Meditazioni sull'Italia/Seconda parte/Novembre
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NOVEMBRE
Del nostro isolamento
L’atteggiamento dell’intellettuale italiano è sempre aggressivo e un po’ schernevole; egli esiste per definizione contro tutti. Un senso cosí aggressivo della vita non permette di riattaccarsi al passato nè al resto del mondo.
Del nostro isolamento
1 Novembre
Noto nella letteratura italiana un vasto malessere. Forse non tutti quelli che ne patiscono se ne rendono conto; credo utile perciò, come capita quando si è tristi senza una ragione visibile, di cercare qual’è, di identificarlo, per liberarsene. La tragedia della nostra letteratura infatti, non è tanto la povertà delle opere, come il malessere dei letterati; perchè a guardarsi intorno si trovano, tra le vecchie e le nuove generazioni, dei nomi di scrittori e dei titoli di libri, ma anche una universale scontentezza di vivere. I letterati italiani, sono, in genere, poveri e tristi. Malsicuri degli amici, in lotta con molti nemici noti e moltissimi ignoti, vivono in mezzo agli uomini come dei solitari. Il pubblico, d’altra parte, non dà loro nessun compenso.
Pochi leggono i loro libri, i teatri sono vuoti, quasi sempre gelidi. Le riviste falliscono, di anno in anno, tra la indifferenza universale. Sembra, alle volte, che il terreno non regga sotto nessun peso. Affamati, in mezzo a questo disfacimento perenne delle cose, di una gloria che garantisca loro un approdo verso il futuro, che prometta all’opera una vita migliore di quella che visse l’artista, tutti i nostri scrittori si vedono, dopo pochi anni di chiasso, dimenticati. Molti non riescono a essere riconosciuti mai. Tutti sentono avvicinarsi quello che per gli artisti forestieri è il grandioso e quieto crepuscolo della vita, come una sera temporalesca, e muoiono tra gli insulti e nell’obblio noncurante delle nuove generazioni. Distaccati dal pubblico che non li segue più, rischiano di essere applauditi per errore, e fischiati per una grande opera. Costretti, per svegliare l’attenzione di questo giudice sonnolento, a studiare fin dai primi anni la pirotecnica dei giornali e degli scandali, perdono il tempo a indebitarsi nel fasto di ville costruite per essere fotografate, o a tendere la rete intricata delle alleanze giornalistiche, che deve annunziare l’uscita del loro libro e lodarlo senza convinzione. Maltrattati da vivi, dimenticati da morti, e mal capiti da vivi e da morti, gli intellettuali italiani sono disperati di vivere e non possono nemmeno rassegnarsi a morire. Che tormento, che follia hanno trascinato i letterati italiani in questa condizione disgraziata in cui la nostra repubblica letteraria si sta disfacendo?
2 Novembre
Una diabolica frenesia che niente può soddisfare; l’esaltamento esasperato dell’IO, il sentimento di essere ciascuno il solo degno di vivere.
Che cosa è infatti per l’italiano l’amore se non il pretesto per diventare Dio, tiranno, almeno agli occhi della donna che l’ama? Le donne l’hanno capito — e si consacrano all’uomo con un vigore e una dolcezza che egli ha il torto di credere naturali; gli offrono l’ammirazione, la fede assoluta che chiede loro con tanta angoscia, la prova di un’immaginaria grandezza, e se si curva su di loro, difforme e stupido, gli rimandano — specchi mirabilmente alterati dalla passione — una perfetta immagine. L’amore è così per ogni uomo una maniera di vedere sè medesimo come vuole.
6 Novembre
Non s’è notato abbastanza, ch’io sappia, che l’intellettuale italiano ha una sua concezione del mondo. Egli nasce convinto, come Berkeley, d’essere, in mezzo alle sue rappresentazioni, il solo uomo vero dell’universo. Persuaso di vivere in un mondo di fantasmi, egli cresce nella perpetua irritazione di vedersi smentito. Esiste dunque, per definizione contro tutti. Il suo atteggiamento è sempre aggressivo e un po’ schernevole. Partendo, infatti, dal punto di vista d’esser solo, tutto quello che succede al di fuori di lui non gli sembra che uno sterile tumulto di illusi. La vita, così gli appare come il campo immenso in cui deve affermare il suo io, tra le ombre chiassose di altri falsi scrittori, che non vogliono riconoscerlo.
Questa mi pare la base psicologica del nostro isolamento, perchè un senso così aggressivo della vita non permette nè di riattaccarsi al passato nè al resto del mondo.
10 Novembre
Paragoniamo l’intellettuale italiano e quello francese.
L’intellettuale francese nasce coll’istinto del gruppo. Appena è in età di meditare si cerca un maestro che lo riattacchi a una tradizione; appena comincia a scrivere si cerca compagni coi quali fondare una scuola.
Il gruppo è la disciplina che la Francia ha imposto alla sua intelligenza, è la forma che ha dato alla sua civiltà. Perciò la civiltà francese è forse quella che si potrebbe chiamare la più frondosa d’Europa.
Quando la si studia, la civiltà francese ci appare come un mosaico di gruppi. La famiglia, prima di tutto; tumefatta dai cugini, dagli zii, dai padrini, dai vecchi amici di casa, che fanno valanga, primo gruppo formidabile del quale si sente il peso in certe occasioni, e che si stende splendidamente sugli annunzi di matrimonio o sulle partecipazioni di morte.
Uno scrittore inglese, Cloudesley Breretons, mi faceva appunto osservare come fossero diversi gli annunzi di matrimonio francesi, negri di nomi e di titoli, e quei due piccoli cartoncini splendenti di candore dove i due inglesi che hanno da sposare non stampano che i loro nomi. Ma anche al di fuori della famiglia, i francesi non sognano che di raggrupparsi. Dai gruppi mondani, fatti soltanto per riunire insieme gli uomini che hanno lo stesso genere di conversazione, fino ai gruppi degli antichi studenti dell’Ecole Normale, o del Lycée Louis Le Grand; dai gruppi degli ufficiali, dei marinai a riposo, ai gruppi dei cacciatori, dei pescatori all’amo, e di tutti gli sportivi in genere, ai gruppi degli industriali, dei commercianti, degli impiegati, dei funzionari e sopratutto ai gruppi politici, — che si riuniscono di tanto in tanto, regolarmente, intorno a una tavola imbandita, — la Francia è una mostra maestosa di nuclei, è un mondo ove ogni idea è l’occasione per formare una compagnia e il pretesto per ordinare un pranzo.
I grandi uomini morti non sono — per ripetere, svisandola, una formula di Stendhal — che i rami intorno a cui dei gruppi si cristallizzano. « Gli amici di Pascal », « Gli amici di Balzac », « Gli amici di Baudelaire » formano dei gruppi. La vita letteraria non è che una vasta compagine di compagini. Uno scrittore che ha trovato la sua via comincia prima di tutto a cercare intorno a sé quelli che in qualche maniera gli rassomigliano, per raggrupparsi con loro. Gli editori, i teatri stessi diventano, dopo qualche anno di barcollamenti, l’espressione di un gruppo. Le riviste fioriscono in Francia perchè sono ciascuna la voce politica e letteraria di un gruppo. La Francia è insomma il Reame dei cartelli. 10 Novembre
I vantaggi del gruppo sono chiari. Meno rigidi dei partiti, moltiplicano la forza e il coraggio di chi ne fa parte, senza inibirlo.
Si è assai più timidi quando si è soli.
Quando parecchie persone si uniscono per formare « un gruppo » ad un dato scopo, esse crescono la forza individuale presentandosi davanti all’opinione pubblica con un giudizio sui propri propositi e sul proprio valore. Ed hanno il diritto di parlare di sè spiegando il tutto di cui sono parte, il che dà a ciascuno un più grande ardire. Quanta modestia, quanta sicurezza, quanta disinvoltura, quanto vigore in un « noi siamo.... »! La maggior follia diviene rispettabile quando rispecchia « un movimento ». I membri del gruppo, alla peggio, hanno il diritto di ammirarsi fra loro; ciascuno è il pubblico degli altri.
In Francia gli uomini fortemente individualisti, se non possono reagire a un avvenimento nuovo nel quadro del loro partito, d’istinto lo abbandonano e stabiliscono delle basi nuove; ma d’istinto ancora formano un gruppo, e trovano sempre degli uomini che vogliono raggrupparsi con loro (questo è di prima necessità).
In Italia essi resterebbero isolati; niente sarebbe loro più difficile che formare un gruppo, un partito, di cui tutti vorrebbero essere i capi. In Francia la facilità stessa di distaccarsi spinge i capi a far fronte ai nuovi avvenimenti, a modificare le formule antiquate. Il pubblico, la massa, aiuta senza avvedersene la moltiplicazione dei partiti. Gli è che non solo abbondano gli uomini che desiderano mettersi alla testa di un movimento, ma abbondano anche gli uomini che amano seguire un movimento.
20 Novembre
Ma i gruppi si possono formare solo là dove ogni uomo si adatta ad essere nel gruppo un tutto e la parte di un tutto; dove ogni uomo è disposto non solo a mettere in comune le proprie qualità, ma anche a sopportare le qualità degli altri. Nei paesi mortali, in cui l’individualismo è aggressivo, gli urti fra gli uomini sono tali che i gruppi si disfano, appena stretti, in un polverone di rancori. Nessun italiano consentirà mai a non essere « se medesimo » eccessivamente. Se le circostanze o un chiaro vantaggio lo spingono a formare un gruppo con altri, se si rassegna a riconoscere l’esistenza altrui nella speranza di avere più mezzi per affermare la propria, allarga allora al gruppo il sentimento esacerbato dell’io, nega il mondo in nome del gruppo. Quando un gruppo si forma, in ogni campo, comincia per farsi il deserto d’intorno e il gruppo s’installa in quella solitudine come le torri nella campagna romana.
22 Novembre
Non so perchè si dica di solito che l’Italia è il paese delle fazioni. La verità è che l’Italia è il paese dei monopoli. La debolezza e il disordine stesso di una società, in cui tutti gli uomini si odiano e diffidano uno dell’altro, li favoriscono. L’Italia ha sempre avuto una sola banca, una sola casa editrice, una sola rivista, un solo quotidiano. Quando non riesce a far parte del gruppo che consacra in ogni campo l’intelligenza, il merito, il coraggio, l’attività, la competenza, la bellezza — un italiano è quasi sempre condannato a sparire.
Questo spiega come l’unità, che le circostanze del secolo XIX° avevano resa necessaria, sia divenuta anche la ragione di un segreto disordine. L’Italia era stata per tanti secoli la più dolce e splendente civiltà dell’Europa perchè l’abbondare delle capitali compensava lo scarseggiare dei gruppi. In ogni città si è sempre imposto un monopolio, e cioè uno spreco di ricchezza, di forza, di intelligenza, di amore; ma le città e le ricchezze erano innumerevoli: al monopolio di Firenze, la Toscana opponeva il monopolio di Siena, di Lucca, di Pisa, di Arezzo, di Pistoia. I rancori si facevano equilibrio; moltiplicandosi, aumentavano il numero dei privilegiati. Il problema si pone con forza nuova dopo mezzo secolo; è la prima volta infatti che l’Italia, che aveva fiorito nei municipi, non può più difendersi dalla propria volontà di morte con le tradizioni gelose e la vita secolare e singolare delle provincie.