ma voi mi abbandonate, mi disprezzate. Oh cielo! che mai vi feci?... Le scappava dagli occhi qualche lacrima. Confesso che il discorso mi aveva già intenerito, il suo pianto poi terminò di compiere la mia disfatta: le promisi assistenza, le mie premure, i miei buoni uffici, ma non era contenta; avrebbe voluto il sacrifizio totale della moglie del suonatore. Simile proposizione mi disgustò, le dissi adunque esser questo troppo pretendere, e che perciò ero determinato di andarmene. La signora Passalacqua mi trattiene, prende un’aria di vivacità, guarda il cielo, trova il tempo bellissimo, e mi propone di andare a prendere il fresco in sua compagnia in una gondola, fatta già venire a riva: ricuso, ed ella scherza ed insiste, mi prende per un braccio, e mi trascina. Come fare per non andar seco?

Entriamo in questa vettura, ove si stava con l’istessa comodità che nel più delizioso gabinettino, e c’inoltrammo nel largo della vasta laguna, dalla quale è circondata Venezia. Il nostro astuto gondoliere chiude la piccola cortina dì dietro, fa fare al remo da timone della gondola, e la lascia dolcemente andare a seconda del riflusso del mare. Si parlò di molte cose allegramente, e con piacere; e in capo ad un certo tempo la notte ci pareva molto inoltrata, nè sapevamo ove fossimo. Voglio guardar l’orologio, ma era troppo buio per vederci: apro adunque la finestrella di poppa, e chiedo al gondoliere, che ora era: — Non ne so nulla, signore, egli rispose, credo bensì, se non m’inganno, che sia appunto l’ora degli amanti. — Andiamo, andiamo senz’altro indugio, io gli dissi, a casa della signora. — Egli allora ripiglia il remo, gira la prua della gondola verso la città, e ci canta, cammin facendo, la vigesima sesta stanza del decimo canto della Gerusalemme liberata.

Entrammo in casa della signora Passalacqua alle ore dieci e mezzo della sera: ci fu portata una deliziosa cenetta: cenammo da soli, e la lasciai a mezzanotte, partendo nella più ferma determinazione di esser grato alle garbatezze di cui ella mi aveva ricolmato. Dovendo aspettare che mia madre trovasse un quartiere conveniente per collocarmi seco, stavo sempre in casa del direttore della compagnia. Il giorno successivo alla sera singolare della quale ora parlo, vidi il mio ospite, e gli dissi che il carattere fiero e geloso del vecchio sonatore mi aveva disgustato, e perciò lo pregavo di dispensarmi dalle premure, delle quali mi aveva incaricato a riguardo della giovine. Scarabocchiai quindi un intermezzo per la signora Passalacqua, e andai a trovarla per leggerle le prime prove della mia riconoscenza. In questo mentre fu messa in scena la Griselda. Questa tragedia fu ricevuta dal pubblico come un’opera nuova; piacque molto, e richiamò molto popolo. La Romana, quantunque su questo teatro sino da venti anni, fu applaudita in tal rappresentazione come la prima volta. Il Casali si guadagnava l’affetto del pubblico e faceva piangere; e il Vitalba, poichè aveva [p. 107 modifica] tanto ben sostenuto la parte di Belisario, superò sè stesso in quella di Gualtiero. Il Vitalba qui mi dà motivo di dover parlare della signora Passalacqua: egli era un bell’uomo, un comico eccellente, un gran corteggiatore di donne, un sommo libertino. Aveva già presa di mira la Passalacqua, e per vero dire, non occorreva darsi molta pena per soggiogarla. Frattanto nel tempo in cui frequentavo la compagnia di questa comica, seppi che il Vitalba pure andava a trovarla; ebbi inclusive notizia, che avevano godute insieme parecchie ricreazioni; ne fui sdegnato, e mi allontanai da questa donna infedele senza neppur degnarla di una lagnanza e senza addurre motivi del mio ritiro.

Ella mi scrisse una lettera molto tenera e di lamento, ed io le specificai nella risposta tutto ciò che avevo da dirle riguardo al suo cattivo procedere: me ne mandò una seconda, nella quale senza negar cosa alcuna, e senza scusarsi, mi pregò in grazia di portarmi a casa sua per una sola volta, per l’ultima volta, avendo alcune confidenze da farmi riguardo ai suoi affari, al suo onore, alla sua vita. Andrò io, non vi andrò? Stetti perplesso per qualche tempo, ma finalmente, o fosse per curiosità o per bisogno di sfogar la mia rabbia, presi la risoluzione di andarvi. Entro dopo essermi fatto annunziare, e la trovo sdraiata sopra un canapè col capo appoggiato ad un guanciale: la saluto, ella non mi fa parole; le domando che cosa aveva da dirmi, non risponde; mi salta il fuoco al viso, la collera mi accende, mi accieca, lascio libero il corso al mio risentimento, e senza alcun riguardo la opprimo con tutti i rimproveri che meritava. La comica non replicava parola, solo si asciugava di tempo in tempo gli occhi; temendo io le insidiose sue lacrime, volevo partire. — Sì, andate pure, essa mi disse con voce tremante: la mia risoluzione è già presa, avrete notizia di me fra pochi istanti. — Il suono di queste vaghe espressioni non mi arresta, prendo a dirittura la volta della porta, mi rivolgo per dirle addio, e la vedo con un braccio in aria, ed uno stiletto in mano con la punta al petto. Una tal vista m’inorridisce; perdo il cervello, corro, mi getto ai di lei piedi, le strappo lo stile di mano, le asciugo le lacrime, tutto le perdono, tutto le prometto, e rimango da lei. Desiniamo insieme, ed... eccoci come prima. Contento della mia vittoria, benedicevo il momento in cui mi ero voltato addietro nell’uscire: ero amante, e l’amavo davvero: ed ero altresì contento ch’essa pure mi amasse. Cercavo persin ragioni per iscusare la sua mancanza. Il Vitalba l’aveva sorpresa, essa n’era pentita, ed aveva rinunziato a lui per sempre, e poi per sempre... in capo a pochi giorni però ebbi notizia, da non poterne dubitare, che la signora Passalacqua ed il signor Vitalba avevano desinato e cenato insieme burlandosi di me.