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l’inferno | 8i |
E ’l Duca mio distese le sue spanne, Prese la terra, e con piene le pugna La gittò dentro alle bramose canne. Quale quel cane, ch’abbaiando agugna, e si racqueta poi che ’l pasto morde, Ché solo a divorarlo intende e pugna; Cotal si fecer quelle facce lorde Dello demonio Cerbero, che introna L’anime si, ch’esser vorrebber sorde. |
La scuola romantica ammette il brutto non come principale, ma come accessorio, non come fine a se stesso, ma come mezzo a far risaltare il bello:
Sotto povero ciel raggio di luna. |
Ora l’inferno è il brutto come principale ed assoluto, né ha di rincontro alcuna bellezza che debba spiccare in mezzo a quella tetra uniformitá di tenebre e di supplizi. Queste teoriche non sono, dunque, sufficienti a darci spiegazione dell’inferno dantesco.
Cominciamo dall’impressione.
Quando un oggetto bello ci è dinanzi, gli occhi vaganti vi si fissano sopra, e noi ci sentiamo come attirati verso di quello; e se chi lo contempla è un artista, quella vista gli risveglierá nell’anima l’ideale della bellezza. Cosi l’oggetto sará trasfigurato e diverrá poetico, ricevendo la sua qualitá ideale dall’anima che lo contempla. Ma se vi è innanzi un oggetto brutto, gli occhi si chiudono per metá, il naso si raggrinza, il volto fa un movimento obliquo ed il corpo istintivamente piega in addietro. E perché? Perché l’anima sente un orrore ingenito pel brutto e la fantasia non vi si può posar sopra, né quindi ha virtú d’idealizzarlo e renderlo poetico. Ma se il brutto ha in sé qualche tratto, il quale desti l’attenzione, l’artista vi si concentra sopra e dimentica tutto il rimanente. Poniamo che una donna deforme
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