Pagina:Puskin - Racconti poetici, 1856.djvu/76





Una nomade truppa di Zingari perlustra le steppe della Bessarabia. Oggi essi pernottano presso a un fiume sotto le loro trabacche lacere. La loro dimora è gaia come la libertà, e il loro sonno è quieto nell’aperta campagna. Il fuoco arde fralle ruote dei carri mezzo ricoperti di tappeti; la famiglia seduta in cerchio allestisce la cena; un orso addomesticato riposa dietro le tende; i cavalli pascono nei prati vicini. Ogni cura, ogni faccenda si adempie con piacere; i preparativi per proseguire il viaggio sin dallo spuntar del dì seguente, vengon alleviati dai canti delle donne; i gridi dei fanciulli si mischiano alle battute del martello sulla incudine. Ma già la calma subentra a tutto quel fracasso: l’accampamento dorme, e appena s’ode nel deserto il latrar d’un cane o il nitrir di un cavallo. Tutti i fuochi sono spenti, ogni cosa tace; la luna solitaria spazia nel vasto empireo, e imbianca coi suoi raggi quel villaggio ambulante. Tutti dormono nelle tende, fuorchè un vecchio seduto davanti a un bracere che esala i suoi ultimi vampi. Il vecchio volge lo sguardo sulle pianure circostanti sepolte nelle tenebre. La giovine sua figlia, avvezza a una libertà assoluta, se n’è ita per diletto nelle steppe: essa tornerà, ma intanto la notte è sopraggiunta. Già la luna