Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XII. L'inferno

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XII. L'inferno

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Lezione XII

L’INFERNO

[il concetto nel brutto]


L’inferno è il regno della materia, del falso, del male, del brutto, la negazione di Dio. E poiché l’arte è la manifestazione del bello, nasce la questione in che modo Dante ha potuto trasfigurare il brutto e renderlo poetico.

La scuola classica sbandisce affatto il brutto dall’arte, avendo innanzi il simplex et unum di Orazio, la semplicitá della bellezza greca, vuota di contrasto interiore. Essa rassomiglia il poeta a quel pittore che ritrasse Elena con innanzi sette bellissime donne, facendo di sette bellezze imperfette una bellezza compiuta. Questa critica, partendo dalla semplicitá greca, va a finire nell’astratto del pensiero e della morale, vizio radicale della Ragion poetica del Gravina. Cosi il Tasso, condannando l’Achille omerico come un misto di bene e di male, concepisce il suo Goffredo secondo un astratto tipo morale. La scuola romantica afferma essere il brutto un elemento essenziale dell’arte moderna, perché questa rappresenta la vita come essa è, un avvicendarsi di dolore e di gioia, di male e di bene, di brutto e di bello. Tale è la scena de’ servi ubbriachi, che succede alla uccisione di Dunkan. Questa scuola, partendo dalla pienezza della vita moderna nell’arte, gravida di differenza e di contrasto, va a terminare nell’imitazione della natura e nella preponderanza della realtá storica. Questi due principii sono stati giá confutati [p. 80 modifica]in quello che hanno di assoluto e di parziale: l’inferno di Dante mostra una confutazione di fatto assai piú efficace. L’inferno è il regno del brutto, e del solo brutto, concezione senza esempio presso gli antichi. D’altra parte l’inferno non è la vita umana nel suo avvicendarsi, ma la vita da un lato solo. E poiché l’inferno dantesco non è un fatto isolato, ma questo regno del brutto, col quale si apre l’arte moderna, s’è ito successivamente esplicando nel Boccaccio, nell’Ariosto, nel Cervantes, nello Shakespeare e nel nuovo romanticismo del nostro secolo, in Byron, Leopardi, Goethe e Victor Hugo, raggiungendo il suo estremo in Mefistofele, che è l’incarnazione del brutto, il brutto che si pone come brutto, le due scuole, piegando ed allargandosi innanzi a’ fatti, hanno dovuto recedere dal loro principio assoluto e tentare piú larga spiegazione.

La scuola classica sostiene che il brutto diviene poetico per la bellezza della sua rappresentazione, partendo dal principio che lo stile sia la veste del pensiero. Ornare il brutto è uno scoprirlo di piú: è la Gabrina dell’Ariosto vestita con gli abiti d’Isabella. E, lasciando star questo, Dante non solo non cerca di palliare ed abbellire, anzi la sua rappresentazione tende a lumeggiare e a rendere con evidenza il suo soggetto con tutto quello che esso ha di deforme. E valga, per esempio, la descrizione del suo Cerbero:

                                         Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente, che quivi è sommersa.

     Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
E ’l ventre largo, ed unghiate le mani;
Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.

     .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .

     Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne;
Non avea membro, che tenesse fermo.
               
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                                         E ’l Duca mio distese le sue spanne,
Prese la terra, e con piene le pugna
La gittò dentro alle bramose canne.

     Quale quel cane, ch’abbaiando agugna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
Ché solo a divorarlo intende e pugna;

     Cotal si fecer quelle facce lorde
Dello demonio Cerbero, che introna
L’anime si, ch’esser vorrebber sorde.
               

La scuola romantica ammette il brutto non come principale, ma come accessorio, non come fine a se stesso, ma come mezzo a far risaltare il bello:

                                         Sotto povero ciel raggio di luna.                

Ora l’inferno è il brutto come principale ed assoluto, né ha di rincontro alcuna bellezza che debba spiccare in mezzo a quella tetra uniformitá di tenebre e di supplizi. Queste teoriche non sono, dunque, sufficienti a darci spiegazione dell’inferno dantesco.

Cominciamo dall’impressione.

Quando un oggetto bello ci è dinanzi, gli occhi vaganti vi si fissano sopra, e noi ci sentiamo come attirati verso di quello; e se chi lo contempla è un artista, quella vista gli risveglierá nell’anima l’ideale della bellezza. Cosi l’oggetto sará trasfigurato e diverrá poetico, ricevendo la sua qualitá ideale dall’anima che lo contempla. Ma se vi è innanzi un oggetto brutto, gli occhi si chiudono per metá, il naso si raggrinza, il volto fa un movimento obliquo ed il corpo istintivamente piega in addietro. E perché? Perché l’anima sente un orrore ingenito pel brutto e la fantasia non vi si può posar sopra, né quindi ha virtú d’idealizzarlo e renderlo poetico. Ma se il brutto ha in sé qualche tratto, il quale desti l’attenzione, l’artista vi si concentra sopra e dimentica tutto il rimanente. Poniamo che una donna deforme [p. 82 modifica]abbia occhi belli e che gli occhi di un uomo s’incontrino in quegli occhi e ne ricevano una potente impressione, quegli occhi avranno la virtú di trasfigurare tutta la donna: le sue parti brutte rimangono come reali, ma scompariscono davanti alla fantasia; e dal momento che l’uomo se ne accorge la fantasia si è raffreddata: l’amante cessa di amare ed il poeta cessa di poetare. Cosi a trasfigurare il brutto basta un tratto solo, il quale riveli al di fuori tutta una vita interiore che si agita sotto la materia deforme. Date al brutto l’occhio, vale a dire la sua espressione, dategli il suo concetto, la sua anima, ed esso diventerá artistico. Il concetto può essere fuori di lui e basterá a renderlo sacro e bello, come gl’idoli mostruosi degli orientali e le cerimonie del paganesimo, assurde in sé e ridicole, cosa seria finché in quelle si riconosceva la stessa idea divina. Questo non è che un grado imperfetto di poesia, il brutto simbolico, il quale, spento il concetto, rimane brutto. Cosi il sole fa risuonare armoniosamente la statua di Memnone; e, quando esso tramonta, non rimane che la statua immobile e inanimata, pietra dura e scabra, i piedi l’uno nell’altro e le braccia al di dentro. E perché? Perché la statua non ha la luce e la musica dentro di sé, ma le riceve dal di fuori, ed è pietra che è mossa da un impulso estrinseco, non un essere vivente che cammina per virtú propria.

Quando il concetto è interiore, esso diviene spirito. Il piú basso suo grado è la malizia, qualitá degli uomini difettivi e mediocri, il brutto che ha giá coscienza di sé innanzi agli altri e cerca di supplirvi con l’astuzia e la frode. Tipo inimitabile di questo primo sorgere dello spirito congiunto con la volgaritá e la rozzezza è il Sancio Panza. Cosi il brutto diviene ridicolo, e dal punto che fa ridere cessa di essere brutto, ed appartiene alla commedia, alla satira, alla caricatura.

Nella forza fisica il brutto diviene sublime, poiché l’effetto della forza che trascende i limiti dell’ordinario in un aggregato informe di materia risveglia non la deformitá esterna, ma il concetto generale di forza, di modo che la faccia vi sparisce davanti e vi rimane l’indeterminato dell’infinito, un fulmine che ammucchia rovine, un vento che muove tempesta. Quando [p. 83 modifica]progredisce la civiltá e si risveglia la forza morale, nasce la vittoria di questa sulla forza brutale, la vittoria di Giove sopra i Titani. Cosi Riccardo III, brutto come corpo e come anima, è nondimeno sublime per la possanza della sua volontá e per l’energia de’ suoi atti, la quale trasfonde nei suoi lineamenti alcun che di energico e di risoluto allorché egli entra nella scena, gridando: — «Un cavallo! Un cavallo! il mio regno per un cavallo!» —

Nella passione il brutto riceve la sua ultima trasfigurazione, essendo essa l’adunarsi di tutte le potenze dell’anima verso d’un punto con tale indeclinabile necessitá che, gli antichi, rappresentando le loro Fedre e le loro Mirre, le supposero sospinte dall’ira di qualche dio. La passione di Saffo divampa sul suo volto e fiammeggia ne’ suoi sguardi, e ruba alla fantasia tutto ciò che ella ha di deforme. Togliete, al contrario, al brutto il suo concetto, fate ch’esso sia forma brutta ed anima volgare, materia morta e vuota, ed avremo il brutto irreducibile a poesia, come la concezione mostruosa, che usci dalla giovane mente di Schiller, quando tolse ad imitare il Riccardo III.