Medea (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio
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Dalla reggia esce
medea
Donne corinzie, per fuggire il biasimo
uscita son, venuta a voi. Conosco
molti superbi: n’ho veduti io stessa,
d’altri ho udito parlare; e v’ha chi trista
fama lucrava d’albagia, per vivere
troppo in disparte. Ma non bene gli uomini
sol per veduta giudicano, quando
c’è chi aborrisce altrui, senza conoscerne
l’animo a fondo, sol per vista, senza
che torto n’abbia ricevuto. Un ospite
uniformarsi in tutto alla città
deve; né pure un paesano lodo
che per troppa baldanza ai cittadini
riesce ingrato, o per serbarsi incognito.
Su me piombò questo inatteso evento,
e il cuore mi spezzò. Perduta io sono:
piú non ho gioia della vita, e voglio
morire, amiche, quando l’uom che tutto,
lo vedo or bene, era per me, lo sposo
mio, s’è mostrato il piú tristo degli uomini.
Fra quante creature han senso e spirito,
noi donne siam di tutte le piú misere.
Ché, con profluvii di ricchezze prima
dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo
— male dell’altro anche peggiore — despota
del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
se sarà tristo o buon: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né
repudïar si può lo sposo. E, giunta
quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,
indovina dovrebbe esser: ché appreso
in casa non ha già come piacere
possa allo sposo. E quando, a gran fatica,
vi siamo giunte, se lo sposo vive
di buon grado con noi, se non sopporta
il giogo a forza, invidïata vita
la nostra! Ma se no, meglio è morire.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscir di casa, e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente. Dicono
che passa in casa, e scevra dai pericoli
la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch’io lo scudo in guerra
imbracciare vorrei prima tre volte,
che partorire anche una sola. Ma
ciò ch’io dico per me, male s’addice
a te: la patria hai tu, la casa tua,
agi di vita, consorzio d’amici:
io sola sono, senza patria, e oltraggio
mio marito mi fa, che me rapiva
da una barbara terra; e non ho madre,
non fratello o parente, a cui rivolgere
possa l’approdo in questa mia sciagura.
Ora io vorrei da te questo impetrare:
se qualche via, se qualche astuzia io posso
escogitare, onde allo sposo infligga
del mal ch’esso mi fa la giusta pena,
tu non parlar: ché in tutti gli altri eventi,
piena è la donna di paure, e vile
contro la forza, e quando vede un ferro;
ma quando, invece, offesa è nel suo talamo,
cuore non c’è del suo piú sanguinario.
corifea
Non parlerò, Medea: ché sarà giusta
contro il tuo sposo la vendetta; né
se del tuo mal ti crucci, io n’ho stupore.
Ma ve’, Creonte, il re di questa terra
s’avanza, ad annunziar nuovi consigli.
Entra Creonte e si volge a Medea.
creonte
A te che truce il guardo volgi, e piena
di cruccio sei contro lo sposo, impongo,
Medea, che tu da questa terra fugga
esule, e teco entrambi i figli tuoi,
e che non tardi. E a che si compia l’ordine
io veglierò; né a casa tornerò,
pria che da questo suol non t’abbia espulsa.
medea
Ahimè, son giunta all’ultima rovina!
I miei nemici sciolsero le gomene
tutte, e porto non è dove io rifugio
trovi dalla sventura. Eppur, sebbene
in tante angustie, chiederò, Creonte,
perché mi scacci dalla terra in bando.
creonte
Di parole raggiri non occorrono.
Temo che qualche male immedicabile
alla mia figlia tu procacci; e molte
ragioni a tal sospetto mio concorrono.
Scaltra di molte male arti maestra
sei tu: pel letto, che ti fu rapito,
del tuo consorte, sei crucciata; e sento
che tu minacci, a quanto pur mi dicono,
che un qualche mal tu vuoi fare alla sposa,
a chi la tolse, a chi la diede. Ed io,
pria di patirlo, mi schermisco. Meglio
venirti in odio, o donna, oggi, che debole
essere, e dopo amaramente piangerne.
medea
Ahimè, ahimè!
Non or la prima volta, anzi sovente,
Creonte, a me nocque la fama, e molti
danni mi procurò. Mai non dovrebbe
nella scïenza un uom di retto senno
troppo scaltrire i figli suoi: ché, a parte
la fama ch’essi d’indolenza avranno,
dai cittadini loro ostile invidia
riscoteranno: ché se nuovi esprimi
fini concetti al vulgo, un perditempo,
e non un dotto sembrerai. Se poi
migliore sembrerai di quanti han fama
di saper vario, in uggia ai cittadini
verrai. Tale destino anch’io partecipo.
D’invidia a questi, d’acrimonia a quelli,
la mia scïenza è obbietto; eppure, è piccola
scïenza; e tu paventi adesso, ch’abbia
a patire da me qualche gran male.
Ma non temermi: ch’io non son, Creonte,
in tale stato che i sovrani insidii.
Tu, che torto m’hai fatto? A chi ti disse
l’animo, hai data la tua figlia. Il mio
sposo aborrisco, sí; ma d’uom di senno
la tua condotta fu; né se a te prosperi
volgon gli eventi, invidia io te ne porto.
Celebrate le nozze, e a voi sorrida
felicità. Ma vivere lasciatemi
in questa terra. Io cederò, sebbene
soverchiata, ai piú forti; e tacerò.
creonte
Dici parole a udir blande; ma nutro
terror che in seno qualche insidia macchini.
Perciò, di te mi fido adesso meno
di prima. Vuoi da un uom, vuoi da una femmina
súbiti all’ira, puoi guardarti meglio
che da un muto rancore. Orsú, partite
al piú presto; e non far troppi discorsi.
Fu deciso cosí; né tale un’arte
possiedi tu, che rimanere possa
vicina a noi, quando ci sei nemica.
medea
No, per le tue ginocchia, e per la sposa!
creonte
Sperdi parole: non potrai convincermi.
medea
Le preci mie non udirai? Mi scacci?
creonte
Perché non t’amo piú della mia casa.
medea
Quanto or m’assale il tuo ricordo, o patria!
creonte
Anch’io su tutto, dopo i figli, l’amo.
medea
Ahi, ahi, che gran malanno è amor per gli uomini!
creonte
Sí, ma secondo il volger degli eventi.
medea
Giove, chi causa fu del mal, tu scoprilo.
creonte
O stolta, va’, da queste pene affrancami.
medea
Pene, io ne soffro; e aggiunte non mi servono.
creonte
T’espelleranno presto, a forza, i famuli.
medea
Non farlo, no, Creonte, te ne supplico.
creonte
Noie vuoi darci, a quel che sembra, o donna.
medea
Lascia che questo giorno almeno io resti,
e il pensier volga a preparare il modo
del nostro esilio, e per i figli miei
il viatico appresti, ora che il padre
di provvedere ai figli suoi non cura.
Abbi pietà di loro: anche tu sei
padre; e devi per loro esser benevolo.
Non mi curo di me, se in bando io vado;
ma la sventura che li coglie, lagrimo.
creonte
Punto l’umore mio non è tirannico,
e spesso per pietà feci il mio male.
Ed or vedo che sbaglio, o donna; eppure
ciò che brami, otterrai; ma ti prevengo:
se la vampa del sol, dimani al sorgere
vedrà te coi tuoi figli in questa terra,
tu morrai: non sarà vana parola.
Esce.
coro
O donna infelice,
ahi, ahi, le tue doglie ti rendono
ben misera. Dove potrai
rivolgerti? In quale ospitale
o terra o magione,
rifugio dai mal’ troverai?
In qual gorgo di mali, o Medea,
invisibili, un Dio ti sospinse?
medea
Il mal mi stringe da ogni parte: chi
potrà negarlo? Eppure, questo l’esito
non sarà degli eventi, oh, non crediatelo!
Nuovi cimenti i nuovi sposi attendono,
e non piccole angustie i loro suoceri.
Pensi tu che Creonte avrei blandito
senza vantaggio averne, o senza insidia?
Parlato non gli avrei, le sue ginocchia
non avrei strette. Ed egli è giunto a tale
stoltezza, che potea, da questa terra
scacciandomi, le mie trame deludere,
e invece consentí ch’io rimanessi
questo dí, ch’io tre miei nemici uccidere
voglio: il padre, la figlia, e il mio consorte.
E molti modi, o amiche, avrei d’ucciderli,
e non so bene a qual m’appigli prima:
se degli sposi arda la casa, o spinga
un ferro acuto a lor traverso il fegato,
entrando muta dov’è steso il talamo.
Ma un punto a me s’oppone: ove sorpresa
fossi mentre io varco la soglia, e tramo
l’arti mie, sarò morta, ai miei nemici
sarò di scherno oggetto. Oh, meglio assai
batter la via diritta, ov’io maestra
sono eccellente: coi veleni ucciderli.
Ahimè!
Ecco, son morti. E in qual città trovare
posso io rifugio? Quale ospite, offrendomi
terra d’asilo, e casa invïolabile,
la mia persona salverà? Nessuno.
Dunque, attendendo breve tempo ancora,
se per me qualche baluardo appaia,
perseguirò con frode e con silenzio
la loro strage; e, dove poi m’incalzino
senza uscita gli eventi, un ferro stretto,
a violenza aperta romperò,
li ucciderò, morir dovessi, io stessa.
Ché mai — lo giuro per la Dea che piú
di tutte l’altre venero, che all’opera
scelsi compagna, per Ecate, ch’abita
nei penetrali della casa mia —
niuno s’allegrerà che il cuor mio crucci.
Amare e luttuose io renderò
le nozze ad essi, amaro il parentado
e il bando mio da questa terra. Orsú,
non risparmiar delle tue trame alcuna,
Medea, dell’arti tue: muovi all’orribile
punto: ché agone d’ardimento è questo.
Vedi il sopruso che patisci? Oggetto
di riso a nozze di Giasone, a nozze
di Sisifídi1 esser non devi tu,
che figlia sei d’un padre illustre, e vanti
avolo il Sole. Tu sei saggia. E poi,
donne nascemmo, al bene oprare inette,
ma d’ogni male insuperate artefici.
Si trae da parte e rimane muta ed assorta.