Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo VII
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Capitolo VII.
Qual fosse il collegio nuovo.
Ora passando al collegio nuovo, cioè alle creature del regnante pontefice d’allora Clemente ottavo, egli in diverse promozioni aveva creato piú di trenta cardinali come io ho accennato di sopra. Nella prima di quattro aveva promosso i due nepoti insieme con Sasso e Toledo. Intorno alle persone de’ nipoti ho di giá parlato a bastanza. Toledo era morto poco prima che il papa andasse a Ferrara; ma perché la sua gran fama lo faceva tuttavia restar vivo, perciò come di cardinale quasi allora spirante dico solo ch’egli era stato insigne filosofo, celebre teologo, famoso predicatore e grand’uomo ancora di maneggi ed affari; avevalo mostrato specialmente in quel sí alto sí grave e sí difficile negozio che dal papa con tanta riputazione e felicitá s’era poco tempo prima concluso intorno alla riunione della Francia con la sede apostolica, poiché in essa l’opera del Toledo, benché fosse spagnuolo, era fra tutte l’altre riuscita a Clemente la piú fruttuosa e la piú fedele.
Sasso anch’egli nella mia venuta alla corte si poteva quasi piú tosto dire non morto affatto che affatto vivo per l’etá sua decrepita, e per diverse sue indisposizioni che lo rendevano giá inutile totalmente, e si era veduto che il pensiero del papa nel promoverlo in persona e qualitá di curiale benemerito era stato di animare alle fatiche similmente gli altri curiali, e di onorare piú la sepoltura che la vita di lui medesimo.
Dopo questa promozione di quattro soli, ne aveva tre anni dopo fatta Clemente un’altra di sedici ornata di molti soggetti, ch’erano ascesi con generale approvazione a quel grado. Alcuni di essi però erano di giá morti o si trovavano lontani. In essa aveva il papa voluto specialmente onorare la nuova congregazione dell’oratorio, con promovere a quella dignitá Francesco Maria Tarugi e Cesare Baronio, i quali erano stati i piú assidui piú antichi e piú profittevoli compagni che avesse avuto san Filippo fondatore principale di quel nuovo instituto.
Era piú vecchio d’alcuni anni Tarugi nato in Toscana onoratamente nella cittá di Montepulciano, e sin dalla sua prima gioventú trasferitosi a Roma; quivi egli col nudrirsi continuamente in opere e fatiche spirituali e per via delle confessioni delle prediche e di tutti gli altri esercizi che potevano piú eccitare alla devozione e alla pietá, facendo vita veramente apostolica, era venuto in gran cognizione e stima di tutta la corte; onde Pio quinto aveva voluto ch’egli andasse col nepote Alessandrino in quella sua si celebre legazione. Tornato a Roma l’aveva poi san Filippo mandato a Napoli per fondare in quella cittá una casa d’oratorio d’uguale instituto a quella di Roma. Né si può dire quanto nome ivi acquistasse pur con i medesimi esercizi Tarugi nello spazio di sei anni che egli vi dimorò. Quindi asceso Clemente al pontificato non aveva differito punto a tirarlo fuori di quella vita, che non aveva tanto del communicabile che non avesse molto piú del rinchiuso. Onde creatolo prima arcivescovo d’Avignone, quanto piú da lui si ricusavano le dignitá strepitose tanto piú volendo il papa ch’egli in quella forma le rendesse piú desiderabili, non lasciò poi succedere la prima promozione seguente de’ cardinali che in essa fra i piú conspicui soggetti non facesse aver luogo a Tarugi. Ma né questa né quella dignitá con la mutazione de’ colori aveva mutato punto in lui i costumi. Rilucevano perciò tuttavia in lui le qualitá sue di prima, anzi tanto piú quanto una maggior luce le faceva maggiormente risplendere, ed in quel medesimo tenore e di sensi e d’azioni e di fama continuò egli sempre poi sino all’ultimo dell’etá sua, e lo condusse agli ottantadue anni.
A Tarugi era, come ho detto, alquanto inferiore d’anni Baronio, ma sí conforme nelle virtú che non se ne poteva predicare una in Tarugi che non rilucesse ugualmente in Baronio; e quanto di perfetto d’esemplare e d’apostolico appariva in quello, altrettanto all’istessa misura se ne vedeva risplendere in questo; benché non pareva che fussero due differenti persone, ma che delle due si formasse un composto solo da servire per idea perfettissima a ciascheduno che amasse di fare quella sorte di vita, che per sí lungo tempo e con approvazione tanto grande si era da loro professata, e concorrevano da una parte e l’altra tutte le accennate virtú per dar occasione di formarsene un tal concetto, nature simili, studi conformi, disciplina uguale, poca differenza di fatiche, poca differenza in farle ambedue, parte allievi e parte compagni di san Filippo; e sí congiunti insieme specialmente in amore che o l’uno amava l’altro piú che se stesso overo si amavano ugualmente come una cosa medesima. In questa unione vissero perpetuamente e morirono, e sí come non potevano essere piú congiunti fra loro in vita cosí le ceneri loro sepolte insieme gli congiunsero non meno strettamente poi anco in morte. Ma con tutto ciò bisognava necessariamente riconoscere di piú in Baronio quel sí alto e chiaro lume che risplendeva nella mole sí gloriosa di tanti volumi della sua Istoria ecclesiastica. In questa egli aveva principalmente impiegato l’ingegno, in questa spese le maggiori fatiche, da questa fatto conseguire tanto onore alla Chiesa, tanti vantaggi alla sede apostolica, tanta riputazione al suo nuovo instituto, e insieme un sí gran merito a se medesimo che la porpora stessa doveva pregiarsi dovergliene fatto godere un sí giusto premio. Perché tanto piú avesse dovuto comparire un’opera cosí celebre, molti avrebbono desiderato di vederla distesa con piú elegante e piú culto stile. Ma perché lo stile richiede un’immensa fatica ed esquisitezza del suo proprio lavoro, perciò forse Baronio non aveva voluto levare il tempo che era piú necessario alla parte piú essenziale delle materie per darlo non sí necessariamente all’altra, che doveva impiegarsi nella cultura delle parole. Ho voluto ancor’io in questo luogo unir insieme Tarugi e Baronio benché dovessi prima far menzione d’altri cardinali, che precederono a Baronio in quella promozione d’allora.
De’ presenti in Roma seguiva il cardinale Camillo Borghese, il quale fu assonto poi al pontificato, e fu detto Paolo quinto. E perché di lui e delle sue azioni occorrerá parlare a lungo in queste Memorie per l’occasione che io ebbi specialmente di servirlo nelle mie nunziature di Fiandra e di Francia avanti che io ricevessi dalle sue mani il cardinalato, perciò riservandomi a trattarne allora, io mi asterrò dal farne qui presentemente alcuna particolar menzione.
Quindi succedeva il cardinale Lorenzo Bianchetti, bolognese, di casa antica e molto qualificata. Aveva egli spesi ventiquattro anni nel tribunale della rota di Roma, e sempre con laude uguale di gran dottrina ed insieme di gran bontá. In quel tempo egli si era trovato in due nobilissime legazioni facendo officio non solo d’auditore di rota, ma di ministro che participava in esse ancora di tutti gli altri piú gravi maneggi, la prima volta in quella di Francia appresso il cardinale Gaetano, e la seconda in quella di Polonia appresso il cardinale Aldobrandino, asceso dopo al pontificato; era molto perciò stimato Bianchetti da tutta la corte e le sue qualitá ne lo rendevano meritevole.
Nella medesima promozione erano entrati i cardinali d’Avila e di Guevara ambidue spagnuoli, ambidue venuti a Roma in un medesimo tempo. Avila aveva conseguito gran nome in Ispagna, ed insieme gran merito nell’avere molto degnamente esercitato alcuni principali offici d’inquisizione; e dall’altra parte Guevara non si era reso punto meno riguardevole in amministrarne alcuni altri di giudicature pur molto conspicue; anzi dopo che si erano poi l’uno e l’altro fermati in Roma, aveva Guevara molto piú corrisposto al concetto della corte, e lo mostrò specialmente nei due prossimi conclavi che poi seguirono, perché in essi furono da lui sostenute quelle parti che i protettori di Spagna avevano sostenute nelle precedenti.
Dopo questi due cardinali spagnuoli, seguivano due altri auditori di rota italiani di molta fama, che il papa aveva voluto promovere insieme con Bianchetti a quella dignitá in segno del suo affetto verso quel tribunale, ond’egli era uscito con l’onore della porpora, e prima di lui il prenominato cardinale suo fratello. L’uno chiamavasi Francesco Mantica nato onorevolmente in Udine, cittá principale del Friuli, e l’altro Pompeo Arigone che descendeva pure da onorato sangue, transferitosi alcun tempo inanzi dalla cittá di Milano in questa di Roma. Per libri stampati in materie legali delle piú importanti che si potessero o leggere per le scuole o praticare ne’ giudici trovavasi Mantica in somma riputazione. Aveva egli giá nella medesima scienza esercitate con somma lode le prime catedre in Padova. Quindi eletto auditore di rota e venuto a Roma, era poi nell’impiego rotale cresciuta sempre piú l’opinione della sua dottrina, e perciò il papa oltre all’aver voluto favorire quel tribunale aveva stimato ancora degne di quell’onore e in se medesimo le sue proprie fatiche.
Dall’altra parte Arigone per lungo tempo aveva esercitata in Roma l’avvocazione ordinaria e poi la concistoriale, e l’una e l’altra con tanta stima che la sua elezione all’auditorato non poteva riportarne piú corrispondente l’applauso. Fatto poi cardinale, tutta la corte era concorsa in un medesimo senso d’approvazione; e benché egli da una parte non uguagliasse Mantica nello strepito ulteriore delle stampe, non gli cedeva però dall’altra nella qualitá piú essenziale della dottrina, ma egli poi superava di tanto l’altro nell’abilitá de’ maneggi, che in questa parte non si poteva formare alcun giusto paragone fra loro. Mantica tutto fatto per vivere fra i libri e fra le scritture, ed Arigone abilissimo per natura e per pratica a stare fra gli uomini e fra i negozi. Quegli parco o piú tosto rozzo nelle parole, ma molto grato eziandio ne’ gesti e nella presenza; lá dove questo era dotato di nobile aspetto, di gran giudizio e di gran prudenza, e di tutte le altre qualitá insieme che fuori de’ tribunali possono farsi piú avvantaggioso luogo eziandio nelle corti, e se ne viddero poi gli effetti, perché morto Leone XI, l’elezione al ponteficato si strinse principalmente fra i due cardinali Borghese ed Arigone; e Borghese dopo che fu eletto fece una stima singolare d’Arigone.
Tornato da Ferrara papa Clemente, aveva egli fatta una nuova promozione di tredeci cardinali, e fra questi era toccato il primo luogo al cardinale Francesco Bevilacqua ferrarese, nel quale poco prima per abilitarlo tanto piú a quel grado aveva conferito il patriarcato di Costantinopoli. Erasi veduto ch’egli nell’onorare questo soggetto aveva mirato molto piú alla cittá che al soggetto istesso, giovane ancora d’etá, nudo di merito, se non quanto gliene poteva aver dato il semplice e debol governo di Camerino. Fra le case nobili ferraresi era veramente la sua delle prime, né a lui mancavano talenti d’ingegno e di lettere con altre qualitá nobili, che da principio diedero speranza ch’egli fosse per corrispondere a quella dignitá molto meglio che poi non fece, onde con applauso era seguito l’impiego nel quale poco dopo la promozione il papa l’avea inviato alla legazione di Perugia e dell’Umbria. Ma in quel governo egli non corrispose di gran lunga all’aspettazione; e quanto andò crescendo negli anni, tanto crebbe eziandio ne’ difetti, che non ebbero grandissima occasione da una parte la cittá di Ferrara dall’altra la sua famiglia d’aver a pregiarsi, quella d’esser patria e questa produttrice di un cardinale che aveva fatto sí poco onore all’una e all’altra. Scoprironsi però in altri tempi queste sue imperfezioni, ché allora quando io venni a Roma egli, come ho detto, si trovava in assai buon concetto, e perciò in altri luoghi io doverò piú opportunamente parlar della sua persona.
Ma sí come aveva la fortuna mostrato uno de’ suoi favori in portare il cardinale Bevilacqua a tal grado, cosí anco nel medesimo tempo la virtú aveva anch’ella fatto apparire i suoi nel far conseguire quella dignitá al cardinale Alfonso Visconti. Era egli uscito da quell’antichissima e nobilissima casa in Milano, e nella gioventú con gli studi e con tutte l’altre piú virtuose fatiche aveva accompagnato le prerogative del suo nascimento. Quindi venuto a Roma, passato prima per le inferiori prelature, da queste poi era asceso alle superiori e a quelle specialmente che sogliono riuscire piú conspicue per via delle nunziature. L’ultima sua in Transilvania gli aveva fatta acquistare particolarmente una somma riputazione, poiché gli era bisognato vestire l’armi piú volte, e commutare le funzioni ecclesiastiche in militari con servizio della Chiesa non minore per questa via che per l’altre. Tornato poi da quel carico aveva continuato papa Clemente a servirsi di lui in altri molto piú importanti, ed in fine aveva voluto che di tante onorate fatiche egli con l’onore della porpora ricevesse il dovuto premio; e sí come prima nell’opinione della corte era pienamente da lui meritato, cosí non si era in esso potuto mostrare maggiore l’applauso nell’averlo poi conseguito.
Succedono ora tre cardinali nella cui esaltazione si può dire che facesse tutti i suoi maggiori sforzi la virtú, perché dell’altre ne restasse confusa tanto piú la fortuna. Questi sono Domenico Tosco, Arnaldo Ossat e Silvio Antoniano, ciascuno di essi nato sí bassamente che appena se ne potevano trovare le origini, ma ciascuno all’incontro sí elevato di merito che poco bisogno potevano avere d’altra sorte di nobiltá.
Il cardinale Tosco era nato in Castellarano, terricciola ignobile de’marchesi d’Este nel contado di Reggio di Lombardia. A misura del luogo egli aveva portato con sé il nascimento, e perciò nella sua gioventú applicatosi all’armi piú che alle lettere aveva posto le sue speranze piú in quella professione che in questa; ma in modo prevalendo l’inclinazione poi a questa si diede tutto a seguitarla con le fatiche legali, e con tanto ardore l’abbracciò che in breve tempo si fece considerabile prima nel proprio suo paese e poi nelli circonvicini, e poi anco nei piú lontani. Quindi venuto a Roma vi fece risplendere le sue fatiche in maniera che da un impiego passando all’altro e sempre da questo a quello con nuovi acquisti d’opinione e di merito, egli ebbe occasione di esercitarne poi uno di molta stima, e fu d’andare vicelegato in Polonia col cardinale Salviati e per suo principal ministro massimamente nelle materie criminali, che erano le piú gravi e le piú difficili che fussero in quella necessitá, che aveva allora il legato d’usar piú la severitá che la piacevolezza nel suo governo. Cresciuta poi la fama di Tosco, crebbero in lui sempre piú ancora gl’impieghi, onde tornato a Roma non passò molto che papa Clemente gli appoggiò il principal peso della sacra consulta, la quale pure nell’istesse materie criminali ritiene la medesima autoritá in tutto lo stato ecclesiastico, e lo lasciò poi vescovo di Tivoli. Fu dal medesimo papa eletto governatore di Roma, ch’è il ministro maggiore pur similmente della giustizia criminale della corte, né si può dire quanto lodevolmente in particolare egli esercitasse quell’officio nel tempo che il papa si trattenne in Ferrara e che in luogo suo restò legato il cardinale di Aragona in Roma; onde al ritorno il papa non volle differire piú a premiare le tante fatiche di Tosco, e perciò nella promozione che seguí lo creò cardinale insieme con gli accennati soggetti, e quelli dal favor solo della virtú, come ho detto, senza partecipazione della fortuna potevano riconoscere l’esaltazione da loro conseguita. Ma in ogni modo nel secondo prossimo conclave, dopo esser mancato Clemente, volle pur la fortuna (ben si può credere che in questa parola di senso umano io intenda sempre l’alta impenetrabile ed infallibile providenza divina) far vedere uno de’ suoi soliti giuochi nella persona di Tosco prima eletto papa con maggior numero di voti che non gli facevano bisogno, e poi caduto dall’elezione stranamente in un subito, e quasi con maggior maraviglia in questo secondo successo che non si era pigliata nel primo, il quale l’aveva partorita veramente grandissima: percioché se ben’egli aveva quei meriti che potevano bastare per farlo essere cardinale, non aveva però tutte quelle parti che erano necessarie per farlo essere pontefice. Non si vedeva in lui né tal pratica di maneggi publici né tal gravitá di costumi ecclesiastici né tal concorso d’altri proporzionati ornamenti che potessero a pieno renderlo capace di un sí alto e maestoso officio; anzi ne’ costumi non avendo egli mai deposta certa libertá di parole oscene, che sogliono usarsi in Lombardia, le proferiva spesso non s’accorgendo di proferirle e vi scherzava sopra, pensando che fussero degne appunto di scherzo piú che di riprensione; ma nel resto gran dottore di legge quanto buono in giudicatura, e sopratutto gran giudice in criminale. Erasi mostrato specialmente grand’emulo del celebre Farinaccio nella conformitá della professione, degl’impieghi e del grado; e dopo non meno ancora gli si mostrò nella mole di tanti volumi dall’uno e dall’altro stampati, benché fussero con questa differenza poi ricevuti, cioè che Tosco ne’ suoi fusse riuscito uomo di fatica piú che d’ingegno, e all’incontro che Farinaccio avesse conseguita lode uguale nell’una e nell’altra parte.
E passandosi ora al cardinale d’Ossat francese, quanto inferiore si può riputare il suo nascimento a quello di Tosco, percioché al fine si sapeva dove e di qual padre e madre Tosco era nato; ma la nascita di Ossat era involta da sí tenebrose notizie che dal sapersi in fuori che la provincia di Aquitania, la quale è una delle maggiori di Francia, l’aveva prodotto, del resto il padre la madre ed il luogo del suo natale non solamente erano cose oscure ma cose del tutto ignote. Allevato dunque e nodrito dal caso, e posto in mano della virtú la quale voleva poi maravigliosamente esaltarlo, cominciò dalla puerizia a dar manifesti segni d’un’indole che pronosticava ogni piú felice riuscita in ogni sorte di lettere.
Né andò fallace il pronostico. Trasportato a Parigi, non si può dire quanto presto egli s’avvanzasse e nello studio legale e nell’altre scienze piú astruse, e in quelle parimente che sono le piú praticate e piú nobili. Alzossi ben tosto dunque una gran fama de’ suoi talenti; onde il signor de Foys, arcivescovo di Tolosa, soggetto per dottrina e virtú de’ primi che avesse il regno, dovendo venire a Roma per ambasciatore di quella corona, volle anteporre Ossat a molti altri che nell’officio di segretario gli erano proposti e caldamente raccomandati. Venuto a Roma l’arcivescovo dopo qualche anno morí, e tutto il peso del carico restò appoggiato alla persona d’Ossat. Erano turbolentissimi li tempi d’allora in Francia, diviso tutto il regno fra li cattolici e gli ugonotti, e tanto abbattuto il nome reale che appunto dal nome in poi tutto il resto consisteva in nuda e vana apparenza. Fra tante e sí oscure procelle, sí come era sparito quasi del tutto ormai il primo splendore dentro il regno, cosí non se ne vedeva né anche apparire quasi luce alcuna di fuori. Sostenne Ossat nondimeno in Roma gl’interessi della corona quanto la calamitá de’ tempi poteva permetterlo; e cosí andò seguitando sinché venne a trattarsi della ribenedizione d’Enrico quarto e della unione primiera del regno con la sede apostolica; e come non poteva essere né piú importante né piú grave per gl’interessi dell’una e dell’altra parte, cosí non poteva essere né piú faticoso né piú arduo questo maneggio. Ma in esso per la Francia tante furono le diligenze tanta l’industria e il zelo la costanza e la fede che Ossat incessantemente fece apparire nelle fatiche sue particolari d’allora, che al fine la negoziazione fu terminata con tutta quella felicitá del successo che poteva desiderarsi dall’una e dall’altra parte, né tardò piú il re in volere che Ossat intanto de’ suoi tanti meriti raccogliesse il dovuto premio. Onorollo dunque prima con un nobile vescovato in Francia, e poi con ottenergli la dignitá del cardinalato in Roma; il che seguí con sommo gusto ancora del papa, e soleva egli dire che per suo proprio motivo l’avrebbe promosso quando bene il re non l’avesse chiesto. Ma nella sua esaltazione pretendeva il signor di Villeroy primo segretario di stato allora, e che per lo inanzi aveva esercitato piú di quattro anni il medesimo officio d’Ossat, d’aver fatto le prime parti, e di ciò pregiossi egli meco piú volte nel tempo della mia nunziatura in quel regno, e quando mi nominava Ossat lo chiamava sempre il suo cardinale come se fusse stato piú suo che del re, e come se Villeroy avendo avuta nella corrispondenza di lettere con Ossat sí gran parte nelle fatiche, volesse aver participazione anche non minore nel conseguimento del premio. E non poteva Ossat in vero apparirne piú degno e per zelo di religione e per integritá di costumi, e per eminenza di lettere e per sudore di fatiche, e specialmente per quella singolare costanza d’animo e insieme di fede, ch’egli nel teatro di Roma e fra sí vacillanti successi nel regno di Francia aveva mostrato in servizio di quella corona. Era dottissimo quasi in ogni scienza, e pieno di erudizione ancora in ogni sorte di studi. Né gli mancavano componimenti nobili da publicarsi alle stampe, ma che o egli non avesse commoditá in vita di farlo o che troppo presto la morte lo prevenisse, non si vidde poi comparir in publico dopo esser egli mancato, se non un grosso volume di lettere nelle quali si contengono i suoi piú importanti maneggi nella corte di Roma, e che fanno molto bene trasparire nell’autore tutte quelle virtú, dopo morte, delle quali sí largamente egli fu ornato in vita.
Dopo il cardinale di Ossat segue il cardinale Silvio Antoniano, e con poca differenza tra il nascimento dell’uno e dell’altro, perché rimase anche in dubio se Antoniano fosse nato in Roma o che vi si fusse poi trasferito. Qui bevé il latte, qui prese l’educazione, qui la virtú lo rese pieno di merito, e qui finalmente gliene fece godere il premio. Nella prima sua fanciullezza mancogli il padre ma supplí nell’educazione la madre, pia femina e che appunto nudrí il figliuolo principalmente nella pietá. Rilusse in lui con prematuri segni l’ingegno, imparando piú di quello che gli veniva insegnato, e contro il solito dell’etá cercando piú tosto sempre che sfuggendo i libri e la scuola. Mostravasi nato specialmente alla poesia e non meno anco alla musica, e passati appena i dieci anni componeva all’improviso in italiano e sonava quasi maestrevolmente la lira. Perciò ora in un modo ora in un altro e spesso con i due talenti accordati insieme veniva chiamato da signori grandi per trattenere le conversazioni che fra loro si facevano, e fu memorabile certo d’aver egli predetto improvisamente a quel modo il pontificato in persona del cardinale Giovan Angelo de’ Medici, che fu poi Pio quarto. D’una tanta vivacitá di spirito ch’era unita con un dono singolare di modestia ebbene notizia Ercole duca di Ferrara, onde, chiamato Silvio, lo trattenne per qualche tempo in quella cittá. Quivi egli passato a piú gravi studi fece pur’anche in essi un velocissimo corso, e con tali vantaggi ora ne’ piú alti delle scienze ora ne’ piú trattabili dell’altre sorti di lettere che non si poteva conoscere dove gli facesse maggiori. Da Ferrara poi venne a Roma nel pontificato di Pio quarto, che o per memoria antica della predizione accennata o per considerazione piú grave di nuovi meriti lo pose al servizio del cardinale Borromeo suo nipote. A quel gran cardinale serví nella segretaria latina, lo seguitò a Milano, e con nuove occasioni tornò con lui nuovamente a Roma. Quivi poi egli restò, e facendolo sempre piú palese nella corte le sue virtú dal sacro collegio fu eletto segretario, e per ventiquattro anni continui in somma approvazione esercitò quell’officio. E veramente nella lingua latina e in quel genere di eloquenza egli aveva pochi uguali, o niuno almeno superiore. Componeva e con singolare puritá di parole e con mirabile chiarezza di sensi, e con esquisita circonspezione di decoro e con un naturale dono di tanta facilitá che alle volte faceva credere di ricopiare le fatiche di qualch’altro autore eccellente incognito, e non tenere le composizioni sí eleganti e sí lisciate sue proprie. Tra le cagioni di queste sue di giá tanto conosciute fatiche, e tra quella d’essersi allevato anch’egli sotto la disciplina di san Filippo e negli esercizi del loro instituto con Tarugi con Baronio e con diversi altri de’ piú qualificati che avesse quella congregazione, era egli venuto in particolar notizia e stima di papa Clemente giá molt’inanzi ch’egli fosse cardinale e poi ascendesse al pontificato. Onde asceso a questo supremo grado tirò Silvio appresso di sé incontinente e lo creò suo mastro di camera, né dopo si presentò alcun importante negozio ch’egli o non lo participasse con Silvio o dell’opera sua, per vantaggiarlo, non si valesse. Provò specialmente il papa le rare prerogative di Silvio nell’officio de’ brevi segreti che da lui fu esercitato sino alla morte e sempre con tante lodi e cosí pregiate che egli non ebbe occasione d’invidiare punto quei Sadoleti e quei Bembi che nelle segreterie latine fiorirono in servizio di Leone decimo. In questa promozione che fece nel ritorno suo da Ferrara lo creò Clemente cardinale, e continuò poi a servirsi di lui con ristesse dimostrazioni d’affetto e di confidenza e di stima. Potè godere però egli pochi anni quella dignitá, perché venne a morte prima che seguisse quella del papa, il quale ne mostrò particolar sentimento e volle darne un particolar segno ancora nel visitarlo in persona e fargli godere dalle proprie sue mani la benedizione apostolica. Io confesso d’aver fatta questa commemorazione del cardinale Antoniano con mio gran piacere, cosí per avermi voluto proporre di nuovo l’imagine delle sue virtú avanti gli occhi come per rendere alla sua memoria un nuovo testimonio della mia gratitudine con lui e col padre Giovanni Pietro Maffei sí celebre istorico, del quale parlerò in altro luogo. Erano i miei frequenti congressi in palazzo, dopo che io m’introdussi col papa, dal cardinale Antoniano specialmente, e ne ricevei sempre dimostrazioni piene di grande onore. Mi apportarono insieme gran frutto per le qualitá degli studi ne’ quali io mi esercitava. La sua modestia in particolare che discendeva alle volte a troppa umiltá, i suoi costumi che non potevano essere piú soavi, e la sua prudenza veramente ecclesiastica e non punto infetta di cortegiani artifici rendevano la sua conversazione gratissima da una parte e sommamente venerabile e fruttuosa dall’altra.
Ma qui è forza ch’io faccia riflessione sopra un amico mio gran letterato di questo tempo e di questa corte, che avendo in molte cose avuta molta similitudine col cardinale Antoniano e potendola forse aver negli onori, non abbia con prudenza maggiore procurato e di meritarli e di conseguirli: parlo di Giovanni Ciampoli nato in Toscana, di origine si bassa pur’egli che nell’etá puerile pigliato in casa di Giovan Battista Strozzi, nobilissimo di sangue in Fiorenza e non meno ancora di virtú, vi fu poi per caritá lungo tempo nudrito. Era buon poeta lo Strozzi, e della poesia dilettavasi grandemente. Al medesimo studio era dalla natura portato il Ciampoli, e con sí ricco talento che pareva nato con i versi toscani in bocca succhiando il latte. E se ne viddero in breve tempo le prove, perché egli a pena uscito di puerizia improvisava con tanta facilitá e felicitá sopra ogni materia in ottava rima che faceva restarne con maraviglia tutti quelli che l’udivano. E nella persona mia propria ne viddi un giorno il medesimo e un particolare esempio qui in Roma. Avevami papa Paolo quinto destinato alla nunziatura di Fiandra giovine ancora di ventiotto anni con soprabbondanza d’onore che suppliva molto piú le mie imperfezioni che la mia etá. Io aveva grande intrinsichezza col duca di Bracciano don Virginio Orsino capo di quella casa, signore di rarissimo ingegno e d’altre rarissime qualitá. Prima che io partissi di Roma egli volle onorarmi con un nobil pranso, al quale invitò due cardinali di stima grande: l’uno era il cardinale Acquaviva delle cui virtú ho parlato di sopra, e l’altro era il cardinale Lodovico de Torres chiamato di Monreale per l’arcivescovato che godeva di quella cittá, e che da Paolo quinto era stato promosso al grado di cardinale. Questo pure era gran litterato e gran signore mio, e poco prima egli mi aveva consacrato arcivescovo titolare di Rodi. Al medesimo pranso trovossi monsignor Roberto Ubaldini, maestro di camera allora del papa e che pochi mesi di poi fu inviato nunzio in Francia, e dopo molti anni promosso in quel regno alla porpora. Il Quarengo ch’era in quel tempo in Roma fu parimente uno de’ convitati; un altro fu monsignor Alessandro Burgi vescovo di Borgo san Sepolcro, uomo pure di stima grande in materia di lettere, e vi si trovò particolarmente Giovan Battista Strozzi nominato di sopra, e la compagnia veramente non poteva essere né piú nobile né piú erudita né piú dilettevole. Aveva lo Strozzi menato con sé il Ciampoli per servirsi di lui e del suo talento da improvisare; onde finito il pranso fu pregato lo Strozzi che gli facesse dire qualche ottava a quel modo, e non so come gli fu dato per materia che dicesse qualche cosa intorno alla mia persona ed al mio nuovo impiego. Tre furono l’ottave ch’egli compose subito e con tanto applauso di tutti noi, che uno gareggiava con l’altro in mostrarlo. Tale fu allora questo successo. Tralasciò egli poi quell’esercizio e si diede alle piú gravi scienze, ritenendo però sempre l’applicazione principale al comporre in versi toscani e in prosa latina, ma incontrò egli specialmente una somma felicitá in participare i suoi studi con due rarissimi ingegni di somma riputazione in materia di lettere, e questi furono il cardinale Maffeo Barberino regnante ora pontefice Urbano ottavo, e don Virginio Cesarino che fu poi eletto dal medesimo Urbano per suo maestro di camera, e che dopo morí in breve tempo. Aiutato il Ciampoli e favorito da questi due, cominciò a far acquisto di molta aura e di molta stima appresso la corte, e poi ad introdursi ancora negli impieghi sotto il pontificato di Gregorio decimo quinto con l’autoritá del cardinale Ludovisio suo nipote, che la godeva pienissima appresso il zio. Quindi succeduto alla suprema dignitá il cardinale Barberino, qual fortuna e felicitá maggiore poteva desiderarsi dal Ciampoli vedendo in quel grado un soggetto si eminente (come ho detto) in materia di lettere, della cui disciplina egli poteva gloriarsi tanto, e dalla cui benignitá poteva insieme tanti avvanzamenti ancora promettersi? ed in effetto l’onorò subito con l’officio de’ brevi segreti alla similitudine dell’impiego che da papa Clemente aveva conseguito Antoniano. L’onorò con un canonicato di san Pietro come pure l’aveva avuto Antoniano; gli diede altre commoditá di beni ecclesiastici, ma sopra tutto gli faceva tanta parte dell’ore piú domestiche e piú erudite che di giá cominciava la corte a pronosticargli un altro avvanzamento maggiore, pur simile a quello dell’istesso Antoniano. Dall’altro canto poi la corte che rare volte s’inganna discendeva dubbiosamente a questo giudizio, perché dalla similitudine in fuori delle cose accennate Ciampoli era poi troppo dissimile in tutto il resto, ma specialmente non poteva esser maggiore la differenza o piú tosto la contrarietá dello stile de’ brevi, e nelle composizioni dell’uno e dell’altro, quello d’Antoniano tutto candore e soavitá, pieno di concetti nobili e nobilmente distesi, pieno di gran decoro e di gran prudenza, che tutte le parti insieme non potevano essere né meglio unite né piú maestrevolmente aggiustate; all’incontro l’idea di Ciampoli tutta grande ma tumida e strepitosa, vestita spesso e come gioiellata di bellissime forme latine ma spesso ancora d’altre degeneranti nel licenzioso e nel troppo ardito stile; in somma da versi piú che da prosa, da canto eroico piú tosto che da spiegatura ecclesiastica, spesso ancora manchevole di decoro e dove ordinariamente si vedeva operar l’ingegno assai piú che il giudizio. Il medesimo si è veduto ne’ suoi versi toscani, ma non si può negare che l’ingegno in vero non sia feracissimo e che non produca miniere fecondissime di concetti, che piú scelti e meglio purgati a guisa d’oro e d’argento riuscirebbono singolari e meravigliosi. Ma tornando al suo impiego de’ brevi segreti, la corte piú non s’ingannò nella considerazione accennata, perché da vari suoi portamenti, ne’ quali si poteva dubitare s’egli mostrasse vanitá maggiore d’ingegno o maggiore imperfezione di giudizio, restò il papa cosí offeso e cosí giustamente di lui, che dopo aver egli fluttuato qualche tempo in palazzo, gli bisognò poi uscirne e vagar fuori di Roma in governi, e cadé totalmente da quelle speranze di prima che potevano con tanta ragione lusingarlo e forse con felice esito a piú alta fortuna condurlo. Dalle materie piú gravi ho voluto divertirmi a questa che ha piú del domestico, e me la permettono a pieno queste vaganti Memorie, lá dove non ho mai voluto pigliarmi questa licenza sotto le severe leggi che ho religiosamente osservato nel comporre la mia belgica istoria. Torno adunque all’interrotta mia narrazione.
Ora qui apparirá un chiarissimo lume che a’ tempi nostri ha sommamente fatta risplendere la Chiesa, la santa sede apostolica il sacro collegio la corte romana e specialmente il suo proprio regolare instituto dal quale ricevè gran parte di tanta luce, ed al quale con larga usura di gloria poi altamente la rese.
Questo splendore fiammeggiò nel dottissimo cardinale Bellarmino. Chiamossi Roberto, nacque in Montepulciano, uscí di onorevole famiglia, e sua madre fu sorella del pontefice Marcello secondo. Quanto memorabile fosse in vita e restasse in morte il nome di quel pontefice lo mostrò il suo fuggitivo pontificato medesimo, poiché per la grande opinione delle sue rare virtú communemente note allora, avrebbono voluto che si fossero commutati quei brevi giorni in altretanti lunghi anni. Da questo esempio domestico oltre agli stimoli della sua propria natura mosso Roberto, appena giunse agli anni della ragione che gli superò di gran lunga nell’indole dell’ingegno e non meno de’ costumi. Da una parte studiava con somma inclinazione e profitto, e dall’altra non faceva cosa piú volentieri che leggere libri spirituali e darsi a devote orazioni. Né qui si contenne ma da giovinetto prese in Roma l’abito de’ gesuiti e poi cominciò il corso de’ soliti studi fra loro e con tal velocitá di progressi che le scuole loro in quel tempo non avevano chi gli facesse maggiori. Dato fine all’essere discepolo fece per diversi collegi d’Italia l’ufficio di maestro, e con tale eminenza di dottrina e d’ingegno che in questa seconda qualitá non gli toccarono meno quei medesimi vantaggi sopra gli altri scolari. Ma era di giá sí grande la fama sua che le provincie forastiere volevano anch’esse participarne, onde fu mandato in Fiandra perché egli in quei procellosi tempi, fra’ quali fluttuava non meno ivi la causa della Chiesa che quella del re di Spagna, aiutasse la religione e insieme l’instituto della propria compagnia nascente allora o di fresco nata. Fermò la sua dimora in Lovanio celebre universitá e cattolichissima. Quivi egli fece meravigliose fatiche, e nel tempo della mia nunziatura vivevano ancora molti di quelli che l’avevano veduto gareggiar nelle meraviglie con se medesimo, lasciando in dubio quali fussero state piú celebri e piú fruttuose o le sue vigilie di catedra o pur quelle di pulpito! Ma nel pulpito veramente egli aveva fatto prove incredibili di rara eloquenza e dottrina e di singoiar zelo e pietá, predicando molti anni in lingua latina e specialmente con tal chiarezza e facilitá che pareva nudrito in quello studio e nato a quel solo officio, benché egli possedesse similmente con molta franchezza la lingua greca e l’ebraica, anzi questa con un tal fondamento che in essa formò una particolare sua grammatica. In tanto egli si era preparato con nuove fatiche esattissime a difendere su le carte in stampa la veritá cattolica contra l’insania eretica, e a questo fine aveva posta insieme una supellettile copiosissima di tutte le piú disputate questioni in tal genere per formarne i suoi libri di Controversie. Onde tornato a Roma si diede tutto a comporli, e riuscirno poi di quel vantaggio alla Chiesa di quell’onore a lui stesso e di quella gloria alla compagnia che la cristianitá nel riceverle con tanto applauso e venerazione ha fatto si pienamente conoscere.
Tale era il concetto generale intorno alle sue Controversie, benché non riescano tanto uniformi i giudizi che non vi siano stati ancora di quelli, fra i piú dotti cattolici e piú versati in materie simili, che avrebbono qualche volta desiderato di vederlo stringere e abbattere con forza maggiore alcuni argumenti eretici, e con maggior pienezza riportare quei tanti e sí manifesti vantaggi che poteva dargli in ogni questione la dottrina cristiana e cattolica. Meco piú d’una volta in Francia mostrò d’aver questo senso particolarmente il cardinale di Perona, quel gran cardinale, quello ch’è stato l’Agostino francese del nostro secolo, e che avendo scritto nella sua lingua con tanta eloquenza e dottrina sopra molti dell’istessa nazione con tanto onore e beneficio della Chiesa cattolica, non era meraviglia se da lui fosse desiderata alcuna cosa di piú in qualche luogo delle Controversie del Bellarmino. Che del resto lo riconosceva ancor’egli per uno de’ piú desti e piú eminenti e piú benemeriti scrittori che avesse avuta la Chiesa ne’ tempi nostri. Ma prima che Bellarmino potesse finire gli accennati libri ne fu interrotto il lavoro dall’aver voluto il pontefice Sisto quinto ch’egli andasse per teologo della santa sede col cardinale Caetano nella sua legazione di Francia: convenendo a Bellarmino occuparsi in altro in quel nuovo impiego per l’occasione ch’egli ebbe di formare alcune scritture dirette al clero del regno, affine di confermarlo sempre piú nella buona causa, e affine di combattere lo scisma che andava di giá serpendo e che suol degenerare poi sempre nell’eresia. Finita la legazione e mancati tre pontefici nello spazio d’un anno, fu assonto a quella dignitá papa Clemente dal quale Bellarmino e per la dottrina e per l’altre virtú era singolarmente stimato. Appresso Clemente faceva l’officio di particolare suo teologo il cardinale di Toledo, ch’era di giá mancato, onde in luogo di lui fu dal papa subito sostituito Bellarmino; e sí come non dubitò la corte ch’egli fusse per succedergli ancora nella medesima dignitá, cosí il papa col suo proprio giudizio, confermando quello che se n’era fatto in generale dagli altri, confermò l’opinione altrui e creò Bellarmino cardinale in questa promozione di tredeci e con tanto applauso non solo della corte romana tutta ma di tutte le nazioni forastiere, che da gran tempo inanzi né dentro né fuori di essa non se n’era veduto alcun altro maggiore. Questa era la fama, e questa insieme la dignitá che godeva il cardinale Bellarmino quando io venni a Roma. Come poi da Clemente fosse fatto arcivescovo di Capua, come reggesse quella chiesa con vita veramente apostolica, e come dopo la rinunziasse ritenuto in Roma da Paolo quinto con tutto quello di piú che potrebbe dirsi della sua esemplarissima vita fino che seguí la sua esemplarissima morte, può farlo pienamente conoscere la vita particolare di lui posta nobilmente in latino dal padre Silvestro Pietrasanta gesuita mio grande amico; il che fece egli nel tempo che si trovava in Colonia accompagnando le sue dotte e zelanti fatiche in servizio della Chiesa con quelle del nunzio Pierluigi Caraffa vescovo di Tricarico, per le sue tante riguardevoli qualitá giustamente degno non solo d’ascendere ma di essere asceso a tutte l’altre dignitá maggiori ecclesiastiche.
Nel cardinale Bellarmino finiva il numero de’ cardinali preti che sotto il collegio nuovo si comprendevano allora in Roma. Restavano i cardinali diaconi ch’erano quattro, e questi erano i due nepoti del papa Aldobrandino e San Giorgio, de’ quali si è parlato di sopra quanto bastava, e gli altri due il cardinale Bartolomeo Cesis romano e il cardinale Giovan Battista Deti nato in Fiorenza e nudrito in Roma. Intorno alle persone di questi due la corte parlava dell’uno poco bene e dell’altro malissimo.
Cesis era di casa molto nobile e principale, solita d’aver cardinali e prelati, e d’ordinario gli uni e gli altri di molto valore e di molta stima. Aveva Bartolomeo nella camera apostolica esercitato prima l’officio di chierico e poi quello di tesoriere, e con molta laude e l’uno e l’altro di loro. L’officio di tesoriere specialmente porta seco maneggio grande, richiede particolare industria e vuole insolita accuratezza. A queste parti aveva Bartolomeo sodisfatto a pieno in modo che fra i meriti della sua famiglia e quelli delle sue fatiche il papa nella promozione di sedeci aveva voluto inalzarlo al cardinalato; ma non corrispose poi egli all’espettazione che se ne aveva. Era cupo sopra modo, riservato con mille rivolte in se stesso, tutto pieno di Tacito, adoratore delle sue sentenze, con Tiberio sempre in bocca e sempre in esempio, talché dalla corte si giudicava ch’egli saria stato molto piú a proposito per la Roma d’allora che per la Roma presente. Nel resto capace d’ogni negozio, e che nelle materie camerali in particolare si rendeva ordinariamente superiore ad ogni altro nell’intenderle e nel maneggiarle.
Ma se in Cesis concorrevano molte qualitá buone e cattive insieme, niuna quasi in Deti era di quella sorte. Papa Clemente era nato da una madre di casa Deti, casa nobile di Fiorenza, e perché egli ne conservava una tenera e obligata memoria si era posto in pensiero di far cardinale uno di quella famiglia. Il piú congiunto di sangue era questo Gioyan Battista di cui si parla, ma sí fanciullo ancora nel principio del pontificato che bisognava maturarlo alquanto piú negli anni e ancora insieme negli studi. A tale effetto volle il papa ch’egli entrasse nel seminario romano governato da’ padri gesuiti, e qui vi era dimorato sino all’etá di dieciotto anni ch’era quella nella quale fu promosso. Le relazioni dovettero forse ingannare il papa, con essergli rappresentato il giovane pieno di quei talenti che gliene potevano rendere maggiore l’aspettazione, e forse il giovane stesso dal canto suo doveva occultare quanto gli fosse possibile i suoi difetti, accioché non facessero pregiudizio alle sue speranze. Ma comunque si fosse, prevalse nel papa la tenerezza ed in questa promozione di tredeci lo creò cardinale, facendolo passare in un subito dagli anni acerbi all’etá matura, da una tanta oscuritá scolaresca ad un tanto splendore ecclesiastico, e dalle incerte e fallaci speranze di riuscita a goder quel premio che i prencipi dovrebbono compartire solamente agli alti e provati meriti. Ma Clemente si pentí ben tosto di averlo esaltato. Promosso appena cominciò subito a far azioni di vita libera e tale che ben si potrebbe dire che grande fosse la disgrazia dei nostri tempi, poiché in ragione di anzianitá bisognò che il nostro sacro collegio vedesse Deti nella preminenza di suo decano portato a braccia nel concistoro una volta sola per goderne quella sola il possesso, perché poi venne a morte in brevissimo tempo. Dissi portato a braccia perché egli era stroppiato dalla podagra e pieno di mille malattie contratte per mille disordini, che gli avevano abbattute le forze sin dal tempo ch’egli avrebbe dovuto goderle piú invigorite. Quante volte io medesimo viddi papa Clemente fargli asprissime riprensioni; e quante volte lo minacciò de’ piú severi castighi! Ma torno qui a dire che la Chiesa non può finalmente perdere mai di splendore ne’ suoi gradi, benché perdono talora di riputazione quei che vi ascendono. Come nelle piú eccellenti pitture l’ombre tanto piú fanno spiccare i lumi o come nell’opere della natura gli aborti illustrano tanto piú li veri parti, cosí nelle dignitá della Chiesa l’oscuro ministerio d’alcuno rende luminoso maggiormente quello degli altri, né può abortirsi tanto mai d’imperfetto nelle persone che non resti sempre maggiore la venerazione che in esse partoriscono gli offici. Questi maggiori eccessi però di Deti seguirono dopo che io mi fermai nella corte, e ne’ pontificati seguenti; nondimeno io ho voluto accennarli qui per non vederne piú arrossir di vergogna queste memorie nel tornare a parlarne in altri luoghi e in altri tempi. E ciò basterá intorno al collegio nuovo e a quelle notizie che io ebbi di tutto il sacro collegio intiero nella prima introduzione del mio servizio in palazzo.