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capitolo xli | 115 |
creonte l’hanno reso veramente ammirabile, e degno d’una corona immortale conferitagli dagli Italiani, nè mai ricusatagli dagli stranieri. Se avessi l’ardire di far confronti, potrei mettere in campo la proposizione che il Metastasio ha imitato il Racine, e lo Zeno ha imitato il Cornelio nella robustezza. I loro geni corrispondevano ai loro caratteri. Il Metastasio era in conversazione dolce, garbato, piacevole; lo Zeno serio, profondo, instruttivo. M’indirizzai adunque a quest’ultimo per l’analisi del mio Gustavo. Trovo questo rispettabile uomo nel suo gabinetto; mi riceve urbanissimamente, ed ascolta la lettura del mio dramma senza far parola. M’accorgo per altro dai moti de’ suoi lineamenti quali erano i buoni e i cattivi pezzi della mia composizione; e terminata la lettura, gli domando il suo parere. — Molto bene, egli riprese, prendendomi per mano: questo è un dramma veramente a proposito per la fiera dell’Ascensione. — Pur troppo intesi quello che voleva dire, ed ero per mandare in pezzi il mio foglio, ma egli me lo impedì, dicendomi per consolarmi, che il mio dramma, quantunque mediocre, era cento volte migliore di tutti quelli, gli autori dei quali, sotto pretesto d’imitazione, null’altro facevano che copiare. Non osò nominar sè stesso; io però conosceva benissimo i plagiari dei quali aveva ragion di lamentarsi.
Misi a profitto le mute correzioni del signor Zeno, e variai nella mia composizione alcuni luoghi, che avevan fatto digrignare i denti al mio giudice. Fu pertanto eseguita quest’opera: erano buoni gli attori, eccellente la musica, magnifici i balli, ma del dramma non si diceva nulla; me ne stavo adunque dietro la cortina, partecipando di applausi che non mi appartenevano, e dicendo fra me per pormi in calma: non è questa la mia professione: avrò la rivincita nella prima mia commedia.
L’opera da me preparata per il ritorno degli attori era il Prodigo. Non ne rintracciai il soggetto nella classe dei viziosi, ma in quella bensì dei ridicoli. Il mio Prodigo non compariva giuocatore, dissoluto, splendido. La sua prodigalità altro non era che debolezza; dava per il solo piacere di dare, ed aveva un fondo di cuore eccellente. La sua dabbenaggine unitamente alla sua credulità lo esponevano al disordine ed alla derisione. Questo carattere era affatto nuovo; ne conoscevo però gli originali, e li avevo veduti e studiati in riva alla Brenta fra gli abitanti di quelle deliziose e magnifiche ville, ove spicca l’opulenza, e si rovina la mediocrità. L’attore eccellente, che sostenne così bene l’elegante personaggio del Cortesan veneziano, rappresentò con la maggior perfezione il torbido ed insensibile carattere del mio Prodigo. Avevo messo al fianco dell’uomo ricco, ed enormemente liberale, un maligno ed accorto agente, che, profittando delle inclinazioni del suo padrone, gli somministrava tutte le opportunità ed i mezzi di soddisfarsi. Ogni volta che si trattava di trovar danaro, il buon uomo terminava con dire al traditore, da cui era sedotto: caro vecchio, fè vu. Questo modo di dire fece riconoscere a Venezia alcune persone, cui era famigliare. Si faceva di tutto per indovinare il mio modello; io l’aveva ricavato dalla folla della gente ricca, che è il ludibrio della propria debolezza, e de’ suoi seduttori: ma si combinò disgraziatamente che un aneddoto di mia invenzione fu trovato istorico, e poco mancò che non mi rovinasse. La bella del Prodigo era una giovinetta che sarebbe anche divenuta sua moglie, se fosse stato meno in disordine; trovasi un giorno la signorina nella abitazione di lui sulla Brenta in compagnia de’ suoi genitori. L’amante le offre un