Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XL

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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Parte prima - XXXIX Parte prima - XLI

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CAPITOLO XL.

Ritorno a Venezia con mia moglie. — Rinaldo di Montalbano, tragicommedia. — Enrico Re di Sicilia, tragedia. — Arrivo a Venezia del famoso Arlecchino Sacelli e della di lui famiglia. — Loro entratura nella compagnia di San Samuele. — Acquisto di altri buoni soggetti. — L’uomo di mondo, commedia di carattere in tre atti, parte scritta e parte abbozzata.

Arrivato a Venezia con mia moglie, la presentai a mia madre ed alla zia; mia madre rimase incantata alla dolcezza di sua nuora, e la zia, benchè non troppo pieghevole, riguardò la nipote come una sua buona amica. Era un insieme di famiglia da innamorare; vi regnava la pace, ed ero il più felice uomo del mondo. I comici, che non contavano altrimenti sopra di me, furono contenti di rivedermi, molto più che avevo loro portato una buona rappresentazione, il Rinaldo di Montalbano, tragi-commedia in versi di cinque atti. [p. 112 modifica] Questo tema preso dal fondo delle vecchie commedie italiane era cattivo quanto l’antico Belisario, ed il Convitato di Pietra. Pure l’avevo purgato dai grossolani difetti che lo rendevano insopportabile, ravvicinando quanto mi fu possibile all’indole dell’antica cavalleria, ed alla decenza propria di una rappresentazione nella quale compariva Carlo Magno. Il pubblico, assuefatto a veder Rinaldo paladino di Francia comparire al consiglio di guerra involto in un mantello strappato, ed Arlecchino difendere il castello del suo padrone e sbaragliare i soldati dell’imperatore a colpi di pignatte e pentole rotte, ebbe piacere che l’eroe calunniato sostenesse la sua causa nobilmente, nè vide con rincrescimento abolite affatto buffonerie fuori di proposito. Il Rinaldo di Montalbano ebbe applauso, ma non quanto il Belisario ed il Convitato di Pietra. Si diè termine con questo alla stagione d’autunno; io non l’aveva destinato per la stampa, e fui dolente di trovarlo impresso nell’edizione di Torino.

Il primo anno di matrimonio mi aveva tenuto occupato in maniera che non avevo avuto tempo di mettere insieme verun lavoro comico. Era necessario pertanto far qualche cosa di nuovo per l’inverno. Trovandomi una tragedia, sbozzata in Genova, di cui ero al quart’atto, feci prestissimo il quinto; mutai, corressi in fretta, insomma misi in stato gli attori di esporre questa rappresentazione al principio di carnevale.

Il titolo della mia composizione era Enrico Re di Sicilia, soggetto da me preso nel Matrimonio per vendetta, che è una novella inserita nel romanzo dei Gilblas. Era sull’istesso gusto di Bianca e Guiscardo di M. Saurin dell’accademia di Francia, ma nè la tragedia dell’autore francese, nè la mia, ebbero un gran successo: convien dunque dire che vi sono temi disgraziati che non son fatti per riuscire. I comici per altro compensarono il danno con la replica del Rinaldo, e chiusero con esso l’anno comico. Si fecero nella quaresima alcune mutazioni in questa compagnia, che fu portata, per quanto era possibile, al punto della sua perfezione. Fu presa in cambio della Bastona madre, la Bastona figlia, attrice eccellente, piena d’intelligenza, nobile nel serio, e graziosissima nel comico. Al Vitalba, primo amoroso, era subentrato il Simonetti, meno brillante del suo predecessore, ma però più decente, più istruito, e più docile. Era stato fatto acquisto del Pantalone Golinetti, mediocre nelle parti della maschera, ma molto più abile per rappresentare i caratteri di giovine veneziano a viso scoperto; ed il dottor Lombardi, che per la sua figura, e per il suo ingegno era unico in questo impiego. Per mia buona sorte la Passalacqua era stata licenziata; veramente non avevo verso di lei rancore alcuno, ma stavo meglio quando non la vedevo. Il soggetto però che rese questa compagnia completamente buona, fu il famoso Arlecchino Sacchi, la cui moglie recitava passabilmente le seconde parti di amorosa, e la sorella, eccettuato un poco di caricatura, molto bene quelle di servetta. Eccomi (andavo dicendo tra me stesso), eccomi nella miglior condizione; adesso sì che posso dar lo scatto alla mia immaginazione; abbastanza ho lavorato sopra temi rancidi, ora bisogna creare, conviene inventare. Ho tra mano attori che promettono molto; ma, per impiegarli utilmente, è necessario rifarsi dallo studiarli: ciascuno ha il suo carattere naturale, e se l’autore ne assegna al comico uno che sia appunto analogo al suo proprio, la riuscita è sicura. Su via (continuavo sempre nelle mie tacite riflessioni), ecco forse il momento di tentar quella riforma avuta in mira da sì lungo tempo. Sì, bisogna trattare soggetti di carattere; sono [p. 113 modifica] essi la sorgente della buona commedia: da questi appunto incominciò la sua professione il gran Molière; e felicemente giunse a quel grado di perfezione, dagli antichi solamente indicatoci, e non eguagliato ancor dai moderni. Faceva io male a incoraggirmi così? No; poichè all’arte comica tendeva la mia inclinazione, e la buona commedia doveva essere il mio scopo. Mi sarei fatto torto, se avessi avuto l’ambizione di stare a confronto coi maestri dell’arte; ma io ad altro non aspirava che a riformare gli abusi del teatro del mio paese, non essendo poi necessaria una somma scienza a ciò conseguire. In conseguenza di tali ragionamenti che a me parevano giusti, cercai nella compagnia l’attore più a proposito per sostenere un carattere nuovo e nell’istesso tempo piacevole. Mi determinai per il Pantalone Golinetti, non per adoprarlo con una maschera, che, nascondendo la faccia, impedisce all’attore sensibile di manifestar sul volto la passione che lo anima; facevo solo gran caso della sua maniera di stare nelle conversazioni, ove lo avevo veduto e studiato; onde credetti di poter farne un personaggio eccellente, nè m’ingannai. — Misi adunque in ordine una commedia di carattere, il cui titolo era Momolo cortesan. Momolo, in lingua veneziana, è il diminutivo di Girolamo, ma non è possibile tradur bene con un altro adiettivo francese quello di cortesan. Questo termine non nasce da una corruzione della parola cortigiano; deriva bensì piuttosto dalle voci courtoisie, e coutois, cortesia, cortese. Gli Italiani medesimi non avean cognizione, generalmente parlando, del cortesano veneto, onde sino da quando feci stampare questa composizione, la intitolai L’Uomo di mondo, e dovendo metterla in francese, il suo conveniente titolo credo sarebbe quello di Homme accompli. Vediamo, se sono in errore. Il vero Cortesan veneto è un uomo di probità, capace di render servigli, e cortese. È generoso senza profusione, allegro senza esser leggiero, amatore delle donne senza compromettere il suo decoro, amator di piaceri senza rovinarsi; in tutto si mescola per il solo bene degli affari, preferisce la tranquillità, nè sa soffrir la soverchieria; affabile con tutti, fervido amico, zelante protettore. Non è adunque questi l’uomo di mondo? E qui forse mi si dirà: se ne trovano molti di codesti Cortesan in Venezia? Sì, non se ne scarseggia; ve ne sono di quelli che più o meno posseggono le qualità di questo carattere; trattandosi però di metterlo in atto agli occhi del pubblico, convien sempre manifestarlo in tutta la sua perfezione. Affinchè un carattere qualunque faccia più effetto sulla scena, fui sempre di sentimento che bisognasse porlo in contrasto con caratteri opposti: introdussi perciò nella mia rappresentazione un maligno veneziano che mette in mezzo i forestieri. Il Cortesan senza conoscere le persone ingannate, le difende dalle insidiose trame di costui, e smaschera il briccone. Arlecchino poi non è in questa commedia un servitore stordito, ma un uomo senza volontà di far nulla, e che pretende di esser mantenuto dalla sorella ne’ propri vizii. Il Cortesan procura un collocamento alla giovine, e pone il pigro nella necessità di lavorare per vivere; in somma l’uomo di mondo compie il suo bellissimo ufficio ammogliandosi egli stesso, e scegliendo fra le donne di sua conoscenza quella che aveva meno pretensioni e più merito. Questa rappresentazione ebbe un successo mirabile, e ne ero veramente contento. Vedevo i miei compatriotti abbandonare l’antico gusto della farsa, ed avevo avanti gli occhi l’annunziata riforma senza però potere ancora vantarmene. Questa composizione non era in dialogo, nè altro vi era di scritto, che la parte [p. 114 modifica] dell’attore principale. Tutto il resto era a braccia; benchè gli attori fossero ben combinati non erano però tutti in istato di adempiere la loro parte con abilità. Non vi si poteva pertanto scorgere quella uguaglianza di stile che qualifica gli autori. Era per me impossibile riformar tutto in una volta senza irritare gli amatori della commedia nazionale: aspettavo adunque il momento favorevole per assalirli di fronte con più vigore e sicurezza.