Lydia/V
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V.
Il mese di luglio, a Livorno.
Sulla rotonda dello stabilimento i bagnanti procuravano di ingannare, ciarlando, lavorando o leggendo, le lunghe ore del pomeriggio.
Nell’arena della spiaggia i fanciulli correvano; gli adolescenti, sdraiati al sole, si annerivano con profonda convinzione, stendendo le membra libere nella caldura; qualcuno, sepolto a mezza vita dentro la ghiaia, ergeva il busto immobile, pari ad una sfinge.
Dall’acqua salivano voci confuse, domande che si perdevano sotto a un’ondata, piccoli strilli, grida giulive, esclamazioni di trionfo, richiami, segni di convenzione. Braccia candide e toraci muscolosi apparivano e sparivano alternativamente, ora cullati, ora travolti dai marosi. Chiome di donna sciolte nella lotta radevano la superficie dell’acqua, mentre un bel corpo impavido filava dolcemente alla luce, supino, facendo il morto.
A tratti, dopo aver compito un salto magistrale, i giovinotti uscivano tutti stillanti verso la rotonda, quasi aspettando un premio. Dal parapetto della rotonda si protendevano allora, riparate dai larghi ombrelli, testine bionde e brune; due o tre parole volavano nella brezza marina; uno scoppio di risa soffocato faceva ondeggiare le mussoline e, talvolta, un fiore o una pezzuola trinata cadevano dall’alto in mare.
Un sole di fuoco bruciava e illuminava ogni cosa.
— Madamigella Lydia non è ancora ritornata dalla pesca?
— Al giorno d’oggi anche i granchiolini sono smaliziati; non si lasceranno prendere.
Il dialogo seguiva a fior d’acqua fra un giovane Ercole in maglia color ferro e un altro giovane che sporgeva il petto velloso sopra un paio di mutandine rigate.
— Quel duca pare innamorato cotto.
— È una disgrazia come un’altra; poteva rompersi una gamba.
— E sarebbe stato peggio.
— Chi sa...
Il giovane Ercole sparì sotto le onde e ricomparve pochi passi lontano, sbuffando, spruzzando intorno acqua come un tritone.
— Non c’è che dire, è alla moda. Veste deliziosamente, parla di tutto con disinvoltura ammirabile; fuma, va a cavallo, bestemmia, in francese, questo sì, ma bestemmia; l’ho sentita io. E, con tutto ciò, diciotto anni.
— O venti.
— Non mi piace il suo naso, per esempio pare una pantofola turca.
— Si caccia dappertutto.
— Come naso o come pantofola?
— L’uno e l’altro probabilmente. Sei stanco?
— No.
— Andiamole incontro.
— Tu le hai fatto un po’ la corte?
— Nemmen per sogno. Rido, come fanno gli altri.
— Però non è neanche da buttar via...
— Peuh! Tutta artefatta, incominciando dal nome, al quale aggiungo una vocale fantastica, fino ai capelli che non hanno più nessun colore, a furia di averli presi tutti.
— Chi sa anche se ha vent’anni! Fabbricano adesso uno smalto che ringiovanisco per miracolo.
Una barca veniva verso loro, colla vela bianca saettata da sole.
— Eccola! Forza, ci faremo prendere a bordo.
Dalla barca s’erano scôrti i due nuotatori, e un fazzolettino agitato con vivacità li incoraggiava a proseguire. Era il fazzolettino di Lydia, la quale, ritta sulla prua, posava sapientemente nello sfondo del cielo e del mare, felice di avere una così splendida cornice.
Si rizzava sulla personcina minuscola, dando al vento la sottana turchina orlata di galloni bianchi. Una maglia bianca le aderiva al petto e alle braccia con precisione scultoria, aprendosi davanti, negli ampi risvolti del colletto alla marinara, che lasciava scorgere la fossetta della gola e l’elegante nervatura del collo; una crocellina d’oro, appesa ad una catenella saldata, segnava il limite della clavicola, e metteva un punto luminoso sulla bianchezza opaca delle carni. In testa, posto alla sgherra, un cappello a tese dritte, decorato dell’àncora tradizionale, non nascondeva la lussureggiante capigliatura, variegata come l’iride.
Tutta quell’aria che la circondava, quella luce piovente dal cielo e riflessa dal mare, quel forte odore di catrame e di salsedine la inebbriava, accendendole nel sangue un brulichìo, un bisogno di moto, una vitalità espansiva e comunicativa. Ella fremeva battendo i piedini, che visti così sull’orlo della barca, calzati di scarpuccie iridate, sembravano ali di farfalla. Posava nel sole, davanti alla natura, nella ebbrezza della sua gioventù; posava con arte, ma anche con sincerità, come un mimo convinto della sua parte.
Un’altra circostanza contribuiva a renderla allegra; era la faccia estasiata del duca di Castel Gabbiano, quasi in ginocchio davanti a lei. Quellinfelice aborto, rachitico e vizioso, visto là nell’ampiezza del mare, formava un contrasto piccante, e Lydia, che non pretendeva a nessun sentimentalismo, nè di cuore nè di intelletto, trovandolo buffo, ne rideva.
Sulle prime s’era prestata, per civetteria, ad accogliere gli omaggi del giovane principe, che da un mese le faceva una corte assidua. Trovava curioso di sentirsi ripetere tutto quello che egli doveva già aver detto alla contessa Colombo, e le modificazioni che necessariamente introduceva nel suo frasario galante, la mettevano di buon umore.
Quando le dichiarava, in estasi, la sua adorazione per i visetti bianchi sfumati in color di rosa, Lydia pensava alla faccia gialla della contessa. L’avrà paragonata ad un arancio, come già fece un poeta, concludeva in sè stessa, e le accadeva allora di mormorare a fior di labbro, trattenendo le risa: — Elle était jaune comme une orange! — e il duchino, che non aveva letto Musset, continuava a guardarla in estasi.
Ma a poco a poco, alla leggerezza giovanile di quella civetteria si aggiunse una specie di crudeltà. Lydia godeva nel vederlo soffrire; godeva non per cattiveria, ma per leggerezza; perchè andava già formandosi del mondo un concetto pessimista. Scettica per posa e per imitazione, quest’abito le si stringeva sempre più al dosso, formava una cosa sola colla sua pelle. Tutti erano così, bisognava esser così. Nello stesso modo che, narcotizzandosi, si taglia una gamba senza dolore, ella era passata dalla fanciullezza alla maturanza, saltando il faticoso periodo delle prove del cuore. Prendere più che poteva, dare meno che poteva, ecco la teoria.
— Hop! Hop! — gridava, dalla sua vedetta di prua, ai due intrepidi nuotatori; mentre che dietro a lei, invidioso e geloso, il duca di Castel Gabbiano nascondeva il cranietto pelato.
Quando i giovinotti saltarono nella barca, il fragile legno ebbe una scossa; Lydia traballò e dovette aggrapparsi ad una di quelle braccia che le lasciò il guanto bagnato d’acqua salsa; poi sedette, con spigliatezza forzata, in mezzo ai due uomini, palpitanti per la fatica superata, e sui corpi dei quali le goccioline del mare luccicavano come di sotto alle fontane luccicano i dorsi atletici dei Nettuni.
— Avete freddo? — biascicò il duca.
— No, vivaddio, non abbiamo freddo; guardateci piuttosto!
Il giovane che aveva parlato si atteggiò, in piedi, nel mezzo della barca, coi garretti tesi, il petto sporgente, il braccio alto come per sfida. Tutta la giocondità del sole pioveva sul suo corpo pastoso e lucente a guisa di un bel bronzo antico.
Lydia, senza affettazione, abbassò gli occhi, turbata suo malgrado; ma non volendo mostrarsi ingenua, nè passare per una sciocca educanda, li rialzò quasi subito, riattaccando il discorso con alcune frasuccie insignificanti.
Del resto, che cosa glie ne importava? Si sentiva superiore ad ogni puerilità; non avrebbe arrossito a nessun costo; e poi non voleva guardare i loro piedi, oh! i piedi no; sono così brutti i piedi degli uomini!
— Andare in barca è uno dei più grandi piaceri ch’io mi conosca.
Disse, lasciandosi cadere mollemente sui cuscini, ambe le braccia stese verso il mare e la testa rovesciata indietro, come in un profondo anelito d’ebbrezza.
I due giovinotti si scambiarono uno sguardo malizioso e sardonico; l’Ercole rispose con un sorriso pieno di sottintesi, ammiccando:
— La barca è poetica; lor signorine vi trovano un pascolo ai rosei sogni, alle dolci contemplazioni...
Le parole, in sè stesse, non significavano nulla; ma quello sguardo e quel sorriso dissero ben altro alla sua intelligenza svegliata. Ebbe la sensazione di trovarsi sola e senza difesa in un campo nemico, fra due uomini che la desideravano disprezzandola, e uno che giurava di amarla senza avere il coraggio di difenderla. Comprese in quel momento quanta viltà si annida nel cuore dell’uomo, dell’uomo che la società le mostrava sempre ossequioso e pieno di delicati riguardi.
— Oh! no, no — si affrettò a ribattere con audacia, servendosi dell’arme stessa, — io non sono niente affatto poetica, non ho sogni rosei, e non contemplo dolcemente nulla e nessuno.
Sorrise anche lei, ammiccò anche lei, sentendosi nel petto un’ira sorda e come un velo davanti agli occhi. Avrebbe voluto schiaffeggiare il duca; le faceva veramente rabbia colla sua faccia da cretino; ma nessun segno della lotta interna apparve a turbare il suo visetto roseo, ch’ella rinfrescava agitando lievemente il ventaglio.
Voleva riprodurre le attitudini sapienti della Capitelli; la vita bene appoggiata, i gomiti rientranti, alto il petto, lo sguardo nuotante in un languore indefinito, e le labbra semichiuse, umide, quasi cercanti il bacio.
Una rapida occhiata la persuase che il suo giuoco riusciva. — Sono imbecilli tutti e tre — pensò; e tale convinzione valse a rasserenarla.
Una barca passava. Era carica di giovinotti i quali conducevano a spasso la sposina più alla moda in quell’anno: una bellezza di serva ben pasciuta, cogli abiti di chi ha molti danari da spendere e il contegno di una parigina del quartiere Breda; ma non avendo, in quel momento, abito di sorta, se non un lungo accappatoio ondeggiante alla brezza, restava coi più preziosi de’ suoi doni. I compagni di Lydia si voltarono a guardarla, ed ella stessa, nella recente vittoria, si sentì mordere al cuore da un senso volgare di invidia. Poichè sono quelle le donne che piacciono!... Tale convincimento le entrava sempre piú nell’anima.
S’era levato il cappello. Il vento marino agitava alcune ciocchette bionde intorno alla sua fronte; il sole le indorava la sommitá del capo, dove i capelli apparivano color di rame, e dietro, sulla nuca, tra le ombre sinuose di una grossa treccia, il bruno naturale tradiva gli artifici della polvere di riso e dell’olio di nocciuole.
— Perchè, — chiese il duca, dopo avere ridosso lungamente alla necessitá di dire qualche cosa, — ella incipria i capelli? Starebbe pur bene tutta nera, come ala di corvo.
— Reminiscenze e rimpianti!
Lydia pronunciò queste parole con accento così buffo, che i due giovinotti risero, afferrando subito l’allusione.
La pace era fatta; oramai si trovavano uniti per divertirsi e per scherzare. Dandosi reciprocamente dell’imbecille e della civetta, si sorridevano guardandosi, come gli auguri antichi.
— E perchè poi — disse Lydia, godendosi l’imbarazzo del duca — gli uomini fanno la corte alle donne vecchie?
L’Ercole scattò con un movimento vivace, la sua spalla nuda quasi urtava la spalla della fanciulla.
— Perchè le giovani non sanno amare.
Lydia non si mosse. Ricevette in pieno lo sguardo audace, mordendosi delicatamente le labbra. Ella guardava con interesse i muscoli del di lui petto trasparenti sotto la maglia e i rilievi poderosi del bicipite. Pensò ancora:
Come fanno ad essere così forti e così deboli? Disse:
— Sì, ha ragione. Bisogna aspettare l’ora della passione; intanto che si è giovani è meglio ridere.
Il giovinotto dal petto velloso mormorò piano all’amico:
— Vuol serbarsi una pera per la sete.
Il dialogo continuò, rotto, a frecciate, a monosillabi, a sottintesi, salato come l’acqua scottante come il sole che li circondava, e il riso argentino di Lydia volava nella brezza.
Sulla rotonda dello stabilimento don Leopoldo inquieto seguiva coll’occhio l’avvicinarsi della barca. Donna Clara, stesa in poltrona, dava alcuni punti ad un ricamo.
— Davvero — si decise a dire il vecchio gentiluomo dopo avere parecchie volte scosso il capo — questi bagni permettono troppe licenze... non poetiche.
Aggiunse questo scherzo innocente per non aver l’aria di fare una predica; ma donna Clara, che la vedeva già all’orizzonte, rispose un po’ aspretta:
— Basta non metterci malizia nelle cose.
— Mettiamo niente, mia cara; restano tuttavia quei due giovinetti, a cui si dovrebbe pur mettere almeno un accappatoio...
Donna Clara interruppe:
— Avresti preferito ch’ella li lasciasse morir di sfinimento dopo la lunga traversata?
— No, avrei preferito che essi non si fossero permesso di scambiare la barca di mia nipote per un camerino da bagno o per un cerchio di salvataggio... Preferirei poi, infinitamente, che Lydia incominciasse a cambiare il terreno de’ suoi atti di virtù. La storiella di Belgirate l’ha già compromessa abbastanza, e la società è molto maldicente.
— Appunto. Se ci dovessimo occupare dei suoi giudizi si starebbe freschi. Dieci anni or sono, quando morì mio marito e che tu venisti a stabilirti con noi, non si disse forse che eri il mio amante? Il Signore sa se questo è vero.
— Ed io! — mormorò don Leopoldo, lentissimamente, sentendosi puro.
Ma lo prese poi subito il rimorso di non essere stato abbastanza cortese, e si chinò verso di lei, toccando i gomitoli di seta che teneva sui ginocchi:
— Sai, Clara, quanto bene voglio alla piccina.
— Non ne dubito; ma le tue idee sono arretrate di mezzo secolo; non prendi il mondo come è; sembra che non lo conosca nemmeno il mondo; sei una specie di vecchia zitella...
Don Leopoldo arrossì, chinando il capo. Finiva, come al solito, per cedere a sua cognata, la quale si drappeggiava nel trionfo, avendo sempre nel suo sangue borghese un fondo di irritazione contro la nobiltà, che trovava piena di pregiudizi.