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pra gli altri, profittai della scoperta, e quindici giorni dopo esposi una commedia dell’istesso genere, molto più corredata di colpi di scena e di casi, e la intitolai La notte critica, o I cento quattro avvenimenti della medesima notte. Simile rappresentazione poteva veramente chiamarsì la prova dei comici; perocchè ella era sì complicata e lavorata con tal sottigliezza che non vi voleva altri che gli attori ai quali l’affidai, per poterla eseguire in una maniera così esatta, e con tanta facilità.

N’ebbi la conferma quattro anni dopo. Mi ritrovavo a Pisa in Toscana, dove una conversazione di campagna pensò in ossequio mio di rappresentarla. Il giorno dopo sentii dire in un Caffè in lung’Arno: Dio mi guardi dal mal di denti, e da’ Cento quattro accidenti.

Ciò prova, che il buon successo delle composizioni teatrali dipende il più delle volte dall’esecuzione degli attori. Non occorre dissimulare questa verità: abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri. Dobbiamo amarci, dobbiamo stimarci a vicenda servatis servandis.

CAPITOLO XLII.

Mutazione del mio stato. — Oronte re degli Sciti, Opera.

Avevo appagato il gusto strambo dei miei compatrioti, dai quali ricevevo, ridendo, le congratulazioni, e morivo di voglia di condurre una volta con sollecitudine al suo termine la bramata riforma. Ma un avvenimento accadutomi appunto in quest’anno, mi fece interrompere per qualche mese il corso de’ miei lavori favoriti. Era morto di poco il conte Tuo console di Genova in Venezia. I parenti di mia moglie, che avevano credito e protezioni, domandarono l’impiego per me, e l’ottennero di botto. Eccomi in seno della patria incaricato dei segreti di una Repubblica straniera. Avevo però bisogno di tempo per conoscere bene un impiego, del quale non avevo ancora la minima idea. I Genovesi non tenevano in Venezia altro ministro, che il console; avevo adunque mille commissioni: spedivo ogni otto giorni i miei dispacci, mi davo briga delle novità, o ardivo far da politico: imparata quest’arte a Milano, non me n’ero scordato. Si gradivano in Genova le mie relazioni, le mie riflessioni, le mie congetture; nè me la passavo male nel corpo diplomatico di Venezia.

Il nuovo stato e le mie nuove incombenze non m’impedirono di riprendere le mie occupazioni teatrali; anzi nel carnevale, di quell’istesso anno diedi un’opera al teatro di San Giovanni Crisostomo, e una commedia di carattere a quello di San Samuele. La mia opera, intitolata Oronte re degli Sciti, ebbe un successo stupendo. La musica del Buranello era divina, le decorazioni del Jolli magnifiche, e gli attori eccellenti; del libretto non se ne parlava punto, ma l’autore delle parole non goveda meno degli altri del buon esito di tal grazioso spettacolo. Al teatro comico all’opposto, ove facevo recitare nel tempo medesimo una nuova commedia intitolata La Bancarotta, tutti gli applausi, tutti i battimani e tutti i bravo, erano per me solo. Un fallito di mala fede è un delinquente, che abusando della fiducia del pubblico, disonora sè stesso, rovina la sua famiglia, ruba, tradisce i privati, ed offende generalmente il commercio. Iniziato per mezzo del mio nuovo impiego nella cognizione dei negozianti, non sentivo parlare che di fallimenti. Vedevo bene che tutti quelli che si ritiravano dal commercio, o fuggissero