Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo V
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Capitolo V.
Qual informazione io avessi nell’arrivo mio a Roma intorno alla persona particolare del papa, ed a quella de’ suoi piú congiunti.
Pervenuto alla corte io mi presentai subito al cardinale Aldobrandino il quale mi ricevè con molta benignitá, e mi fece varie interrogazioni ma specialmente di Padova e di Ferrara; e fermatosi in questa mostrò particolar gusto di quello che io gli raffermai intorno alla sodisfazione che il cardinale suo collegato dava e riceveva nel governo di quella cittá. Con umanissime dimostrazioni fui accolto poi anche dal papa e da lui similmente fui quasi trattenuto nell’istessa maniera. Quindi io mi posi in abito di cameriere, e cominciai con ogni attenzione a servire. Il mio primo pensiero fu di pigliare un’esatta informazione sopra lo stato nel quale si trovava dentro e fuori del palazzo apostolico la corte di Roma in quel tempo, e la notizia che io n’ebbi fu in ristretto questa seguente.
Era di giá il papa nell’anno ottavo del suo pontificato e nel sessagesimo della sua etá. Aveva egli e prima di esser stato eletto pontefice, e dopo nell’amministrazione del supremo pastorale suo offizio, passata sempre una vita faticosissima, e nondimeno riteneva cosí gran vigore di corpo e d’animo che per commun giudizio stimavasi che egli dovesse reggere il pontificato ancora per lungo tempo. Tutte le azioni della vita privata e publica, e specialmente quelle del suo pontificato, avevano reso gloriosissimo per tutte le parti del mondo il suo nome. Era nato della casa Aldobrandina che è una delle piú antiche e piú nobili di Firenze; ma tramutatosi quel governo di republica in governo di principato, era uscito di Firenze suo padre e per lo piú trattenutosi nello stato ecclesiastico con opinione di gran giurisconsulto e con felicitá di avervi generato una prole dalla quale dovevano uscire due lumi ecclesiastici di tanto splendore, come furono prima il cardinale Giovanni e poi il cardinale Ippolito suoi figliuoli. Il primo in virtú de’ suoi meriti portato a quell’onore da un pontefice sí glorioso come fu Pio quinto, e l’altro pure in virtú di lunghe ed egregie fatiche promosso da Sisto quinto pontefice similmente di tanto nome e riputazione al medesimo onore. Nella sua inferior fortuna Ippolito era stato anch’egli come Silvestro suo padre uno degli avvocati concistoriali, e poi era succeduto all’offizio di auditor di rota che dal Cardinal Giovanni prima si esercitava. Presentatasi poi l’occasione d’essere inviato da Pio quinto il cardinale Alessandrino suo nipote a quella sí celebre legazione di Francia di Spagna e di Portogallo, s’era trovato in essa Ippolito facendo non solamente le parti che sogliono in tali casi gli auditori di rota appresso i legati, ma quelle di ministro principale in tutto il negozio che portò seco una sí gran legazione. Quindi creato egli cardinale e datario da Sisto quinto, nella continuazione delle sue fatiche erasi da lui fatta apparire sempre ugualmente ancora la continuazione della sua virtú. Uscito poi d’Italia, ed inviato dal medesimo pontefice alla legazione di Polonia, non si può dire con quanto onore della santa sede e con quanta gloria di se medesimo egli sodisfacesse alla scena publica di quel sí grave e sí importante maneggio; e non passò molto che dal grado di cardinale fu esaltato alla dignitá pontificia.
In questo spazio di tempo che era scorso fin’alla sua andata a Ferrara, aveva egli particolarmente con tre memorabili azioni conseguita un’amplissima gloria: con la prima in riunire la Francia alla santa sede; con la seconda in pacificare insieme le due corone; e con la terza in ricongiungere lo stato di Ferrara alla sede apostolica. Tutte le altre azioni del suo governo erano state pur’anco di gran zelo piene, e di gran prudenza. E perché nell’imperio spirituale consiste la grandezza principalmente e la maestá del pontificato, perciò in questa parte di governo aveva procurato egli, e procurava con ogni attenzione, che la Chiesa facesse ogni di nuovi acquisti o che non sentisse almeno nuove perdite. Tra i cristiani scismatici d’Oriente dove regna per lo piú il rito greco cercava d’introdurre e di stendere quanto piú si potesse il rito latino, e poneva specialmente grandissima cura affinché nelle parti settentrionali, dove li popoli sono piú infetti delle nuove eresie, potesse ricevere ogni maggior vantaggio l’antica religione cattolica. Con oggetto pur di servire alla Chiesa cattolica aveva somministrato e tuttavia somministrava aiuti importanti all’imperatore nella guerra d’Ungheria contro il turco; e per servizio particolare della santa sede usava ogni studio per mantenersi e con lui e con gli altri prencipi cattolici in ogni migliore corrispondenza, affinché essi e nelle persone loro proprie e in quelle de’ loro popoli conservassero tanto piú la riverenza dovuta verso la Chiesa romana, e potesse egli appresso di loro tanto piú ritenere con l’affetto di padre unitamente l’autoritá di pastore. Ma non si può esprimere la cura che da lui si era applicata particolarmente nel riformare diverse famiglie religiose tra le quali ne appariva maggiore il bisogno. A tal fine egli aveva eretta una nuova congregazione con titolo di riforma; a tal fine chiamati e ritenuti in Roma prelati insigni, e mosso pure da questo fine scordandosi in certo modo dell’eminente suo offizio e della propria maestá di se stesso, aveva voluto alcune volte sino abbassarsi a deporre la sua persona e a vestire quella, per cosí dire, d’ogni piú commune superiore claustrale, e trasferirsi egli medesimo ne’ luoghi rilassati, e quivi cogli occhi propri certificarsi meglio de’ correnti disordini a fine di poterne trovare in questa maniera tanto meglio e piú aggiustatamente i rimedi. Questi erano i discorsi piú rilevanti e piú generali che si facevano allora intorno alle azioni del papa, di quelle azioni però che riguardano il governo spirituale della Chiesa. Ma non minori erano le laudi che gli si davano per l’altra parte, che aveva riguardo al governo temporale di Roma e dello stato ecclesiastico. Egli faceva fiorir grandemente l’abbondanza la giustizia e la quiete. Nell’amministrazione della giustizia egli aveva voluto seguitare le massime severe piú tosto che le piacevoli, e piú tosto imitare in questa parte il governo rigido di Sisto quinto che il troppo indulgente di Gregorio decimoterzo, che erano li due piú vicini esempi di quei pontificati che erano allora stati piú lunghi; nel che egli si proponeva per fine principale, che essendo Roma patria commune di tutte le nazioni cristiane, potessero tutte abitarvi con ogni piú soave e piú placida sicurezza. Per sodisfare all’uno e all’altro governo, usava egli una somma vigilanza e fatica, benché procurasse che l’occupazioni gli riuscissero men laboriose con renderle quanto piú poteva ben ordinate. E distribuiva il tempo in questa maniera: ogni lunedí trovavasi in concistoro; il martedí faceva la signatura di grazia; il mercordí andavano all’audienza alcuni de’ suoi piú adoperati ministri; il giovedí egli interveniva alla congregazione del sant’officio; e tutte queste funzioni seguivano la mattina. Gli altri due giorni del venerdí e del sabbato si compartivano parte la mattina e parte la sera fra gli ambasciatori e residenti de’ prencipi, e non mancavano altre funzioni o di cappelle o d’altra qualitá ne’ giorni festivi delle domeniche; né rimanevano oziosi quei dopo pranzo de’ primi quattro giorni accennati, perché in essi ancora egli dava con molta facilitá molte audienze ordinarie e straordinarie; ma specialmente nel giorno che precedeva alla signatura. Usciva egli spesso in una grande anticamera, e quivi riceveva dalle parti medesime l’informazioni delle materie piú gravi che si dovevano riferire la mattina seguente; e poi in camera egli stesso le studiava, oltre che in quella sorte d’audienza publica fino che vi era tempo egli similmente sopra altre materie la dava a chi la voleva. Negli ultimi anni andò poi allentando l’audienze, a misura che per l’etá per le fatiche e per l’indisposizioni si andava diminuendo in lui il vigore delle forze.
Pativa egli di podagra e di chiragra, e da queste riceveva anche molestia perché l’impedivano gran fatto nelle sue ordinarie funzioni. Quando soverchiamente non l’affligevano celebrava ogni mattina la messa, e con una devozione si viva, che nelle preghiere segrete in particolare raccogliendosi e per lungo tempo fermandosi tutto in se stesso, gli si vedevano allora cader lagrime abbondanti dagli occhi che gli uscivano anche molto piú abbondantemente dal cuore. Per tal uso continuo era egli solito di confessarsi ogni giorno, e però il cardinale Baronio suo confessore veniva ogni sera a tal effetto a trovarlo. A quel devoto ministerio esteriore aggiungeva in secreto frequenti digiuni ferventi orazioni insolite penitenze, e tali che sarebbono state esemplari in un semplice religioso non che in un supremo pastore della Chiesa di Dio. Mostravasi tutto pieno di caritá verso i poveri, e distribuiva larghe elemosine a favor loro. Durò un tempo che all’ora medesima del suo pranzo egli faceva desinare nell’istessa camera dodeci poveri che rappresentavano i dodeci apostoli, e da lui come da vicario di Cristo veniva loro data la benedizione apostolica: poste loro inanzi le prime vivande, e poi andava egli a tavola dove a pena si tratteneva quanto bastava per l’uso naturale, che subito ritornava alle sue grandi occupazioni.
Gli diede l’anno santo d’allora particolarmente l’occasione di mostrare in vari modi la sua liberalitá verso i poveri, e la sua devozione in esercitare gli atti spirituali, e non meno la sua generositá in accompagnare tutte queste azioni col dovuto splendore temporale; ma di queste memorie parlerò in altro luogo. Dalla podagra in fuori godeva egli molto prospera sanitá. Era di commune statura, di complessione tra sanguigna e flemmatica, di grave e nobile aspetto, di corpo eccedente un poco il ripieno, e di moto per cagione della podagra alquanto impedito; parco nell’uso del cibo e non meno ancora del sonno, trattabilissimo di natura, ma pieno insieme di gran decoro in ogni sua azione privata e publica, ma sopra tutto sí dedito naturalmente al negozio che si poteva stare in dubio se egli o piú si consumasse o piú si nutrisse nella fatica. Queste erano le considerazioni principali che si facevano allora intorno alla persona di papa Clemente.
E senza dubio per commun senso venivano giudicate segnalatissime le sue qualitá per formare quell’unico e mirabil composto di principato ecclesiastico e temporale, che si congiunge insieme ne’ romani pontefici e che gli fa si altamente stimare e riverire quando il governo loro fa prevalere la parte spirituale con la proporzionata misura alla temporale, cioè la parte divina a quella che è tutta umana, i tesori celesti alle cupidigie terrene; e quando insomma da loro vien dato alla Chiesa quel che tanto superiormente in primo luogo è dovuto alla Chiesa, vedesi che dal governo spirituale nasce la grandezza maggiore del pontificato. Roma per tal rispetto stende ora piú largamente il suo imperio ecclesiastico che in altri tempi non dilatava il profano. Quindi nasce ch’ella non è patria solamente di se medesima o della sola Italia, ma ch’ella di sé formi, per cosí dire, un mondo spirituale, che la fa generalmente divenire patria commune di tutte le battezzate nazioni. In questo riguardo esse la frequentano, i prencipi loro la riveriscono, ed all’oracolo della religione che qui risiede tutti i fedeli devotamente ricorrono; e perciò non è meraviglia se un pontefice di tanto zelo e di tanta prudenza come era Clemente ottavo con ogni spirito procurava d’esercitare quanto piú perfettamente poteva questa parte del suo supremo pastorale officio.
Ma benché egli con l’aiuto di tante virtú cercasse di restare libero dagli affetti umani, con tutto ciò non era possibile che ora in un modo ora in un altro questi nemici interiori non l’assalissero e insieme non l’agitassero; né potevano fargli guerra maggiore che accender quella che dopo il ponteficato era seguita e durava tuttavia dentro della sua casa propria fra i due cardinali nepoti: l’uno era il cardinale Pietro Aldobrandino figliuolo d’un suo fratello come fu accennato di sopra, e l’altro il cardinale Cinzio Passero che gli era nipote per via di sorella. Aveva il papa differito piú di due anni a crear cardinali questi nipoti, né aveva voluto promoverli soli ma in compagnia di due altri, cioè del cardinale Sasso, prelato benemerito per lunghe fatiche da lui fatte in Roma, e del cardinale di Toledo, gesuita teologo e predicatore insigne, col quale aveva il papa molti anni avanti mantenuta sempre una particolare e stretta amicizia. Era nato in Roma Pietro, e passava poco piú di venti anni nel tempo che il zio era asceso al pontificato. Inanzi a quel tempo non si trovava egli quasi in alcuna sorte di conoscenza non che di stima; vedevasi appresso il zio rare volte, ombratili erano i suoi studi e non meno ombratile in tutto il resto anche allora la vita. Dall’altra parte Cinzio superando notabilmente Pietro negli anni, lo superava ancora di gran lunga appresso la corte nell’opinione, la quale era che ascendendo il zio al pontificato non in Pietro ma in lui dovesse cadere il maggiore e piú importante maneggio. Era egli nato in Sinigaglia cittá della provincia d’Urbino, e tirato dai zio appresso la sua persona e uscito con onore dalli studi, era andato con lui in Polonia, e al ritorno tanto piú si era introdotto e negli occhi e nell’accennata opinione della corte. Giunto poi il zio alla dignitá pontificia e durando piú che mai l’istesso concetto, erasi giudicato che il papa non avendo altro nipote della propria sua casa che Pietro, l’avrebbe impiegato nella professione secolare e l’altro nell’ecclesiastica. Quindi promossi al cardinalato ambedue, si era pur anche stimato communemente che Cinzio, come di maggior etá e stimato di maggior attitudine, dovesse prevalere a Pietro nell’amministrazione del governo. Riteneva Pietro il suo natural cognome d’Aldobrandino, e Cinzio aveva preso il titolo di San Giorgio, ch’era la chiesa titolare assignatali nella sua promozione al cardinalato. Dunque standosi nella sudetta opinione, si era voltata la corte al cardinale Cinzio particolarmente. Lá portavansi i prelati, lá il resto de’ cortegiani, lá si nudrivano le speranze; ed a quella parte piegavano ancora gli ambasciatori e gli altri ministri de’ prencipi, sperando che fossero per vantaggiare il negozio col maneggiarlo per quella via dove appariva piú vantaggiosa l’autoritá. Né mancava Cinzio a se stesso, ma con officiose maniere procurava di conciliarsi la volontá della corte, ed in ogni altra piú conveniente forma di mantenere ed accrescere il concetto che si aveva delle sue qualitá. Mostravasi specialmente gran parziale de’ litterati, faceva accademia di lettere nelle sue stanze del Vaticano, ed aveva tirato appresso di sé in particolare Torquato Tasso, il quale con nuova fatica gli aveva dedicato il suo famoso Goffredo, che prima correva sotto gli auspici dell’ultimo duca di Ferrara Alfonso d’Este.
Ma la corte, che suole ingannarsi di raro, s’ingannò quella volta notabilmente, perché il papa dando il giusto diritto al sangue, dopo aver manifestamente veduto crescere prima a poco a poco il maneggiabil talento in Pietro cogli anni, aveva fatto in lui crescere di poi a poco a poco il maneggio, e poi sempre con maggiori vantaggi, e finalmente con tal superioritá in ogni cosa che nel mio arrivo alla corte il ministerio del ponteficato si maneggiava dal cardinale Aldobrandini con autoritá sí grande che al cardinale San Giorgio veniva a restarne solo una ben debole e vana apparenza. Con occasione dell’impiego che particolarmente Aldobrandino aveva avuto nella devoluzione di Ferrara, non si può dire quanto egli appresso il zio si fosse avanzato e di stima e di grazia e di autoritá. Mutatasi dunque affatto la scena, quanto piú si vedevano deserte prima le stanze di Aldobrandino tanto piú restavano allora deserte le stanze dove abitava San Giorgio. In quelle di Aldobrandino era tutto il concorso, tutto il corteggio e tutto quello anelante contrasto che faceva gareggiare insieme la corte nell’ambire la sua grazia e di procurare gli avanzamenti col suo favore. Aveva Aldobrandino allora intorno a’ trent’anni. Eragli stata poco favorevole la natura in formarlo e di picciolo corpo e di poco nobile aspetto. Restavagli molto segnata la faccia dalle varole, e aveva molto offeso il petto ancora dall’asma; e l’imperfezione di questa parte ne cagionava un’altra alla voce che nasceva torbida per tal cagione invece di uscir chiara, e faceva che si avessero da indovinare molte parole invece d’intenderle. Quindi ancora nasceva l’accendersi in lui di maniera alle volte la tosse che tutto il volto se gli infiammava e notabilmente l’anelito ne pativa; ma nondimeno godeva egli tutta quella sanitá che bastava per sostenere il peso delle fatiche, le quali non potevano quasi essere maggiori, né gli mancavano l’altre qualitá per un sí gran ministerio piú necessarie: vigilanza industria consiglio vigore d’ingegno e costanza d’animo. Procurava d’apparire anco zelante ecclesiastico, ma per commune giudizio prevalevano però in lui di gran lunga le cupiditá temporali. Vedevasi che egli troppo amava le dipendenze assolute, e che non favoriva se non chi le professava, cupido sopra modo ne’ sensi, avido sempre piú dell’autoritá, e di maniera poi acciecato negli ultimi anni dal desiderio di possederla che usandola non come prestata ma come propria, e confusi troppo nel resto anco i termini del governo, pareva ch’egli a favor della sua casa e di se medesimo si considerasse ministro supremo di un principato temporale e non ecclesiastico, ereditario e non elettivo, di longa e stabile e non di transitoria e breve durata.
Quanto al cardinale San Giorgio, egli aveva intorno a’ quarant’anni allora di etá; uomo di commune presenza e di giusta corporatura, grave e misurato assai di costumi, e però tardo assai piú che vivace all’opere, ma pieno però di sensi e concetti nobili ch’egli avrebbe meglio forse ancora scoperti, se quanto gli bisognava dentro di se medesimo ritenergli tanto avesse potuto nelle azioni esterne piú chiaramente manifestarli. Fra questi due nepoti passava grand’emulazione e discordia, come fu accennato di sopra, ma stava però la dovuta simulazione fra loro. E benché Aldobrandino fusse di tanto superiore in tutto nel maneggio, nondimeno a San Giorgio restavano molti nobili impieghi. Era egli legato d’Avignone, era prefetto di signatura di giustizia, e di tutte le nunziature egli ne riteneva la metá sotto il suo ministerio; e per salvare almeno l’esterne apparenze aveva voluto il papa che gli ambasciatori e ministri di prencipi, dopo aver negoziato con lui e con Aldobrandino, facessero con San Giorgio ancora il medesimo.
In compagnia pur sempre andavano i due nipoti all’udienze del papa, in compagnia negoziavano con lui, intervenivano alla sua messa, e ritornavano alle loro stanze, dividendosi dove era necessario l’uno dall’altro prima di ritirarsi. Ma ciò seguiva con differenza notabilissima d’accompagnamento e corteggio; non era seguitato San Giorgio se non dalla semplice sua famiglia o da pochi altri, lá dove le stanze d’Aldobrandino erano da un infinito concorso inondate, gareggiando la corte nell’industria del farsi vedere e molto spesso per la gran moltitudine non dando luogo una faccia all’altra di potersi scoprire. Amava egli questa sorte d’ossequio, benché tanti e tanti consumandovi il tempo non miglioravano le speranze; e tal’uso, che allora o fu cominciato o fu invigorito, continuò di poi in maniera che i prelati, lasciando gli studi e servendo al corteggio, hanno poi fatta sempre una gran perdita di quelli, senza che punto loro giovi il piú delle volte l’ambizione che vanamente mostrano in questo.
Ma qui è forza che io esclami: o vane speranze degli uomini! o caduche felicitá della terra! dove sono ora l’Aldobrandine grandezze? dove quei tanti lustri o piú tosto secoli destinati a perpetuarle? dove quei cinque nipoti del cardinale che tante volte io vidi per l’anticamere e nell’udienze e nelle camere del papa lor zio? dove le parentele di tanto strepito? l’amicizie, l’aderenze? le fatiche di tanta spesa, e l’altre sií vantaggiose prerogative di una tanta e sí presto svanita fortuna? Miete indistintamente la morte con l’inesorabile sua falce, ed abbatte ogni vita umana ogni esaltazione terrena. Morí il cardinale Aldobrandino, sono morti i cinque nipoti che avevano due altri cardinali fra loro; mancarono tutti li maschi di quella casa, e mancò finalmente con essi ogni successione e insieme ogni grandezza del sangue lor proprio; onde si potrebbe dire che sparisse quel nuovo splendor di fortuna quasi prima che lampeggiasse. E quanti altri esempi potrebbono addursi di altre simili grandezze pur estinte quasi prima che nate?
E parlando ora de’ sudetti cinque nipoti, questi erano figliuoli d’Olimpia, ch’era sorella del cardinale Aldobrandino e sorella unica e ch’egli unicamente amava. Olimpia aveva per suo marito Giovati Francesco pur di casa Aldobrandina, ma in grado assai remoto da quella del papa; nondimeno per convenienze particolari questo matrimonio si era contratto, e n’era poi uscita una prole copiosa di maschi e femine. E perché il cardinale aveva voluto ritenere in sé la maggior grandezza ecclesiastica, perciò in Giovan Francesco in Olimpia e ne’ loro figliuoli erasi da lui voltata intieramente la temporale. Inanzi al pontificato aveva Giovan Francesco atteso piú a trattar negozi domestici che maneggi di corte, ma trovatolo poi bastantemente capace in questi e in altri, l’avevano il papa ed il cardinale ammesso alla communicazione di tutte le cose piú gravi, fattolo generale dell’armi, speditolo per negozi gravi in Spagna, e finalmente creandolo generale dell’armi ecclesiastiche non piú di titolo ma d’essenza, l’avevano inviato fin d’allora due volte in Ungheria con numerosa e fiorita gente in soccorso dell’imperatore contro il turco. Questi maneggi dentro e fuori di Roma e la congiunzione sí stretta del sangue, e piú ancora di confidenza ch’egli aveva col cardinale, faceva grandemente frequentare la casa sua e riverire la sua persona. Era egli d’etá matura ma di complessione forte, aveva molto piú del rozzo che del trattabile, ritenendo tuttavia un animo che piegava all’angusto, mostrava spiriti molto piú convenienti alla passata che alla presente fortuna. All’incontro venivano commendate grandemente le qualitá della moglie: era di nobil presenza, ornata di molte virtú, e d’un giudizio particolarmente che la rendeva superiore all’etá e piú ancora al sesso; degna di esser uomo e di fare nel pontificato le prime parti, forse ella piú che il fratello; e degna almeno certo di non essere tanto infelice come ella fu, nel vedere con vita sí breve tutti i figliuoli maschi, e con una successione sí cadente, ch’ella prima di mancare la vide giá moribonda o del tutto morta.
Questa era in ristretto la scena dentro al palazzo del papa e fuori di esso nella casa degl’altri suoi piú congiunti, quando io venni a Roma e cominciò la mia prima introduzione alla corte.