Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLI
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CAPITOLO XLI.
- Gustavo Vasa, opera. — Breve disgressione sopra Metastasio, e Apostolo Zeno. — Colloquio con quest’ultimo sulla mia composizione. — Il Prodigo, commedia in tre atti, parte scritta e parte a braccia. — Lagnanze degli attori a maschera. — Le trentadue disgrazie di Arlecchino, commedia a braccia. — Alcune parole sopra l’Arlecchino Sacelli. — La notte critica, commedia a braccia.
I miei comici dovevano andare nella primavera e nell’estate a far le loro recite in terraferma; avrebbero perciò desiderato, che io li avessi seguitati, ma io diceva loro coll’evangelo alla mano: uxorem duxi, sono ammogliato. Mi confermò anche nell’idea di restare a Venezia un’altra ragione. Il proprietario di quel medesimo teatro ove si davano le mie commedie nell’autunno e nell’inverno, mi aveva incaricato di un dramma in musica per la fiera dell’Ascensione dell’istess’anno. Ultimata quest’opera nella quaresima, avevo caro di presedere io stesso all’esecuzione. Doveva metterla in musica il celebre Galuppi denominato Buranello, e ne pareva contento; ma avanti di rilasciargliela, rammentandomi quanto mi ero ingannato nell’Amalasunta, nè sapendo se con precisione avessi adempito a tutte le stravaganze che si chiamano regole del dramma in musica, volevo, prima di esporla al pubblico, sottoporla all’occhio e al giudizio di qualcuno, e scelsi per mio giudice e consigliere Apostolo Zeno, tornato da Vienna, dove eragli succeduto l’abate Metastasio. A questi due illustri autori deve l’Italia la riforma dell’Opera. Prima di loro, altro non si vedea negli spettacoli musicali, che divinità, diavoli, macchine, maraviglie. Lo Zeno credette il primo, che la tragedia potesse rappresentarsi benissimo in versi lirici senza avvilirla, e si potesse anche cantare senza infievolir punto la sua energia. Dette esecuzione a tale idea nel modo più soddisfacente per il pubblico e più glorioso per sè medesimo e per la sua nazione. Si scorgono nelle sue opere gli eroi come realmente erano, o almeno quali gl’istorici ce li rappresentano: i caratteri sono ben sostenuti con vigore, ben condotto il disegno, e gli episodi sempre legati alla unità dell’azione; maschio e robusto ne è lo stile, e le parole dell’arie adattate felicemente alla musica del suo tempo. Il Metastasio, suo successore, portò la tragedia lirica al colmo della perfezione, di cui era capace il suo puro ed elegante stile, i suoi fluidi ed armoniosi versi, una chiarezza ammirabile nei sentimenti, un’apparente facilità, che nasconde il penoso lavoro della precisione; una commovente energia nel linguaggio delle passioni, i ritratti, i quadri, le ridenti descrizioni, la dolce morale, la filosofia insinuante, l’analisi del cuore umano, le sue cognizioni sparse senza profusione, ed usate con arte, le sue arie, o per meglio dire, i suoi madrigali incomparabili, ora sul gusto di Pindaro, ed ora su quello di Anacreonte l’hanno reso veramente ammirabile, e degno d’una corona immortale conferitagli dagli Italiani, nè mai ricusatagli dagli stranieri. Se avessi l’ardire di far confronti, potrei mettere in campo la proposizione che il Metastasio ha imitato il Racine, e lo Zeno ha imitato il Cornelio nella robustezza. I loro geni corrispondevano ai loro caratteri. Il Metastasio era in conversazione dolce, garbato, piacevole; lo Zeno serio, profondo, instruttivo. M’indirizzai adunque a quest’ultimo per l’analisi del mio Gustavo. Trovo questo rispettabile uomo nel suo gabinetto; mi riceve urbanissimamente, ed ascolta la lettura del mio dramma senza far parola. M’accorgo per altro dai moti de’ suoi lineamenti quali erano i buoni e i cattivi pezzi della mia composizione; e terminata la lettura, gli domando il suo parere. — Molto bene, egli riprese, prendendomi per mano: questo è un dramma veramente a proposito per la fiera dell’Ascensione. — Pur troppo intesi quello che voleva dire, ed ero per mandare in pezzi il mio foglio, ma egli me lo impedì, dicendomi per consolarmi, che il mio dramma, quantunque mediocre, era cento volte migliore di tutti quelli, gli autori dei quali, sotto pretesto d’imitazione, null’altro facevano che copiare. Non osò nominar sè stesso; io però conosceva benissimo i plagiari dei quali aveva ragion di lamentarsi.
Misi a profitto le mute correzioni del signor Zeno, e variai nella mia composizione alcuni luoghi, che avevan fatto digrignare i denti al mio giudice. Fu pertanto eseguita quest’opera: erano buoni gli attori, eccellente la musica, magnifici i balli, ma del dramma non si diceva nulla; me ne stavo adunque dietro la cortina, partecipando di applausi che non mi appartenevano, e dicendo fra me per pormi in calma: non è questa la mia professione: avrò la rivincita nella prima mia commedia.
L’opera da me preparata per il ritorno degli attori era il Prodigo. Non ne rintracciai il soggetto nella classe dei viziosi, ma in quella bensì dei ridicoli. Il mio Prodigo non compariva giuocatore, dissoluto, splendido. La sua prodigalità altro non era che debolezza; dava per il solo piacere di dare, ed aveva un fondo di cuore eccellente. La sua dabbenaggine unitamente alla sua credulità lo esponevano al disordine ed alla derisione. Questo carattere era affatto nuovo; ne conoscevo però gli originali, e li avevo veduti e studiati in riva alla Brenta fra gli abitanti di quelle deliziose e magnifiche ville, ove spicca l’opulenza, e si rovina la mediocrità. L’attore eccellente, che sostenne così bene l’elegante personaggio del Cortesan veneziano, rappresentò con la maggior perfezione il torbido ed insensibile carattere del mio Prodigo. Avevo messo al fianco dell’uomo ricco, ed enormemente liberale, un maligno ed accorto agente, che, profittando delle inclinazioni del suo padrone, gli somministrava tutte le opportunità ed i mezzi di soddisfarsi. Ogni volta che si trattava di trovar danaro, il buon uomo terminava con dire al traditore, da cui era sedotto: caro vecchio, fè vu. Questo modo di dire fece riconoscere a Venezia alcune persone, cui era famigliare. Si faceva di tutto per indovinare il mio modello; io l’aveva ricavato dalla folla della gente ricca, che è il ludibrio della propria debolezza, e de’ suoi seduttori: ma si combinò disgraziatamente che un aneddoto di mia invenzione fu trovato istorico, e poco mancò che non mi rovinasse. La bella del Prodigo era una giovinetta che sarebbe anche divenuta sua moglie, se fosse stato meno in disordine; trovasi un giorno la signorina nella abitazione di lui sulla Brenta in compagnia de’ suoi genitori. L’amante le offre un anello di prezzo: essa lo ricusa. Poco tempo dopo il procuratore del Prodigo torna da Venezia con la lieta nuova al cliente della vincita di una lite. L’uomo generoso vuol dimostrare in qualche modo il suo giubilo, il suo contento, e non avendo danaro, regala al procuratore l’anello: egli l’accetta, e se ne va. In questo mentre la signorina è consigliata ad aggradire il regalo per impedir così, che il giovane stolto non se ne disfaccia male a proposito. Essa torna; tien discorso sull’anello, e fa le sue scuse per averlo ricusato, non avendo potuto riceverlo senza il dovuto permesso che aveva appunto ottenuto. Ahimè! l’anello non vi era più; ed ecco l’amante nella massima desolazione, ecco il Prodigo disperato. Che turbamento! che imbroglio! È questo uno di quei felici colpi di scena, che divertono gli spettatori, che producono vicende e conducono con la massima naturalezza l’azione al suo scioglimento. Correva voce che una tale avventura fosse succeduta a un personaggio di alta condizione, al quale io professava molte particolari obbligazioni. Per buona sorte questo signore non se ne accorse, o finse di non accorgersene. A lui pure stavano a cuore i miei felici successi, e la mia composizione avendo avuto un’ottima riuscita, n’era contento al par di me. Il Prodigo andò in scena per venti sere di seguito, e lo accompagnò l’istessa buona sorte anche nella sua replica nel carnevale; ma i personaggi da maschera si lagnavano fortemente di me, perchè non dava loro da occuparsi, anzi contribuivo alla loro rovina, e molti dilettanti e protettori li sostenevano. Dopo tali lagnanze, e in conseguenza della condotta propostami, diedi al principio dell’anno comico una commedia a soggetto intitolata: Le trentadue disgrazie di Arlecchino. Il Sacchi era quegli che doveva eseguirla in Venezia, onde ero sicurissimo del buon esito. Questo attore, conosciuto sul teatro italiano sotto il nome di Truffaldino, aggiungeva alle grazie naturali e proprie della sua parte, uno studio continuato sull’arte comica e sui differenti teatri dell’Europa. Antonio Sacchi possedeva una viva e rara immaginazione, e recitava a maraviglia le commedie dell’arte; laddove gli altri arlecchini non facevano che ripetere le stesse cose, egli, internato sempre nel fondo della scena, per mezzo di facezie affatto nuove e inaspettate risposte, manteneva sempre viva la rappresentazione, sicchè si accorreva da ogni parte in folla per sentire il Sacchi. I suoi tratti comici e le sue lepidezze, non eran tratte dal linguaggio del popolo, nè da quello dei commedianti. Aveva messi a contribuzione gli autori comici, i poeti, gli oratori, i filosofi; si udivano, nelle di lui parti all’improvviso, pensieri degni di Seneca, di Cicerone, del Montaigne; ed aveva l’arte di appropriare in modo le massime di quei grand’uomini alla semplicità del carattere del balordo, che la proposizione istessa, degna di ammirazione nell’autor serio, faceva sommamente ridere, quando veniva dalla bocca di questo attore eccellente. Parlo del Sacchi come appunto parlerei di un uomo che è già esistito; poichè, a motivo della sua età tanto avanzata, altro non rimane all’Italia, se non se il rammarico di averlo perduto, senza speranza, di poter vedere riempito il suo posto. La mia rappresentazione, sostenuta dall’attore di cui fo menzione, ebbe tutto il buon successo che una commedia a soggetto poteva avere. Tutti i dilettanti delle maschere e degl’intrecci a braccia erano contenti di me, e conobbero che nelle mie trentadue disgrazie vi era più condotta e senso comune, che nelle commedie dell’arte. Osservando che il maggior diletto della mia composizione resultava dagli accidenti da me ammassati gli uni sopra gli altri, profittai della scoperta, e quindici giorni dopo esposi una commedia dell’istesso genere, molto più corredata di colpi di scena e di casi, e la intitolai La notte critica, o I cento quattro avvenimenti della medesima notte. Simile rappresentazione poteva veramente chiamarsì la prova dei comici; perocchè ella era sì complicata e lavorata con tal sottigliezza che non vi voleva altri che gli attori ai quali l’affidai, per poterla eseguire in una maniera così esatta, e con tanta facilità.
N’ebbi la conferma quattro anni dopo. Mi ritrovavo a Pisa in Toscana, dove una conversazione di campagna pensò in ossequio mio di rappresentarla. Il giorno dopo sentii dire in un Caffè in lung’Arno: Dio mi guardi dal mal di denti, e da’ Cento quattro accidenti.
Ciò prova, che il buon successo delle composizioni teatrali dipende il più delle volte dall’esecuzione degli attori. Non occorre dissimulare questa verità: abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri. Dobbiamo amarci, dobbiamo stimarci a vicenda servatis servandis.