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la depravazione dell'anima 85


tre facce successive d’uno stesso fatto estetico, l’applicazione d’uno stesso principio. Nell’arte greca la forma ha tale attinenza coll’idea che l’una non può stare senza l’altra. I Greci non concepiscono un’idea bella in un corpo brutto. Gli Spartani uccidevano i fanciulli brutti. La materia bella è essenziale a quell’arte: onde la rispondenza, l’armonia, la serenitá delle greche figure. Al contrario nell’arte moderna l’idea vive nella forma, ma conscia di sé: come lo spirito di rincontro al corpo, serbando un dominio assoluto sulla materia. Nella vile materia può stare il concetto bello, l’anima entro il corpo senza che il contatto esterno possa macchiarla. Quando in un corpo brutto brilla una certa idea (per usare l’espressione di Raffaello), l’idea tiene stretta l’attenzione del poeta in modo che il brutto scompaia nell’ombra, e non rimangono sul dinanzi del quadro che i tratti che sono in armonia coll’idea. Vedete il martire che è il tipo piú spiccato dell’arte cristiana. Gli strazii a cui è sottoposto, il corpo lacero e sanguinoso urtano la vostra sensibilitá: ma gli occhi ardenti che s’innalzano verso il cielo, la faccia piena di gioia, fanno si che noi guidati da pochi tratti entriamo nel mondo celeste in cui egli abita. Quindi sorge la necessitá che l’attenzione del poeta non si distragga giammai dall’idea. Quando egli (come accade in Victor Hugo) dá rilievo ad un accessorio brutto, in discrepanza coll’idea, dite pure che il suo entusiasmo si raffredda, che la sua stella polare si abbuia.

Ora vediamo l’applicazione di questo principio e fatto estetico nell’inferno.

Qual è il concetto dell’inferno? La depravazione dell’anima abbandonata ciecamente alle sue forze libere, errori, vizii, passioni: scompagnata da ogni regola di ragione, e da ogni freno morale. Questo concetto è cosí vivo nella mente del poeta che egli lo riproduce sotto diverse forme:

                                         Noi sem venuti al loco ov’io t’ho detto,
Che vederai le genti dolorose,
C’hanno perduto il ben dell’intelletto.
                                                                      Inf. III.