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«salse pungenti» quel putridume, «che dagli uman privati parea mosso». In su questo andare è il rimanente del canto. Un altro lo sgrida:

                                                        Perché se’ tu si’ ingordo
Di riguardar piú me che gli altri brutti?
     

E Dante, che lo vede col capo lordo, tanto che «non parea se era laico o cherco», risponde:

                                                        Perché, se ben ricordo.
Giá t’ho veduto co’ capelli asciutti.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .

     Ed egli allor, battendosi la zucca:
«Quagggiu m’hanno sommerso le lusinghe,
Di che io non ebbi mai la lingua stucca».
     

Quale crudele puntura è il ricordare a colui di averlo veduto in terra co’ capelli asciutti! E quanta differenza di linguaggio: «battendosi la zucca»! parole plebee ad esprimere nature plebee. La fine corona degnamente il principio. Vi è innanzi una «sozza e scapigliata fante» dagli atti inverecondi. Il vile, il laido spettacolo fa stomaco a’ due spettatori: — «E quinci sien le nostre viste sazie», conchiude Virgilio: abbiamo guardato abbastanza; lasciamo questo letamaio. — Non che pietá o ammirazione Dante non onora costoro neppur del suo sdegno: la musa che qui lo ispira è il disprezzo. Perché tanto mutamento? La scena è cangiata perché gli uomini sono cangiati: sono anime di fango che il poeta fa avvoltolare nel fango. Egli ha voluto qui congiugnere nello stesso castigo due specie di esseri: gli uni, gli adulatori che hanno le opinioni nei loro diversi padroni, che mutano di opinioni come di abiti, vili, ma inchinati, arricchiti, accolti e festeggiati dovunque; gli altri, miserabili esseri, vili ed avuti a vile. Ma innanzi al poeta non ci sono, o non ci dovrebbero essere differenze sociali, e Dante le cancella e pone gli uni accanto agli altri, perché, se l’uno vende il corpo,