russo

Aleksandr Sergeevič Puškin 1824 1856 Louis Delâtre Indice:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu Racconti Li Zingari Intestazione 24 gennaio 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Racconti poetici


[p. 33 modifica]







LI ZINGARI.

[p. 35 modifica]



Una nomade truppa di Zingari perlustra le steppe della Bessarabia. Oggi essi pernottano presso a un fiume sotto le loro trabacche lacere. La loro dimora è gaia come la libertà, e il loro sonno è quieto nell’aperta campagna. Il fuoco arde fralle ruote dei carri mezzo ricoperti di tappeti; la famiglia seduta in cerchio allestisce la cena; un orso addomesticato riposa dietro le tende; i cavalli pascono nei prati vicini. Ogni cura, ogni faccenda si adempie con piacere; i preparativi per proseguire il viaggio sin dallo spuntar del dì seguente, vengon alleviati dai canti delle donne; i gridi dei fanciulli si mischiano alle battute del martello sulla incudine. Ma già la calma subentra a tutto quel fracasso: l’accampamento dorme, e appena s’ode nel deserto il latrar d’un cane o il nitrir di un cavallo. Tutti i fuochi sono spenti, ogni cosa tace; la luna solitaria spazia nel vasto empireo, e imbianca coi suoi raggi quel villaggio ambulante. Tutti dormono nelle tende, fuorchè un vecchio seduto davanti a un bracere che esala i suoi ultimi vampi. Il vecchio volge lo sguardo sulle pianure circostanti sepolte nelle tenebre. La giovine sua figlia, avvezza a una libertà assoluta, se n’è ita per diletto nelle steppe: essa tornerà, ma intanto la notte è sopraggiunta. Già la luna [p. 36 modifica]s’asconde fra i vapori dell’orizzonte, e Zemfira non riede, e la cena frugale del buon padre si raffredda.

Finalmente essa comparisce. Uno straniero, incognito al vecchio zingaro, le tien dietro a passi frettolosi. “Padre mio,” esclama la ragazza; “ti adduco un ospite; l’ho incontrato dietro a un tumulo del deserto, e l’ho persuaso a star con noi. Egli brama viver come noi; la legge lo proscrive, io gli sarò compagna. Si chiama Alecco; è pronto a seguirci dovunque andremo.”

Il Vecchio. Me ne rallegro: puoi restar fino a domani all’ombra della nostra tenda, o unirti a noi e non ci lasciar più, come a te piace. Acconsento a divider teco il pane e il tetto. Sii nostro; assuefátti al nostro modo di esistenza, alla nostra povertà errante e indipendente. Colla nuova aurora partiremo assieme sullo stesso carro: scegli un mestiere che ti torni a genio; lavora il ferro, o canta storie, o mena a ballar l’orso per le strade.

Alecco. Io resto.

Zemfira. Egli sarà mio. Chi ardirebbe rapirmelo? Ma si fa tardi; la luna è sparita, la nebbia vela i campi, il sonno mi grava le palpebre....


Spunta l’alba. Il vecchio s’aggira pian piano intorno alla tenda silenziosa. “Alzati, Zemfira,” egli grida; “già il sole splende: svegliati, mio ospite, è ora di partire; lasciate, figli miei, le molli piume.”

Tutti gli zingari si levano con gran rumore; ripiegano i padiglioni, rimovono i carri, attaccano i cavalli, e tutti insieme si inoltrano nelle steppe [p. 37 modifica]inabitate. Aprono la marcia gli asinelli con ceste appese ai fianchi, nelle quali s’annidano i pargoletti; i mariti, i fratelli, le mogli, le fanciulle, gli anziani e i giovanotti vengono in secondo luogo. Le strida, lo strepito, gl’inni festosi, il ronzio delle zampogne, l’abbaiare dei cani, il cigolio delle ruote, il brontolar dell’orso, il fragor incessante delle sue catene, la bizzarra varietà di quelli abbigliamenti tutti diversi, la nudità di quei bambini e di quei vecchi formano una confusione strana, selvaggia, orrenda, ma in mezzo a cui regna una allegria, una vivacità, che fa un bel contrasto colla nostra esistenza cittadina, effemminata e monotona come i ritornelli delli schiavi.

Alecco rivolgeva spesso la testa a guatare la pianura che attraversavano, e non sapeva spiegarsi in che modo quella vista gli angosciava il cuore. La bella Zemfira dagli occhi neri gli siede allato. Egli è libero in questo vasto mondo; il sole brilla sereno e gaio sul suo capo; perchè mai si affligge e geme? Che cura lo punge e morde?

L’augelletto del cielo non conosce nè cura nè fatica; non s’affanna a fabbricare un nido eterno; nelle lunghe notti dorme sui ramoscelli. Quando il giorno appare, l’augelletto sente la voce di Dio, scuote le penne e canta. Passa la primavera, passa l’estate ardente, e sopravviene l’autunno ammantato di nebbie e di burrasche; l’uomo s’annoia, l’uomo s’altrista, ma l’augelletto vola alle terre lontane, ai climi tiepidi, e al di là del mare ceruleo ritrova la primavera.

Esule, fuggitivo, Alecco simile all’augelletto spensierato, non ha covo stabile nè abitudine [p. 38 modifica]fissa. Ogni strada lo conduce al suo scopo, ogni coltrice gli concede un dolce riposo; nel destarsi la mattina offre a Dio la sua giornata, e i trambusti della vita non poterono mai estirpare la sua indolenza. Talvolta la sua stella sembrava invitarlo a calcare il sentiero della gloria, talvolta la fortuna e la voluttà gli largivano i loro favori; spesso il fulmine mugghiava sulla sua fronte isolata, ma egli dormiva sicuro in mezzo alle tempeste come in mezzo alla calma, e continuava ignorare la violenza del destino perfido e ceco. Oh come le passioni tiranneggiavano il suo cuore! Con che tumulto esse fervevano nel suo egro seno! Quanto è che si placarono? Per quanto tempo si sono placate? Aspettiamo.

Zemfira. Dimmi, dolce amico, non rimpiangi quel che abbandonasti per sempre?

Alecco. Che ho io abbandonato?

Zemfira. La patria, i concittadini.

Alecco. Perchè li rimpiangerei? Se tu conoscessi, se tu potessi figurarti quanto è angustiata e schiava la vita delle città! Ivi gli uomini, ammucchiati e stretti come piante in un orto, non respirano mai il rezzo del mattino nè l’olezzo vernale dei prati; si vergognano d’amare, bandiscono il pensiero, mercano la libertà, chinano la fronte davanti agli idoli e ne implorano oro e catene. Che ho io abbandonato? Il dolor del tradimento, la prepotenza del pregiudizio, la persecuzione del volgo insano, e l’opprobrio splendido.

Zemfira. Ma lì vi sono palazzi immensi, variegati tappeti, giochi, banchetti festosi; lì le fanciulle vestono sì ricchi abiti! [p. 39 modifica]

Alecco. Che vale l’allegria delle città? ove non è amore, non può esser piacere: e le fanciulle.... Quanto sei più bella di loro benchè priva di preziosi addobbi, di perle e di collane! Non mutar idea, o mia diletta! — Ed io altro non bramo che divider teco l’amore, l’ozio e il mio volontario esilio....

Il Vecchio. Sebbene nato in una opulenta città, tu ci ami; ma la libertà non sempre è cara a chi visse nella mollezza. Ascolta una nostra tradizione: un abitante del sud fu mandato in bando fra noi dal suo signore. Io sapeva il suo nome; ma era difficile a pronunziarsi, e l’ho dimenticato. Quantunque avanzato d’età, aveva un cuore giovine, un tratto vivace; possedeva il dono maraviglioso del canto, e la sua voce somigliava al mormorío delle onde. Tutti gli volevano bene. Viveva sulle sponde del Danubio, non faceva male a nessuno e divertiva la gente coi suoi racconti. Non sapeva egli far altro; era debole e timido come un bambino. I suoi vicini acchiappavan per lui gli uccelli e i pesci colle reti; quando il rapido fiume s’agghiacciava, e fischiavano i turbini invernali, i suoi conoscenti lo involtavano di calde pellicce; ma non potè mai assuefarsi ai disagi d’una esistenza così stentata. Egli s’aggirava intorno smunto, squallido, dichiarava che l’ira di Dio lo puniva per i suoi peccati, e aspettava l’ora della sua liberazione. Malcontento di tutto e sempre afflitto, vagava sulle spiaggie del Danubio spargendo amare lacrime al sovvenire del suo lontano paese. E quando fu per morire, ci scongiurè che portassimo le sue triste ossa verso il sud, ma nè anche dopo morte potè egli trovare il riposo in questa terra da lui aborrita. [p. 40 modifica]

Alecco. Tal fu la sorte dei tuoi figli, o Roma, o potente rettrice delle nazioni. Vate dell’amore, poeta degli Dei, dimmi, che cosa è la gloria? Un’eco del sepolcro, un grido della fama, un suono che sorvola di generazione in generazione: — oppure un racconto del nomade Zingaro sotto l’ombra della sua tenda affumicata?


Due anni passarono. La pacifica famiglia degli Zingari tuttora corre a caso per le campagne. Dappertutto, come altre volte, incontrano buona accoglienza, e vivono in pace fra di loro e cogli altri. Sciolto dai ceppi della civiltà, Alecco è libero come essi; e con essi conduce una esistenza vagabonda scevra di cure e di timori. Più non rimembra il tempo passato, e s’è avvezzo alla vita zingaresca. Gli piace dormire all’ombra delle tende instabili, gli piace l’ozio perpetuo in che vive coi suoi compagni, e ama persino la loro lingua inculta e scarsa. L’orso strappato dalla tana natia, ospite irsuto della di lui baracca, danza pesantemente e grugnisce nei villaggi, lungo le strade delle steppe, nei casali, davanti alla turba cauta e prudente, e dappertutto va rodendo le importune sue catene. Il vecchio, puntellato al suo bordone, batte con indolenza il tamburino, Alecco guida la belva cantando, Zemfira va in giro a raccogliere il tributo volontario dei contadini. La notte soprarriva, tutti e tre cuociono il miglio non macinato. Il padre dorme, tutto tace, tutto è quiete e oscurità nel padiglione.


[p. 41 modifica]

Il vecchio refocilla al sole di primavera il suo sangue gelato dall’età; la giovinetta canta una canzone d’amore allato ad una culla. Alecco ascolta, e freme.

Zemfira.

             Vecchio marito,
             Sposo aborrito,
             Scannami pure
             Colla tua scure;
             Io ti disprezzo,
             Mi fai ribrezzo;
             Un altro adoro,
             Per lui mi moro.

Alecco. Chetati. Codesta aria mi secca. Non mi piacciono quelle parole feroci.

Zemfira. Non ti piacciono? Che mi importa? Io canto per me e non per te.

             Vecchio marito,
             Sposo aborrito,
             Da te trafitta,
             Io starò zitta;
             Il nome tuo
             Bestemmierò;
             Il nome suo
             Non ti dirò.
             Per lui sol canto;
             È l’idol mio;
             Ei m’ama tanto!
             Ma più l’amo io.

Alecco. Cessa, Zemfira, cessa....

Zemfira. Che l’hai capita la mia canzone?

Alecco. Zemfira!... [p. 42 modifica]

Zemfira. Adirati pure; io canto per te. (Se ne va cantando Vecchio marito).

Il Vecchio. Me ne ricordo; questa frottola fu composta quando ero giovine; e d’allora in poi si canta per sollazzar le brigate. La mia Mariola la cantava nelle steppe del Cagul, durante le notti d’inverno, mentre cullava la figlia davanti al fuoco. I tempi andati si van sempre più cancellando dalla mia memoria, ma questo scherzo vi si è profondamente impresso.


Tutto tace; la luna inostra quella parte del cielo ove il sole sparisce. Zemfira risveglia suo padre. “O padre mio, Alecco mi spaventa. Ascolta, in mezzo a un sonno agitato egli geme e piange.”

Il Vecchio. Non lo toccare e non parlare. Ti dirò una credenza russa: verso la mezza notte il genio familiare opprime il respiro di coloro che dormono; parte prima dell’alba. Rimanti meco.

Zemfira. O padre mio! Egli mormora il nome di Zemfira!

Il Vecchio. Cerca di te anche dormendo, tu gli sei più cara di tutto.

Zemfira. Non me n’interessa più del suo amore. Sono annoiata; il mio cuore ha sete di libertà, e di già io.... ma.... senti. Egli pronunzia un altro nome!

Il Vecchio. Che nome?

Zemfira. Senti come anela e digrigna i denti. Che cosa orrenda!... Io lo sveglierò.

Il Vecchio. Non fare; non scacciare lo spirito della notte, se ne andrà da sẻ. [p. 43 modifica]

Zemfira. Si è voltato, si alza, mi chiama, si è destato. Io vo presso di lui. Addio, padre; raddormentati.


Alecco. Ove sei ita?

Zemfira. Da mio padre. Un demone ti toglieva il respiro e ti tormentava l’anima mentre dormivi. Mi hai fatto paura. Tu digrignavi i denti, e proferivi il mio nome.

Alecco. Mi sei apparsa in sogno. Mi sembrava trovarti con.... insomma, ho fatto un sogno spaventevole.

Zemfira. Non prestar fede alle visioni notturne.

Alecco. Ah ch’io non credo a nulla, nè ai sogni, nè alle proteste affettuose, nè al tuo amore.


Il Vecchio. Perchè mai, giovine insensato, sospiri continuamente? Qui ognuno è libero, il cielo è chiaro, ed è celebre la bellezza delle donne. Non piangere, la mestizia ti ucciderebbe.

Alecco. O padre! essa non mi ama più.

Il Vecchio. Plácati. Essa è bambina. Il tuo sospetto è senza fondamento, tu ami sul serio, ma le fanciulle scherzano. Mira! la luna signora dell’etra passeggia pei campi azzurrini del cielo; fonde egualmente i suoi raggi sopra tutta la natura. Se talora s’imbatte in una nuvola, l’illumina splendidamente, ma tosto trapassa a un’altra, nè vi si fermerà a lungo. Chi potrà assegnarle un posto fisso e dirle: non andrai più oltre? Chi potrà dire a un giovin [p. 44 modifica]cuore: ama una sola volta, non cangiar mai d’amore? Plácati.

Alecco. Essa mi amava tanto! Teneramente adagiata fralle mie braccia, quante notti felici condusse meco nel deserto! Quante volte quell’allegria spontanea, quel cicalio infantile, quel bacio inebriante, seppero in un momento dissipare le mie ambasce! Ma che? Zemfira mi tradisce! Zemfira mi dimentica.

Il Vecchio. Odi. Io ti narrerò un fatto che mi concerne. In un tempo remoto, quando il Moscovita non minacciava ancora il Danubio.... — Vedi, Alecco, ch’io sto per dirti una antica istoria. — Quando obbedivamo al Sultano, e un pascià ci signoreggiava dalle alte torri di Accherman.... Io era giovine in quel tempo; e l’anima mia ardeva d’amore; e non un sol pelo grigio deturpava i miei ricci neri. — Fra tante belle una ve n’era. Io l’amai come s’ama la vita, e alfine la feci mia propria.

Ahi che la mia giovinezza svanì come stella cadente! E la stagione del piacere sparì più presto ancora. Mariola mi amò un anno solo.

Un giorno incontrammo sul margine del Cagul una banda di Zingari stranieri che piantarono le loro tende vicino alle nostre sul monte, e vi stettero due notti. La terza notte s’allontanarono. Mariola se ne andò con essi mentre io dormiva tranquillamente, e abbandonò la mia povera figliuoletta. L’aurora spuntò, mi destai, non ritrovai più la mia compagna. Cerco, chiamo, nessun indizio. L’orfanella Zemfira piangeva, e io piangeva con essa. — D’allora in poi, io giurai odio a tutte le donne — e son rimasto sempre solo nella mia tenda. [p. 45 modifica]

Alecco. Ma come non volasti sulle tracce della perfida e ingrata? Come non immergesti un pugnale nel cuore della traditrice e del suo drudo?

Il Vecchio. Come? La gioventù è più volubile degli augelli. Chi potrà mai incatenar l’amore? Il piacere è concesso a tutti vicendevolmente; quel che fu, non sarà più.

Alecco. Io non la penso così. Io non so rinunziare senza contrasto ai miei dritti, o, se mai cedo, mi vendico poi altrimenti. No. Se io trovassi il mio nemico addormentato sui flutti del mare, non lo risparmierei; lo sommergerei nell’abisso senza nessun rimorso; gli farei vergogna del suo subito spavento alla mia vista; udirei con diletto i suoi lamenți, e riderei nel vederlo piombare al fondo.


Un giovine Zingaro. Un altro bacio solo! solo!

Zemfira. È tardi: mio marito è geloso e cattivo.

Lo Zingaro. Uno solo.... più lento.... è l’ultimo....

Zemfira. Addio! prima che egli ritorni.

Lo Zingaro. Parla: quando ci rivedremo?

Zemfira. Stasera, quando sorge la luna — là dietro il tumulo su quella stessa altura....

Lo Zingaro. M’inganni! non verrai!

Zemfira. Scappa.... Eccolo! Ci verrò, carino!


Alecco dorme. Una funesta visione perturba il suo sonno; si desta cacciando un grido di gelosia, e gira le braccia attorno. Ma la sua mano tremante non [p. 46 modifica]incontra altro che le fredde coperte: — la sua consorte è lungi. — Solleva il fianco fremente e ascolta; nulla ode; la rabbia lo divora; fiamma e gelo gli scorrono per le vene; balza dal letto, esce dalla tenda, vaga intorno ai carri; i campi tacciono, tutto è silenzio e tenebre. La luna s’asconde fra i vapori; le stelle spargono una incerta luce. — Alecco scorge alcuni levissimi vestigi sull’erba rugiadosa; li segue impaziente, e lo guidano al tumulo. Sull’orlo della strada una tomba biancheggia in lontananza; ivi conduce egli i vacillanti passi, con un presentimento tetro; le sue labbra tremano, tremano i suoi ginocchi. — S’avanza, e a un tratto — è un sogno? — vede presso a sè due ombre, e ode sulla tomba un mormorío profano.

Prima voce. Io mi parto.

Seconda voce. Ferma, amor mio.

Prima voce. Bisogna ch’io mi parla, amico.

Seconda voce. Aspetta un poco; rimani sino all’alba.

Prima voce. È già tardi.

Seconda voce. Come sei timida in amore! Aspetta un minuto.

Prima voce. Tu mi perdi.

Seconda voce. Un momento.

Prima voce. Se mio marito si desta, e non mi trova....

Alecco. Già son desto.... Dove andate? — Non vi allontanate.... Stavate molto bene su questa tomba....

Zemfira. Amico mio, fuggi, fuggi!

Alecco. Férmati. — Dove vai, o gentil giovanetto? — Muori. (gli dà una coltellata.) [p. 47 modifica]

Zemfira. Alecco!

Lo Zingaro. Io spiro.

Zemfira. Alecco! Tu l’hai ucciso.... mira!... sei tutto cosperso di sangue.... Che hai fatto?...

Alecco. Niente. Ora pasciti del suo amore....

Zemfira. Prosiegui. Io non ti temo; io disprezzo le tue minacce; io maledico la tua crudeltà.

Alecco. Muori anche tu!... (la ferisce.)

Zemfira. Muoro amandolo.


L’aurora ingemma il balzo d’Oriente. Alecco, col pugnale in mano, siede dietro al poggio sulla lapida rosseggiante di sangue. Due cadaveri giacciono innanzi a lui; il suo volto incute spavento in chi lo vede; gli zingari lo circondano esterrefatti e tremanti. Mentre si scava una fossa in disparte, le donne addolorate accorrono in fila a baciare, secondo l’uso, gli occhi dei due morti. Il vecchio padre sen sta tutto solo mirando in muta angoscia la figlia diletta. Gli zingari sollevano i due corpi, li trasportano alla fossa e li ascondono nella fredda terra. Alecco considera tutto da lontano. Quando cadde l’ultima palata di polvere, Alecco si chinò poco a poco e stramazzò sul prato.

Allora il vecchio, avanzandosi, sclamò: “Vattene, uomo superbo e spietato! Siamo selvaggi; non abbiamo leggi; non conosciamo i tormenti nè i supplizi; ci fanno orrore i gemiti e gli omicidi; non vogliamo fra noi un assassino. Non sei nato per la vita errante: per te solo vuoi la libertà; la tua vista [p. 48 modifica]ci spaventerebbe; noi siamo timidi e umani; tu sei audace e feroce; lasciaci, pártiti, vattene in pace!”

Dice, e la truppa nomada ripiegando le tende, esci con gran fracasso dalla valle dolorosa, e in breve ora si dileguò nella steppa immensa. Un solo carro coperto d’un povero tappeto rimase nella funesta pianura. Così, allorchè, avanti l’inverno, al tempo delle nebbie matutine, uno sciame tardivo di grusi alza dai campi e stridendo s’indrizza a mezzogiorno, talvolta avviene che una di esse colpita da piombo mortale resta addietro afflitta, coll’ala pendente e insanguinata.

Sopraggiunse la notte. Nessuno accese il fuoco sotto la tenda del maledetto che non potè gustare le dolcezze del sonno.

Epilogo.

Così, colla magia del canto io evocava nella mia mente le imagini dei giorni andati, oscuri o sereni. Nel paese ove tanto tempo rimbombarono le folgori della guerra, ove il Russo determinò i confini della potenza turca; ove la nostra vecchia aquila bicipite fa legge e impera tuttora, io incontrai un tranquillo accampamento di Zingari figli della libertà. Ma la felicità nemmeno fra voi è da cercarsi, o miseri rampolli della natura! Sotto i vostri padiglioni laceri s’aggirano sogni funebri e tormentosi, i vostri carri vagabondi non vi sottraggono alle ambasce; chè anche nei deserti regnano le passioni fatali, e l’uomo vi è, come altrove, bersaglio del destino.