Memorie (Bentivoglio)/Libro primo/Capitolo IX
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Capitolo IX.
Qual fosse il mio servizio in palazzo,
e con quali persone io conversassi piú di ordinario
. Tornando dunque a me stesso ed alla mia introduzione in palazzo, il mio servizio era questo.
Ogni mattina ordinariamente concorreva all’anticamera del Cardinal Aldobrandino tutta la corte per accompagnarlo di sopra all’udienza del papa. Quivi ancora mi trovavo io continuamente, e quivi in poche mattine tutta la conobbi e da tutti fui conosciuto.
Di tre in tre giorni mi toccava di stare nell’anticamera del papa alla sua portiera insieme con due o tre altri camerieri segreti per andargli portando le ambasciate secondo il bisogno. In ciò consisteva il servizio ordinario.
V’erano poi le cappelle e concistori, l’uscite alle devozioni, e occorrevano altre straordinarie funzioni le quali aggiungevano qualche occupazione di vantaggio. Ma tutte insieme non rendevano mai si occupato il servizio che non mi restassero ogni giorno molte ore di libertá. Queste cominciai, a distribuirle in maniera, che dandone quella parte che io doveva alla corte, potessi riservarne alcune sempre ancora agli studi. Era il mio fine allora veramente di continuare in quel modo qualche tempo a servire in palazzo, e durando troppo quel pontificato, alla mutazione del seguente pensavo di mettermi anch’io poi in prelatura e caminare per le vie ordinarie o degl’impieghi dentro alla corte o fuori ne’ governi dello stato ecclesiastico o con l’uscire d’Italia, e a questo mi portava singolarmente fin d’allora il mio genio, d’essere adoperato in qualche nunziatura della sede apostolica. E perché in tutte queste sorti d’impieghi è necessaria la professione legale, e per esercitare le nunziature bisogna ben’ancora possedere l’altre sorti di lettere che riguardano la vita civile e i maneggi del mondo, perciò non tralasciai punto né quegli né questi studi, ma tramezzando gli uni con gli altri, a ciascheduno d’essi io dava il suo tempo rubandone spesso al sonno quando ne rubava a me troppo la corte. Io avevo in mano scambievolmente ora i libri che insegnano l’uso delle materie legali piú praticate nella corte di Roma ora quelli che ammaestrano piú nelle materie morali e politiche, e prendevo sommo diletto in particolare come accennai da principio nella recognizione delle istorie; con le antiche io univa le moderne, le latine con l’italiane, e con tutte un particolare studio in geografia senza il cui lume sempre si camina al buio ne’ libri istorici. In Padova Galileo Galilei, matematico allora di quella universitá, l’Archimede toscano de’ nostri tempi, aveva all’abbate Cornaro ed a me unitamente esplicata in privato la sfera, e Dio sa quanto mi dolse di vederlo riuscire un Archimede cosí infelice per colpa di lui medesimo in aver voluto publicare sulle stampe le sue nuove opinioni intorno al moto della terra contra il vero senso commune della Chiesa. Opinioni che lo fecero capitare qui nel santo offizio di Roma dove allora io esercitavo un luogo di supremo inquisitore generale, e dove procurai d’aiutare la sua causa quanto mi fu possibile.
In Roma mi nacque occasione d’aver subito in geografia per maestro il Boccalino versatissimo in quella sorte di studi, e che insieme era gran politico, ma in particolare grande anatomista e minuzzatore di Tacito, e che n’ha trasfusa l’anima per cosí dire nel suo finto re Apollo e fattone correre la dottrina per tutto quel suo gazzettante imaginario e si misteriosamente burlesco Parnaso, benché a lui ancora quei misteri burleschi costassero molto cari per l’opinione ricevuta communemente, ch’egli per tal rispetto mancasse in Venezia di morte eccitata piú che di naturale. Cosí pericolosi sono d’ordinario i piú grand’ingegni quando il giudizio non gli regge e la bontá insieme non gli accompagna.
Nel palazzo apostolico abitavano allora tre cardinali di eccellente virtú e di somma riputazione, e questi erano Baronio, Antoniano e Bellarmino. Ciascheduno di essi per occasione de’ loro offici o per altre straordinarie occorrenze si trovava col papa molto frequentemente: Baronio ogni sera, come accennai giá di sopra, per confessare il papa che si preparava ogni dí a quel modo per la messa del giorno seguente; Antoniano, per l’offizio che esercitava de’ brevi segreti, veniva all’udienza quasi ogni giorno ancor’egli, e Bellarmino come teologo vi compariva pur molto spesso; onde io ebbi questa occasione d’introdurmi nella conoscenza loro e di riceverne insieme quelle dimostrazioni di benignitá e d’onore che potevano essere proporzionati alla mia etá giovenile di allora ed alla riverenza che io usava con tali soggetti, che per gli anni per le virtú e per la fama erano appresso ognuno i venerabili. Faceva ciascuno di essi una vita veramente apostolica, tanto era moderato il numero de’ loro famigliari, tanto positivo in tutto il resto ancora del servizio loro, e tanta la modestia e l’umiltá dell’antecedente vita passata che traspariva nell’aggrandita loro condizione presente. Era piú domestico però degli altri nella conversazione Antoniano come quegli che molto piú aveva praticata la corte, che piú intendeva i raggiri, che piú aveva maneggiato i libri ameni e di poesia e d’altre fiorite lettere. Io presi per questa cagione maggior intrinsichezza con lui, e principalmente in materia di studi, e posso dire che dalle sue stanze io ne riportassi sempre qualche frutto particolare alle mie. Per occasione di esser stato segretario del sacro collegio tanti anni si era trovato egli in molti conclavi, e di quei successi discorreva con gusto particolare. Mostrava specialmente in quanti modi vi si affaticasse l’industria umana, e in quanti vi apparisse all’incontro e vi prevalesse ordinariamente la providenza divina.
Abitava allora nel medesimo palazzo apostolico il padre Giovan Pietro Maffei gesuita, fatto celebre dall’Istoria dell’Indie e non meno dalla Vita di sant’Ignazio, composte l’una e l’altra in latino da lui molto innanzi e con generale approvazione ricevute. Altre minori fatiche in latino e similmente in toscano aveva pure egli fatte e conseguitane a proporzione la medesima laude; onde in materia di stile istorico la compagnia de’ gesuiti non aveva allora soggetto piú stimato di questo. Perciò il papa chiamatolo a Roma perché descrivesse l’azioni sue che fussero piú degne di memoria cosí avanti come dopo il pontificato, l’aveva con segni di stima particolare fatto ricevere in palazzo e provedere di stanze e di quanto gli poteva essere piú necessario per godere ogni piú onorevole e piú commodo trattenimento. Innanzi al mio arrivo non molto era seguito il suo; ed a punto egli aveva di giá cominciato a mettere le mani all’opera, ma prevedevasi ch’egli difficilmente avrebbe potuto condurla a fine perché di giá si trovava molto aggravato dagli anni e tanto dalle fatiche fatte nelle composizioni passate che il vigore manifestamente gli mancava per altre nuove presenti. Era egli di sua natura tardissimo nel comporre, o per meglio dire, la natura delle sue composizioni gli faceva usare una sí gran tarditá per l’esattezza ch’egli usava particolarmente nel collocare le parole insieme, accioché venisse in quel modo a nascere quell’eccellente armonia di numero col quale ordinariamente si vede correre ogni suo periodo. Io aveva di giá letto in buona parte le cose sue, onde mi strinsi ben presto in amicizia con lui; ed in palazzo questa era la piú frequente mia conversazione e di maggior frutto in materia di lettere. Veniva egli spesso alle mie stanze ed io spesso andava alle sue con la mia carrozza, insieme con altri amici godevamo la ricreazione ora d’uno ora di un altro giardino. Mostrava egli a me le composizioni sue da maestro, ed io a lui le mie da scolaro. Godevo de’ suoi documenti; gli osservavo come tante lezioni e gli riverivo come se quei famosi latini del secolo d’Augusto con le proprie loro bocche me gli avessero proferiti. E veramente in materia di puritá latina il Maffei al giudizio de’ piú versati in tal professione potrebbe capire anch’egli molto bene tra i piú scelti e piú lodati scrittori di quel tempo felicissimo. Il numero è tanto canoro particolarmente che forse in questa parte egli averebbe potuto anco in quella scelta portare il vanto. Nelle descrizioni sopratutto è mirabile, e veramente non si può dire ch’egli descriva le cose ma le dipinga, anzi che non le dipinga ma le imagini loro con piú chiara espressione agli occhi stessi ne sottoponga. E ben si conosce che egli avviva con le descrizioni e principalmente abbellisce e illustra il suo corpo istorico, procurando in questa maniera di supplire a quello che in esso manca di piú nobili e piú alte materie civili e militari, per non aver somministrati alla sua Istoria quelli andamenti e quasi sempre uniformi successi dell’Indie, come averebbono fatto questi della nostra tanto piú bellicosa e piú politica Europa; e quindi nasce medesimamente che nella sua Istoria di raro si trovino consulte di stato e di guerra e in conseguenza di raro concioni per disputare sopra le materie correnti dell’una e dell’altra parte; materie nondimeno che apportano il maggior frutto a chi legge e insieme la maggior gloria a chi scrive, quando le consulte sono ben introdotte e con efficaci e vibranti ragioni sono maneggiate, benché a dire il vero in quelle poche orazioni che fa il Maffei non si vede quel talento a gran pezzo ch’egli mostra nelle altre parti. Sono languide per lo piú e snervate, non hanno quasi niente dell’eccesso e del tragico, ché gli argomenti non sono vibrati con forza ma con fiacchezza, e le ragioni servono ad insegnare quasi piú tosto che a movere. E veramente in questa parte delle consulte bisogna che lo scrittore anch’egli vi sia disposto dal canto suo con l’ingegno, e con il piú raffinato delle corti e del secolo. Onde non è meraviglia se le persone religiose in queste materie non portano con loro queste attitudini che dall’umil’aura de’ claustri e delli esercizi ombratili delle scuole si difficilmente possono ricevere. Ma tornando alle descrizioni del padre Maffei, una delle piú belle e piú nobili vien riputata quella ch’egli fa di Venezia nella Vita di sant’Ignazio quando quel santo passò per quella cittá nella sua andata in Gerusalemme. Veramente non può esservi piú al vivo né con maggior pompa delineato e colorito un sí meraviglioso teatro. Io recitavo a mente alle volte quella descrizione al buon vecchio in competenza di quella sí famosa del Sanazzaro in versi Latini, con tanto suo gusto, ch’egli mi abbracciava, e tutto s’inteneriva. In capo a due anni egli poi venne a morte. Fu grand’uomo e sommamente stimato nella prosa latina. Fu grande mio amico, ed io ne ho mantenuta sempre una viva e affettuosa memoria. Nel resto egli condusse poco innanzi la tessitura dell’opera che il Papa desiderava, e perciò rimase infruttuoso del tutto il suo impiego. Ma con l’occasione di aver parlato del padre Gio. Pietro Maffei Gesuita, e d’aver candidamente soggiunto quello che io sentiva intorno alla sua istoria dell’Indie, non posso restare che non parli di un altro piú moderno istorico pur Gesuita, cioè del padre Famiano Strada; e che insieme con l’istesso candore non mostri, ma un poco piú largamente, qual sia il mio senso intorno alla sua istoria di Fiandra.
Dopo una affettazione lunghissima, che è giunta ormai a trenta anni, non si è veduto uscire se non la prima Deca di quest’opera sino al presente, e confesso che sebbene l’autore è mio amico, e da me viene grandemente stimato, non posso far di meno ch’io non concorra sopra di ciò nel comune giudizio delle piú erudite e piú gran persone, dalle quali viene giudicato che un tal componimento serva alle scuole molto piú di quello che insegni, e che in tutto il resto eziandio l’autore di gran lunga non osservi come dovrebbe i precetti istorici. E veramente sopra questa materia toccante i precetti, nasce maraviglia grande il vedersi che prima l’autore nelle sue prolusioni ricevute con tanto applauso gli abbia cosí bene insegnati, e che poi nella sua istoria gli abbia cosí imperfettamente eseguiti.
Il maggior difetto in particolare che si consideri, è che l’autore di cognome Strada, esca tanto di strada (per alludere al cognome suo proprio), cioè tanto fuori della principale narrazione istorica, avendo egli composto un’istoria di Fiandra sì vagante fuori di Fiandra che è bisogno necessariamente concludere quasi, o che il titolo di essa non corrisponda alla qualità de’ successi o che non siano proporzionati alla qualità del titolo.
Comincia il primo libro dalla rinunzia che fece l’imperatore Carlo quinto di tutti li suoi regni e stati al re suo figliuolo, e finisce il decimo nella morte di don Giovanni governatore di Fiandra e figlio naturale del medesimo Carlo. Ora mentre al principio i lettori aspettano con impazienza d’esser quanto prima introdotti alla cognizione di quei memorabili successi di Fiandra che l’autore sí largamente promette, eccolo uscire da quelle provincie quasi prima d’entrarvi, eccolo accompagnare l’imperatore a Spagna, rinchiudersi con lui quasi per due anni che visse nella solitudine di San Giusto, raccontare le sue minute azioni, riferire piú minutamente quelle che hanno piú della semplicitá e devozione claustrale, e dopo essersi fermato ivi con lui sinché segui la sua morte ritornare in Fiandra, porsi finalmente alla narrazione interrotta prima, si può dire, che principiata delle cose proprie di quei paesi. Ritornato ch’egli è, scrive molto nobilmente invero e con molta esattezza lo stato nel quale si trovavano allora le provincie di Fiandra. Parte il re poi verso Spagna e lascia al governo di quelle provincie di Fiandra la duchessa di Parma, e pure mentre che si aspetta che l’autore sèguiti la narrazione cominciata, egli se ne divertisce in un subito con narrare la vita della duchessa sino a quel tempo, e lo fa si prolissamente che fra la prima digressione toccante l’imperatore e questa seconda potrebbe dirsi che il primo libro fusse un libro quasi di particolari vite piú tosto che vera e legitima istoria di affari publici.
Ne’ seguenti libri vedesi pur’anche il medesimo. Al prencipe di Oranges ne viene fatta come una vita particolare, un’altra poco dopo al cardinale Granuela, un’altra alla principessa Maria di Portogallo, e cosí di mano in mano secondo i luoghi: al duca d’Alba, a Carlo prencipe di Spagna, al commendatore maggiore, al marchese Vitelli, al duca di Parma Ottavio Farnese unitamente col prencipe suo figliuolo, e infine a don Giovanni, e quest’ultima con sí prolisse minuzie e alcune di loro sí claustrali, che un separato e ben sostenuto componimento di vita particolare potrebbe sdegnarsene in certa maniera, non che un’opera di sí alto decoro e sí maestoso quale deve essere l’istoria. Con queste e con diverse altre simili digressioni ad ogni nuova scena di personaggi, l’autore si allontana con troppo eccesso, per dire il vero, dalla narrazione principale. Ma se tante sono queste che riguardano le persone, quante piú sono l’altre che si veggono tramezzate nelle materie. Leggasi attentamente ogni libro, e si vedrá quanto spesso l’autore con narrazione saltellante (per chiamarla cosí) vada senza alcuna occasione accumulando notizie a notizie, e quanto spesso confonda quelle di fuora con quelle di dentro, senza distinguere ben prima fra le soverchie e le necessarie, e senza considerare quali possono aggiungere maggior lume e quali diminuirlo piú tosto alla principale descrizione della guerra di Fiandra. In questa parte è sí grande l’eccesso che il voler notare tutti i luoghi sarebbe un finir mai. E ciò facilmente può giudicarsi dall’aver l’autore consumati i primi sei libri nelle cose che descrive sotto la regenza della duchessa di Parma, nel qual tempo seguirono solamente le prime alterazioni di Fiandra, le quali poi degenerarono in guerra aperta sotto il governo del duca d’Alba.
Né può addursi per difesa delle prime digressioni accennate di sopra il dire che si debbano chiamare piú tosto elogi che vite, col darsi l’esempio delle piú celebrate istorie che sogliono far ciò ne’ personaggi di maggior conto, perché in esse gli elogi non pigliano forme di vite ma ritengono la propria loro vera d’elogi, sbrigandosene ordinariamente gli autori con poche righe, e riferendo con sommo decoro solamente ciò che in quel separato luogo si può notare di piú memorabile in quei personaggi.
Cosí fa Salustio, per lasciar da parte gli autori greci e seguire i piú celebri nostri latini, quando rappresenta le qualitá che erano piú da considerarsi nella persona propria di Catilina, quando piglia una sí bella e aggiustata occasione di rappresentare quelle di Cesare e di Catone, e quando egli nella Guerra Giugurtina descrive pur similmente quelle di Giugurta e di Mario. Tali sono gli elogi da lui fatti a persone vive, e se avessimo l’altre sue principali composizioni istoriche, senza dubio vedrebbesi che egli averebbe con l’istessa brevitá fatto il medesimo intorno alle persone grandi venute a morte, che suol’essere il vero e proprio luogo dove gl’istorici piú si compiacciono di fare comparire gli elogi loro.
In Livio se ne trovano pochi dell’una e dell’altra sorte, e quei sono brevissimi. E famosa particolarmente è la descrizione ch’egli fa d’Annibale. Quanto avrebbe potuto dire della sua casa de’ suoi maggiori del suo nascimento della sua educazione e di mill’altre minuzie che potevano in qualche modo riportarsi alla persona di lui, se non l’avesse giudicate soverchie e ripugnanti del tutto al decoro e alla severitá dell’istoria? E perciò con una mezza facciata descrive quelle particolari qualitá sole che in tal luogo si dovevano necessariamente rappresentare intorno alla persona d’un sí grande e memorabile capitano. Con la medesima nobiltá di sensi e con ugual brevitá di parole da lui vien fatto un elogio a Catone il maggiore vivente, per occasione di mostrare con quanto applauso egli fosse creato censore, ed in quanta riputazione appresso alla republica egli si trovasse. Non meno gravi ed insieme non meno brevi sono gli elogi che fa in morte a Fabio Massimo ed a Scipione, due lumi de’ piú gloriosi che in pace ed in guerra avesse avuti giamai la republica, e nell’istessa forma al re Attalo fa un simile funerale. In un altro luogo dove nasce occasione di paragonare tre chiarissimi capitani venuti a morte quasi in un medesimo tempo, cioè Scipione, Annibale e Filippomene generale degli Achei, l’autore tralascia di farlo ed accenna di astenersene per non divertirsi dalla narrazione principale; solamente con cinque o sei righe gli paragona insieme nell’oscuritá della morte che fecero sí disconforme allo splendore della vita che essi prima avevano passata.
All’esempio di questi due prencipi dell’istoria latina si fa il medesimo da Curzio e da Tacito, scrittori l’uno e l’altro pur’anche di sommo pregio. Nell’istoria di Curzio non poca materia nasce d’elogi. A Parmenione fatto morire da Alessandro, e che dopo lui in autoritá e valore riteneva le prime parti, ne vien fatto uno di poche righe ma pieno altrettanto di senso quanto è ristretto nelle parole. Nella morte poi di Alessandro quanto poteva egli dire? che lunghe premesse e fiammeggianti esequie avrebbe potuto farli? e nondimeno a poco piú d’una facciata con brevitá grandissima le riduce.
Ma se in Curzio si trovaranno pochi elogi, Tacito all’incontro par nato a farli, tanti ne forma e si maestrosamente gli aggiusta; basterá nondimeno addurne due soli in persone vive e due altri in persone venute a morte; ne’ primi descrive Seiano aspirante alla dominazione assoluta, e Pisone addottato da Galba, e in ambedue va sí ristretto che si veggono finiti, per cosí dire, quasi prima che cominciati. Ne’ secondi poi quanto brevi pur anche sono l’esequie fatte da lui a Tiberio e a Galba? e nondimeno fra i suoi elogi quei due sono i piú lunghi e dove egli ostenta piú l’arte di sapergli fare. In ogni altra occasione simile Tacito va con l’istessa riserva, e cosi fanno Salustio Livio e Curzio de’ quali ho parlato prima, e ciò basti intorno alle digressioni cosí frequenti e prolisse che fa lo Strada in ordine alle persone.
Consideriamo ora l’altre che lo fanno andare sí vagando nelle materie; mostra egli medesimo di conoscere tali eccessi, e nella sua prefazione procura di giustificarsene col servirsi particolarmente d’alcuni esempi tratti dall’istorie di Salustio e di Tacito, col valersi ancora dell’autoritá di Polibio.
Intorno a quei principi con i quali entra Salustio a descrivere la congiura di Catilina e la guerra di Giugurta, non si può negare veramente che non siano sopra materie del tutto divise da quelle che sono poi descritte; ma si deve considerare che l’uno e l’altro è fatto sopra materie morali e non altrimenti istoriche, e in esse l’autore non si divertisce dalla narrazione principale ma solo si trattiene alquanto dal cominciarla, né sono mancati gravissimi autori i quali averebbono desiderato che Salustio non gli facesse, e come del tutto insoliti si vede che in altre istorie non sono imitati. Quanto all’altre digressioni della congiura, che accenna lo Strada, non si possono chiamare improprie essendo connesse in modo alla narrazione principale che servono grandemente a renderla non meno piú chiara che piú copiosa, e però di quelle si serve, e si vede pur similmente che nella guerra di Giugurta fa il medesimo.
Veggansi primieramente con attenzione i luoghi che adduce lo Strada, ne’ separati libri dell’Istoria di Tacito, e si conoscerá quanto bene l’autore innesti e trasfonda nell’altre parti del suo corpo istorico quelle poche sue digressioni.
Nell’ultima scorre assai lungamente e con molta ragione, percioché dovendo egli descrivere l’assedio memorabile di Gerusalemme, e l’ultimo giorno (parole sue proprie) al quale Tito ridusse non solo una cittá sí famosa ma l’intiera nazione ebrea, quanto conveniva ch’egli nelle sue istorie lasciasse almeno qualche notizia particolare dell’una e dell’altra?
Di Livio non parla punto lo Strada né può parlarne avendolo cosí contrario, e veramente quell’autore non può mostrarsi piú religioso di quello che apparisce nell’astenersi da ogni digressione soverchia; e ciò manifesta egli particolarmente in quel celebre luogo, dove tirato piú dal gusto che dall’occasione volendo paragonare insieme l’armi macedoniche sotto Alessandro magno e le romane sotto Papirio Cursore e sotto altri famosi capitani della republica, egli se ne scusa prima appresso a’ lettori e quasi ne chiede licenza.
E per dire quel che è intorno alle digressioni ancora di Curzio, la sua Istoria n’è fecondissima per le frequenti occasioni che gli nascono di descrivere i nuovi paesi e popoli, che dal grande Alessandro in quei trovamenti dell’Asia venivano quasi prima domati che discoperti; e nondimeno tutte si uniscono sí bene con la materia principale che non potrebbono restarne separate in maniera alcuna.
Per quello poi che tocca all’autoritá di Polibio, il pregiarsene tanto nella sua prefazione lo Strada fa credere a punto ch’egli abbia voluto principalmente imitare quell’autore, il che non vorrebbe dir altro se non che da lui si fosse imitata un’istoria che non è vera istoria. Questo è il giudicio che intorno a Polibio fanno i piú gravi scrittori dell’arte istorica per uscir egli e tanto spesso e tanto prolissamente fuori della narrazione principale che cosí può stare in dubio se egli piú faccia lezioni filosofiche e accademiche o par racconto di successi publici propriamente istorici. In quelle si divertisce con i libri intieri, ed in questi narra con filo sempre interrotto in modo che quando si volesse affatto separare quelle da questi, l’Istoria di Polibio in tanta parte restarebbe scemata che la sua mole di prima verrebbe a rimanere troppo notabilmente diminuita, né sarebbe grande la differenza se nell’Istoria belgica dello Strada parimente si volesse far la medesima prova.
Conviene dunque aggiustar bene le digressioni, e distinguere tra l’inutili e affatto improprie da un canto e le fruttuose e come del tutto necessarie dall’altro. Quelle servono a fare nascere oscuritá e queste a rendere maggior chiarezza all’altre parti del corpo istorico. Da quella rimane impedito e da questa grandemente aiutato l’ordine de’ successi. In quella si mostra di non sapere fare la debita scelta delle materie, e in questa le materie si raccolgono e si mostra di saper farla in modo che dalle migliori istorie generalmente è praticato. Ma delle qualitá particolari che si richiedono alle bene intese e lodevoli digressioni trattano cosí a pieno gli accennati scrittori ch’io non debbo qui diffondermi a parlarne piú lungamente.
Con mirabile erudizione e insieme con singolare eloquenza fra i piú moderni compose un pieno volume sopra l’arte istorica ultimamente in particolare Agostino Mascardi, uno de’ primi litterati d’Italia e mio strettissimo amico, e certo gli deve restare grandemente obligata l’istoria, poiché egli nell’accennato componimento non poteva piú al vivo effigiarne la vera e perfetta istoria. Piglia specialmente egli occasione piú volte di celebrare con somma lode l’Istoria indica del Maffei lá dove all’incontro non parla mai di questa belgica dello Strada. E perciò si è creduto che fra le migliori e piú ben regolate non gli dovesse parere di aver potuto connumerarla. E tanto basterá d’aver brevemente considerato intorno al maggior difetto che allo Strada s’attribuisce con andar egli si spesso e con tanta prolissitá vagando fuori della narrazione principale.
Gli altri difetti piú considerabili ne’ quali pecca la sua istoria secondo il giudizio de’ piú eruditi sono in ristretto li seguenti:
Che nel raccontare i successi l’ordine resti da tante digressioni troppo spesso interrotto, e per conseguenza troppo venga a restar confuso.
Che la narrazione ecceda grandemente nelle minuzie e s’avvilisca nel riferirne talvolta alcune che troppo hanno del popolare e del puerile, onde se ne sdegnino le orecchie nobili e gravi delle quali solo il teatro istorico deve esser composto. E per addurne qui un particolare esempio: a qual persona di supercilio anche poco severo non cagiona riso o piú tosto non muove stomaco in leggere quei nomi musicali di ut re mi fa sol la, coi quali scrive lo Strada che si chiamavano certi pezzi di artegliaria? Poteva narrare minuzia piú leggiera e piú bassa ed a cui fusse per maggiormente applaudere la turba o giovanile d’etá o populare d’ingegno? E pur d’altre tali in gran numero si vede per ogni parte communemente soprabbondar di continuo la sua istoria.
Che per la medesima ragione delle frequenti minuzie resti offeso notabilmente il decoro dell’istoria, la quale avendo per oggetto l’insegnare e il dilettare ma in primo luogo il produrre con l’insegnamento la prudenza militare e civile, non può conseguire un tale fine col mezzo de’ racconti bassi minuti e leggieri, e tanto alieni dal suo cosí grave e maestoso instituto.
Che l’autore all’incontro non faccia comparire quanto bisognarebbe alcuni successi militari dei piú importanti, e troppo ne metta in vista poi altri meno considerabili. In quel numero possono entrare specialmente l’assedio di Mons e l’oppugnazione di Harlem sotto il duca d’Alba, e l’assedio di Leiden sotto il commendatore maggiore, e in questo la fazione d’Ostreville e l’assedio di Valenziana sotto la duchessa di Parma, e l’assedio posto a Limburgo dal prencipe suo figliuolo sotto il comando principale di don Giovanni. E pure quelli furono assedi che durarono molti mesi ciascheduno di loro e che si possono riputare de’ piú memorabili che abbia partorito la guerra di Fiandra, lá dove la fazione d’Ostreville fu leggiera e tumultuaria, e gli assedi posti a Valenziana e Limburgo furono quasi prima finiti che principiati per non essersi nell’uno e nell’altro fatta resistenza d’alcuna sorte. Di questi tre successi l’autore ne’ suoi rami intagliati rappresenta con grande amplificazione le figure e di quelli non fa intaglio alcuno; nel che per opinione di molti si è giudicato ch’egli abbia ecceduto per qualche particolare affetto verso la casa Farnese come servitore eletto e trattenuto da quella casa, benché né la duchessa né il prencipe avessero bisogno di vantaggi sí deboli, restando le memorie loro pregiate d’altre glorie che tanto piú rendono e renderanno eterni sempre i loro nomi.
Che l’autore quando parla in persona propria usi le comparazioni e le sentenze troppo frequentemente. Livio sopra ogni altro istorico se ne astiene allora quasi del tutto, lasciandole in bocca di persone gravissime ch’egli introduce in tante sue nobili consulte di stato e di guerra per via delle mirabili sue concioni oblique e dirette. Quivi poi egli nelle loro persone insegna, e quivi come in luogo proprio ammaestra, non lo facendo nella sua propria narrazione, perché la modestia ed il buon costume non permettono allo scrittore ammaestrare chi legge con l’usare troppo spesso i suoi propri documenti, ma piú tosto egli ne lascia l’officio a quei grandi uomini che governano i regni e le republiche, e dalle cui lingue come da tanti oracoli pendono quei che gli ascoltano quando ne’ senati o negli eserciti le risoluzioni piú gravi e piú importanti con i pareri loro si pigliano. Salustio, Curzio e Tacito in ciò veramente non vanno con tutta la riserva di Livio, ma però non eccedono e molto meno in questa parte doverebbono poi eccedere l’istorie che escono da’ claustri, dove hanno si poco luogo tali insegnamenti e dottrine; oltre che fra le sentenze che in tanta copia scaturiscono dallo Strada, quante ve ne sono che si possono giudicare migliori per chiudere con le solite vive acutezze qualche epigramma che per aggiungere maggior peso alla gravitá cosí propria delle ben regolate istorie. Polibio all’incontro è pieno di vaganti comparazioni e sentenze; onde sempre piú si conosce che lo Strada in primo oggetto si è proposto di imitare quell’autore.
Che finalmente nella sua istoria egli non abbia data quella parte che era dovuta al negozio, non regnando poi nella guerra tanto l’armi fra l’armi che nel medesimo tempo non si passi ancora dalle armi alle trattazioni. Con l’armi particolarmente vanno sempre uniti i consigli, poiché non suole pigliarsi alcuna grave risoluzione o militare o civile che nelle consulte di stato o di guerra non si esamini bene prima e non si maturi. Dunque a penetrare i consigli e ogni altro successo in materia di negozio che pesi, ed a renderne quanto piú sia possibile ben informati i lettori, deve l’istorico applicare la sua maggiore attenzione. Questa parte, che in apparenza non è la piú strepitosa, è nondimeno in effetto la piú importante. Quel suono esteriore delle scaramuccie delle fazioni degli assalti e delle battaglie, con quelle occisioni incendi e sacchi militari di tanto strepito dilettano ben maggiormente senza dubio, e danno maggior pastura alla gente scolaresca ed alla popolare, ma il negozio all’incontro insegna piú di gran lunga e pasce d’altra maniera gli animi delle persone erudite e gravi, al cui giudizio e approvazione deve l’istorico sottomettere principalmente le sue fatiche. Onde pare che lo Strada averebbe potuto in questo arricchire e nobilitare la sua istoria molto piú di quello che ha fatto.
Resta ora da considerarsi lo stile che secondo le sue qualitá suole aggiungere o togliere tanto piú di pregio a tutte le composizioni, e specialmente istoriche; ma certamente in questa parte può meritare lodi cosí vantaggiose lo Strada che gli servano come per un contracambio delle sopranotate opposizioni che alla sua istoria si fanno. Quivi vedesi ch’egli proporzionatamente fa il suo mistiere, e ch’egli insomma quivi esercita la vera e sua principale professione, avendola fatta sií lungo tempo e con tanto applauso, come ognun sa, nelle prime scuole d’umanitá che abbia la compagnia in questo sí celebre suo collegio romano. Nel maneggiare dunque lo stile della sua istoria egli tesse sí bene e orna sí nobilmente ogni materia che le piú minute ancora e quelle che hanno maggiormente del basso e del servile si leggono tutte con gusto, e per questa considerazione dello stile non se ne possono sdegnare né anco l’orecchie erudite e gravi. Il carattere è sempre uguale, variando però nel sostenersi e nell’inalzarsi secondo la differenza e la varietá degli avvenimenti. Apparisce piú alto e piú efficace nelle concioni, e dall’altra parte piú ameno e piú ornato nelle descrizioni con l’esser vestite ancora ugualmente come bisogna quelle in particolare, che descrivono i successi piú sanguinosi degli assalti e delle battaglie. E si vede seguire il medesimo a proporzione delle materie quando l’autore fa le sue principali parti di narrare in persona; ma benché tante lodi si devano allo stile di questa sua belgica istoria, nondimeno viene giudicato che siano dovute molto maggiori all’altro delle prime sue prolusioni, quando si voglia paragonare insieme l’uno e l’altro componimento in quello che riguarda la puritá e vera significazione latina.
Questo è il senso de’ padri gesuiti medesimi che piú sono versati nell’istesso mestiere, né si può negare veramente che nell’istoria lo Strada non usi alle volte qualche parola e qualche frase latina che non è per lo meno del secolo piú latino, lá dove egli nelle prolusioni si mantiene molto piú nell’aurea dicitura e puritá di quel secolo benché assai piú religiosamente ancora di lui vi si mantenghino altri scrittori istorici pur della compagnia. Fra loro singolarmente il Maffei, del quale ho parlato di sopra; non senza meraviglia si è veduto in particolare ch’egli in una delle sue prolusioni con tanta acerbitá riprendendo li troppo frequenti grecismi di Tacito, in diversi luoghi poi dell’istoria egli non se ne astenga.
E per fare una breve comparazione qui tra il Maffei e lo Strada, parmi che l’istorie loro in alcune parti quasi del tutto si uguagliano. Uguali possono chiamarsi nella nobiltá dello stile, uguali nell’armonia del numero, né può aver l’una e l’altra maggiore evidenza. S’avanza il Maffei nelle descrizioni, e lo Strada nelle concioni. Quegli di ordinario è piú grave, e questi piú spiritoso. Quegli mantiene la sua istoria di gran lunga piú connessa e piú unita, e questi dall’altro canto pecca nell’uscire e nel vagare troppo fuori dalla narrazione principale; che se bene il Maffei anch’egli trascorre assai nelle digressioni e specialmente ne fa una d’un libro intiero sopra i chinesi, nondimeno le fa sempre chiamato e quasi costretto dall’occasione, descrivendo egli paesi e popoli cosí nuovi alle orecchie di Europa, con altre notizie di tale qualitá, che per essere bene intese faceva di bisogno che da varie digressioni variamente fossero accompagnate; lá dove si può dire che lo Strada per lo piú senza alcuna opportunitá le vada cercando per ogni passo e introducendo.
Ma per tornare alla persona propria di lui, queste poche osservazioni in materia di stile sarebbono finalmente come piccioli néi da’ quali non potrebbe ricevere pregiudizio la bellezza del suo stile, che in generale risplende si nobilmente in tutto il corpo della sua istoria. Di modo che quando non fosse per altro si può credere che solamente in riguardo allo stile riceverá la sua istoria applauso grande, e che forse la faranno vivere tanto piú quei difetti medesimi ne’ quali può essere caduta. Perciò che nascendo essi da troppo gran quantitá di poco ben regolate materie, una tal selva di cosí ben descritti racconti senza dubio servirá di maggior trattenimento, e massime appresso di quelli che non conoscono tanto l’arte o non se ne curano, o che leggendo l’istorie sono piú capaci della parte onde nasce il diletto che non sono di quella onde non nasce il diletto ma si ricevono gl’insegnamenti. Oltre che, quale istoria uscí mai cosí perfetta che non abbia avuti contradittori? Gli hanno provati in maniere varie fra l’istorici latini Salustio e Livio medesimi con gli altri due nominati di sopra, né io sono cosí vano che avendo composto la mia di Fiandra nel tempo stesso che lo Strada va seguitando la sua mi possa cadere in pensiero che non soggiaccia forse a maggiori difetti. Ma si deve considerare fra lui e me questa differenza, ch’egli ha scritto per professione ed io per trattenimento; egli alla casa Farnese ed io a me medesimo, egli con ogni commoditá e di tempo e di luogo e di quiete, lá dove io quasi sempre ho scritto di furto, essendomi bisognato rubare me stesso continuamente alla violenza che a tutte l’ore mi hanno fatta nel divertirmi dall’intrapreso lavoro e le cure private e gli affari publici e lo strepito inquietissimo della corte, e l’impedimento della mia languida sanitá che è stato il maggiore e piú molesto di tutti gli altri. Onde tanto piú scusabili potranno essere gli errori da me commessi quanto piú giustificate sono l’occasioni d’aver io potuto commettergli. Di vantaggio e non debole io potrei forse pregiarmi, cioè d’aver con publico ministerio sui luoghi stessi maneggiato e veduto; riceverono nondimeno piú volontieri per l’opinione degli altri che per mia propria. Ma è tempo ormai di tornare alle materie di prima.
Non mancavano altre persone di lettere ancora in palazzo. Era bibliotecario della famosa biblioteca vaticana il cardinale Baronio. In quel tempo sotto di lui alla custodia de’ libri e del luogo mi ricordo che si trovava una persona, il cui nome ora non mi sovviene, ch’era molto stimata in quella corte per quella sorte d’officio, richiedendosi molta cognizione di lettere, e specialmente ecclesiastiche, a ben sostenerlo. Avevano pure similmente l’uno e l’altro de’ cardinali nepoti nelle famiglie loro diversi uomini e di lettere e di negozi molto qualificati; e perché le nunziature della sede apostolica erano divise fra essi due nepoti, come fu mostrato di sopra quando si parlò dell’uno e dell’altro, perciò ciascheduno di loro aveva un principale segretario, dal quale si reggeva il peso delle corrispondenze e degli ordini che di mano in mano si inviavano alle corti dove risedevano i nunzi. Questi due segretari andavano in abito pavonazzo, e molto spesso negoziavano in persona propria col papa, e gli offici loro per ogni altra circostanza erano de’ piú stimati che avesse il palazzo. Chiamavasi, il segretario d’Aldobrandino, Erminio Valenti, e quello di San Giorgio, Lanfranco Margotti. Quello era da Trevi, luogo piccolo e aperto e poco distante dalla cittá di Spoleti; questo era nato in Parma o lá d’intorno. L’uno e l’altro era di condizione tanto bassa e ordinaria, che l’oscuritá in essi del sangue lasciava quasi anco non meno oscuri i vocaboli della patria. Da giovani si erano applicati l’uno e l’altro alla segretaria, la quale in tutte le corti, ma specialmente in questa di Roma, suole essere una delle strade che piú felicemente conduce alle piú alte fortune. In essi non concorreva gran fondamento di lettere, in modo che si poteva dire che fussero amendue segretari di pratica molto piú che di studio. Oltre al valore nella pratica erano dotati d’altre parti migliori, che poteva richiedere una tal sorte d’offici. Lanfranco però di commun parere superava Erminio di gran lunga ne’ talenti particolari che la natura gli aveva conceduti in quel mestiere di chiarezza e facilitá maggiore: e superava molti altri con il sapere essere ancora piú spiritoso e piú sollevato dell’altro. Ma tutto per dono della natura, perché sí a questo come a quello mancava ogni vantaggio dell’arte, e spesso ancora la necessaria cognizione in materia di lingua per comporre toscanamente secondo le buone regole. Con tutto ciò erano soggetti l’uno e l’altro di molta stima, ed in questi due si può dire che unitamente concorressero insieme le virtú e la fortuna in portarli al cardinalato. Seguí prima in Erminio e poi in Lanfranco, ne’ tempi e nelle occasioni che io anderò di mano in mano rappresentando.
Era anche grandemente stimato in palazzo monsignor Agucchia, che serviva in officio di maggiordomo il cardinale Aldobrandino, ma da lui e dal papa spesso veniva adoprato similmente in altri gravi negozi. Era egli nobile bolognese e nipote, per via di sorella, del cardinale Sega, soggetto di valore singolare, che ne aveva acquistato il nome in tante sue nunziature e poi ultimamente nell’essere succeduto alla legazione di Francia dopo il cardinale Caetano. Appresso di Sega aveva Agucchia affaticato in Francia con molta approvazione del zio, e venuto in Italia si era posto poi sempre in maggior concetto d’abilitá per ogni grave maneggio; onde morto il zio era entrato appresso Aldobrandino nell’accennato servizio. Non godeva però se non il grado della prelatura ordinaria, ma quello di confidenza e di stima in che egli si trovava, come ho detto, appresso Aldobrandino e appresso il papa medesimo, lo rendeva grandemente considerabile. E se ne viddero poi gli effetti, perché nell’ultima promozione lo creò cardinale tra quei dieciotto. Eragli fratello, ma d’etá molto inferiore, Giovan Battista, che serviva ancor egli in affari di segretaria il cardinale Aldobrandino medesimo. Sin d’allora mostrava Giovan Battista un talento particolare in quella sorte di professione, e poi vi si avanzò di maniera che diventò segretario di stato di Gregorio decimo quinto, e si tenne allora per certo che, se Gregorio fusse alquanto piú a lungo vivuto, l’avrebbe promosso al cardinalato. Morto di poi Gregorio egli esercitò per molti anni la nunziatura di Venezia sotto il presente pontificato e venne a morte in quel carico, lasciata gran fama di sé in tutte le qualitá piú riguardevoli che potesse avere un ministro publico.
E veramente egli nell’intendere e nel maneggiare le materie politiche era dotato d’una sí chiara e sí giudiziosa capacitá, che lo rendeva in tal guisa non solo uguale ma superiore ad ogni piú difficile impiego. Non aveva però egli la medesima chiarezza e facilitá nello stile, perché spesso dava nello stentato e per conseguenza nel tenebroso; e volendo anche spesso affettare i piú reconditi toscanesmi faceva che molte sue composizioni sapessero di scuola molto piú che di corte.
Ancorché non abitasse aveva però commoditá di stanze in palazzo il padre Anselmo capuccino predicatore del papa, che si chiamava il padre Monopoli per essere nato in quel luogo nel regno di Napoli. Esercitava egli quell’officio con grande approvazione della corte di Roma. E veramente la sua dottrina efficace e la sua vita austera, e l’apostolico zelo col quale esercitava, avvertiva correggeva e minacciava anco molto liberamente la corte, facevano riverire le sue prediche sempre con molta laude e insieme con molto frutto. Non aveva cultura né politezza nel dire, ma suppliva con la dottrina perché erano densissimi i luoghi di scrittura e de’ padri ch’egli continuamente portava; erano piú i sensi che le parole, in somma egli stava tutto nella sostanza e si curava poco degli ornamenti. Dal papa e dal cardinale Aldobrandini era molto ben veduto e stimato; e crebbe in maniera l’affetto e la stima loro verso di lui che nell’ultima creazione degli otto egli fu promosso al cardinalato.
Ma non debbo tralasciar qui nell’ultimo di far menzione di un nano polacco molto erudito, e specialmente nella lingua latina, che il papa aveva condotto seco tornando dalla legazione di Polonia. Chiamavasi Adamo, viveva in palazzo, era ben trattenuto e aveva libero l’adito ogni giorno col papa, dal quale sempre era con qualche scherzo e trattenimento di burla raccolto. Parlava latino, e con franchezza e con eleganza, e mi ricordo che alle volte pigliava all’anticamera uno de’ tomi del Baronio, e durava fatica in trovare il modo per leggerlo tanta era la sproporzione tra la mole del libro e la picciolezza del suo corpicciolo. Restami pur in mente che il papa aveva molto gusto di vedere alle mani insieme esso nano e Giulio Cesare, nella romana corte cameriere d’onore, il quale era uomo di lettere, buon poeta latino, e specialmente ne’ versi eroici, alcuni de’ quali uscirono anche allora con molta approvazione alle stampe. Trovavasi Giulio Cesare spesso al desinare del papa per occasione di virtuoso trattenimento, ma perché non gli mancavano difetti, e quello in particolare dell’arditezza che bene spesso degenerava nell’impudenza, perciò il nano con buona grazia ora in un modo ora in un altro l’andava pungendo, e Giulio Cesare in varie maniere pungeva all’incontro il nano, talché nasceva dalle contese loro una scena di passatempo che ricreava il papa, non alieno in quell’ora dal sentirsi alleggerire in questa e in altre maniere simili da tante gravissime cure onde era oppresso continuamente.
Con queste persone che ho nominate e con altre di stima, che vi abitavano, io spesso avevo occasione di trovarmi. Era nondimeno la mia conversazione piú frequente con gli altri camerieri o segreti o d’onore, secondo i tempi che ci facevano essere insieme l’uno e l’altro. Fra i segreti particolarmente era don Jayme di Palafoz spagnuolo aragonese di nobilissima casa, d’amabilissime qualitá e che molto prima serviva in corte e ne aveva gran pratica. Era fratello del marchese d’Arizaserra nobile nel regno d’Aragona, e per ogni altro riguardo veniva molto stimato da tutta la nazione spagnuola e specialmente dal duca e duchessa di Sessa, delle cui persone io parlai da principio. Con questo cameriere io avevo quasi la piú stretta conversazione, andavamo spessissimo insieme specialmente alle visite del medesimo duca, e piú ancora della duchessa, e da loro io ricevevo sempre favori particolari in conformitá di quelli che avevano fatto a mia madre ed a me ed agli altri miei fratelli nel tempo che avevano alloggiato nella mia casa in Ferrara per occasione d’aver voluto il papa onorare quella cittá con la sua persona, nel modo che di sopra io rappresentai.
In Ferrara pur’anch’io avevo di giá conosciuto un ministro principale dell’ambasciatore di Spagna nella corte di Roma che si chiamava Pietro Ximenez di Mugiglie, gentiluomo qualificato, ancor egli di Saragozza, che è la metropoli di Aragona. Con titolo di secretario del re serviva Ximenez nell’ambasceria, e dopo il duca faceva in essa le prime parti. Era grande amico egli ancora e quasi paesano del Palafoz, e dotato similmente di bellissime parti che lo rendevano meritevole di quello e d’ogni altro piú onorevole impiego. Parlavano bene italiano l’uno e l’altro di loro, ma io procuravo che ambedue m’insegnassero la lingua spagnuola come fecero e con mio grandissimo beneficio, per l’occasione che ebbi di metterla in uso quando io fui mandato nunzio alla corte di Fiandra, nella quale dall’arciduca dall’infanta e da’ principali ministri non si pratica quasi altra lingua che la spagnuola.
Con diversi camerieri d’onore io conversai medesimamente con molta domestichezza, ma in particolare con alcuni che erano oltramontani e che mi potevano dare sempre molte notizie, come facevano, delle cose piú degne da sapersi intorno a’ paesi loro. L’uno di essi fu il conte di Zolloren alemanno, e l’altro Marquemont francese de’ quali ho parlato di sopra; e ci nacquero occasioni poi in altri tempi di rivederci fuor d’Italia, perché Zolloren fu inviato dall’elettore di Colonia per gravi negozi alla corte di Fiandra nel tempo mio; e quando io fui nunzio in Fiandra, cosí all’andata come al ritorno nel passare per Lione fui ospite sempre di Marquemont che era arcivescovo di quella cittá. E portò il caso che Zolloren ed io fummo poi creati cardinali nella medesima promozione di Paolo quinto, e pochi anni dopo fu dal presente pontefice onorato dell’istessa dignitá Marquemont.
Tra i camerieri italiani era grandemente conspicuo il Caetano in particolare, non tanto per la sua nobiltá cosí rilevata quanto per le sue virtú, che per se medesimo tanto piú ancora lo rilevavano. Con lui ancora mi strinsi in amicizia come era seguito con alcuni de’ suoi fratelli e alcuni de’ miei che avevano militato in Fiandra all’istesso tempo, e componeva nobilmente in poesia toscana, e si vidde fra l’altre sue composizioni alcun tempo dopo recitare publicamente una sua tragedia con grand’applauso. Nondimeno egli era piú cavaliere che poeta, e verseggiava piú d’ordinario per improvise occasioni che meditate; dal grave passava al satirico molto graziosamente ancora quando voleva. Fu poi da Paolo quinto creato arcivescovo di Capua, e l’occasioni portarono che al medesimo tempo egli andò nunzio in Germania ed io in Fiandra, e dopo egli fu trasferito in Spagna ed io in Francia; e cosí passammo quasi dodeci anni di strettissima corrispondenza in tutti i negozi publici che dall’una e dall’altra parte in quel tempo occorsero. E l’occasione pur similmente portò che dalla mia promozione alla sua non corresse altro intervallo che di tre mesi, e che insieme con lui io dovessi poi ricevere il cappello cardinalizio per mano di papa Gregorio che aveva con tre altri fatto lui cardinale, per essere morto avanti che io partissi da Francia papa Paolo, che aveva tre mesi prima, come ho detto, conferito il medesimo onore nella mia persona. E tanto basterammi aver detto sin qui intorno alle memorie da me raccolte in questo mio primo libro.