Manuale del dilettante del caffè/IX
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CAPO IX.
In Turchia, sotto la vigilanza della Porta, vi è un considerabile stabilimento, nel quale un gran numero di operai sono occupati ad abbrustolire il caffè Moka, ed a pestarlo in grandi mortaj. Lo si distribuisce in polvere quasi impercettibile ai caffettieri ed ai mercatanti secondo le dimande che i essi ne fanno. I privati hanno pure la facoltà, mediante un leggero diritto, di portare del caffè a tale stabilimento per farlo abbrustolire e prestare; ma è proibito sotto severissime pene di mescolare col caffè di Arabia quello di America, meno caro e meno pregiato; lo che non impediva che la città di Marsiglia da se sola non ne somministrasse un tempo per il valore di più milioni ogn’anno.
I Turchi hanno i Kaveghi, ossia ufficiali del caffè. Nel serraglio vi sono parecchi Kaveghi; ciascuno di questi presiede a venti o trenta battargi, che sono incaricati dì preparare questo gradevole liquore. Essi cominciano dal porre il caffè a secco in una gran brocca, che chiamano gbrik, e lo fanno riscaldare a fuoco lento, o semplicemente sopra ceneri calde, agitandolo sovente sintanto che sparge un grato odore, poi versanvi sopra dell’acqua, nella quale hanno fatto bollire la feccia del caffè del giorno precedente, e che si lascia chiarificate; poi lo ripongono sul fuoco, senza aspettare per ritrarnelo che bollisca; basta che veggano comparire una lieve schiuma biancastra simile al fior di latte, lo versano allora da un vaso in un altro due o tre volte. Per chiarificarlo pongono sul coperchio della caffettiera un lino bagnato d’acqua fredda, oppure ne gettano una cucchiajata nel caffè. Nulladimeno succede assai spesso che i Turchi lo prendono torbido per gusto; lo preparano talora più semplicemente: mettono le polveri di caffè nell’acqua alla quale fanno subire dieci o dodici bolliture. Ne usano quasi tutta la giornata, ed il liquido che l’acqua appresta con tre o quattr’oncie di caffè riguardasi appo loro come una dose discreta per la giornata d’una persona. Questa è la bevanda solita che si sostituisce al vino. Non v’ha nè povero, nè ricco, che non ne beva almeno due o tre chicchere al giorno; e sembra tanto necessaria alla vita, che sovente un marito si obbliga, per contratto di matrimonio, di provvederne la futura sua sposa. Essi la prendono caldissima, in piccole chicchere di porcellana, senz’aggiungervi nè zucchero, nè latte, ma sempre a digiuno. Altrettanto varrebbe, dicono secondo la massima del paese, inghiottire il bottone del suo abito; mangiano prima alcune fritture.
Quando visitate un Turco, s’egli vi stima, vi fa subito recare una chicchera di caffè; se ve ne vien presentata una seconda, ciò è segno che godete d’un’alta estimazione nel suo animo: ma è anche fare un’ingiuria il non accettarla, o non offrirne: essi ne attestano il lor odio col loro disprezzo. Le case dove lo si vende publicamente sono frequentatissime, e assai riccamente addobbate: vi sono per lo più dei cantori, stipendiati dal proprietario per attirarvi la gente. Thevenot nel suo Viaggio in Levante, dice che quando si entra in una cavehana, si ode una piacevole musica di sorseggiamenti, perchè il caffè che ivi si dà, sendo caldissimo, lo si beve a centellini, per timore di bruciarsi. Quando alcuno vede arrivare un personaggio di sua conoscenza od un altro individuo di aspetto civile, s’egli è gentile, darà ordine al padrone di casa di non prender denaro da lui, e ciò colla sola parola giaba, cioè gratis. Siccome in Francia si dà del denaro per bere a chi ha renduto alcun servigio, così vien dato a Costantinopoli e altrove nel Levante, cahouè-alkchehsi, il denaro del caffè.
Chardin, nel suo viaggio in Persia, descrive i caffè d’Ispahan: dice che sono sale spaziose, elevate in diverse maniere, dove si veggono bacini d’un’acqua bellissima, che contribuisce a mantener la freschezza: dei palchi all’intorno alti tre piedi sono destinati a sedere alla guisa degli asiatici. La sera vi è il più gran concorso: vi si parla di politica, si attende a varii giuochi: anche i poeti vanno in quelle sale a recitare i loro versi. Un Mollach si mette talvolta in piedi nel mezzo del caffè, e predica ad alta voce, oppure un Dervich entra all’improvviso, e indirizza il suo discorso alla compagnia sulla vanità del mondo, de’ suoi beni, degli onori suoi: niuno è obbligato ad abbandonare la sua conversazione, nè il suo giuoco. Sovente accade che due o tre individui parlino nel tempo stesso: l’uno sarà un predicatore, l’altro un novelliere, e avendo ciascuno finito di discorrere, dimanda qualche cosa agli astanti. Ma sembra, secondo Olivier, che queste case publiche sieno assai dicadute dal loro splendore, e non sieno così frequentate come lo erano in addietro.
In questi ultimi tempi non potendo i Persiani più parlarvi liberamente, nè farvisi vedere senza dar luogo a informazioni e perquisizioni che potevano divenir loro funeste, si sono disavvezzati a poco a poco d’una bevanda che per l’opposto diventa ogni giorno più generale appo i Turchi. La più dei caffè che si veggono il Ispahan, distribuiscono soltanto pillole d’oppio e beveraggi fatti con teste di papaveri o con foglie di canapa.