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MEDEA | 31 |
noi donne siam di tutte le piú misere.
Ché, con profluvii di ricchezze prima
dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo
— male dell’altro anche peggiore — despota
del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
se sarà tristo o buon: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né
repudïar si può lo sposo. E, giunta
quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,
indovina dovrebbe esser: ché appreso
in casa non ha già come piacere
possa allo sposo. E quando, a gran fatica,
vi siamo giunte, se lo sposo vive
di buon grado con noi, se non sopporta
il giogo a forza, invidïata vita
la nostra! Ma se no, meglio è morire.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscir di casa, e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente. Dicono
che passa in casa, e scevra dai pericoli
la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch’io lo scudo in guerra
imbracciare vorrei prima tre volte,
che partorire anche una sola. Ma
ciò ch’io dico per me, male s’addice
a te: la patria hai tu, la casa tua,
agi di vita, consorzio d’amici:
io sola sono, senza patria, e oltraggio
mio marito mi fa, che me rapiva
da una barbara terra; e non ho madre,
non fratello o parente, a cui rivolgere