Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/VI. Vittoria del genio sulla critica

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - VI. Vittoria del genio sulla critica

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - V. Il concetto della Divina Commedia Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - VII. Allegoria generale del poema dantesco
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Lezione VI

VITTORIA DEL GENIO SULLA CRITICA


Se voi ora voleste consultare gl’innumerabili cementatori della Divina Commedia, voi gli udreste rispondere: — Avete creduto di aver toccato il fondo della poesia dantesca, e vi siete ingannati. Fin qui vi è stata innanzi la scorza, la superficie, l’apparenza; quello che vi sta di sotto, il significato vero, vi è sfuggito; voi avete guardato con l’occhio volgare il sole ed avete detto: il sole gira; guardatelo con l’occhio della mente, e direte: il sole sta fermo; la poesia dantesca è essenzialmente simbolica o allegorica; altro si dice ed altro s’intende; né alcuno la capirá mai che non abbia squarciato il velo e discoperti i veri che vi si trovano adombrati. — Di questi veri si son posti essi in traccia, e dal Boccaccio infino a noi le piú diverse interpretazioni, i piú opposti sistemi sono venuti fuori. E poiché oggi l’allegoria è tornata in onore, né si pubblica quasi in Germania un’edizione della Divina Commedia che non sia ciascun canto accompagnato dalla sua spiegazione allegorica, è pur forza che mi ci arresti alquanto.

L’allegoria uccideva la religione e la poesia antica. I filosofi pagani, credendo di puntellare la cadente religione, la disciolsero in simboli; e quando una religione è accettata come simbolo, è morta. I loro sforzi accelerarono la sua caduta: il cristianesimo soprawegnente, facendo guerra al senso, alla lettera, alla materia, in nome del Dio spirituale, distrusse tutte le forme antiche. La guerra si distese a poco a poco dagl’idoli alla poesia: [p. 38 modifica]la melodia del verso, l’eleganza dello stile rendeva odore di paganesimo: la veritá e non altro che la veritá: tutto il resto era tenuto lenocinio ed artifizio. E perciò, quando l’immaginazione umana non si contentò piú di quella severa nuditá; quando, passato il primo fervore, si cercò di aiutare il sentimento per via del sensibile, la poesia fu accettata, non per sé, ma come simbolo e veste del vero. Cosi l’allegoria fu una specie di salvacondotto, pel quale la poesia potè riapparire tra gli uomini. Di qui l’indole allegorica di tanta parte de’ lavori poetici del medio evo e la falsa poetica onde venivano giudicati. Vero chiamavasi allora o un principio, o un fatto reale: la veritá poetica non era compresa. Quindi la poesia per se stessa era tenuta un tessuto di menzogne, e poeta e mentitore era creduto, come dice il Boccaccio, la medesima cosa, ed i versi erano chiamati, secondo le parole di S. Girolamo, cibo del diavolo. I poeti che si abbandonavano ingenuamente alla loro ispirazione eran detti popolari, e solo i dotti erano appellati solenni. Dante stesso, che non potè sottrarsi né a quelle tendenze né a quella poetica, chiama strani i versi che rinchiudono finzioni, nelle quali sia velata alcuna dottrina, né sa difendere la poesia che come banditrice del vero sotto il velame della favola ascoso, di modo che il lettore sotto alla dura corteccia, sotto favoloso ed ornato parlare trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti. Nel Convito egli è il critico di se stesso, esponendo e dichiarando i principii, dai quali si è fatto guidare nelle sue poesie, e le intenzioni e i significati che ci ha voluto celar sotto. Secondo lui, la esposizione poetica conviene essere «litterale» ed allegorica. Il senso allegorico è quello che si nasconde sotto il manto della favola, ed è una veritá ascosa sotto bella menzogna; cioè a dire la poesia per lui è una bella menzogna, la quale non ha alcun valore, se non in quanto sia figura del vero. Ve ne darò per saggio la esposizione ch’egli fa del primo verso d’una sua canzone:

                                    Voi che intendendo il terzo ciel movete.                
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Il critico distingue qui la sentenza letterale e fittizia dall’allegorica e vera, com’egli dice. Cominciando dalla letterale, ragiona distesamente del terzo cielo e di coloro che ne sono motori ed a’ quali egli parla. Ma allegoricamente il cielo è la scienza, i cieli sono le particolari scienze, il terzo cielo o il cielo di Venere è la Rettorica, le intelligenze motrici sono Boezio e Tullio, che destarono nel poeta l’amore della filosofia, infiammandolo coi raggi della loro stella, cioè con lo splendore delle loro scritture. E togliendo da ciò occasione, il poeta ci dichiara il senso allegorico de’ pianeti e delle stelle. A’ sette pianeti rispondono, secondo lui, le sette scienze del Trivio e del Quadrivio, Grammatica, Dialettica, Rettorica, Aritmetica, Musica, Geometria, Astrologia; all’ottava spera, cioè alla stellata, risponde la Fisica e la Metafisica, alla nona la Scienza morale ed al cielo quieto la Teologia. Ma ciò che dee fare piú maraviglia è il vedere le strane similitudini ch’egli trova tra la figura e il figurato. E, per esempio, la luna si somiglia con la Grammatica; «che se la luna si guarda bene, due cose si veggono in essa proprie...: l’una si è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritá del suo corpo, a cui non possono terminare i raggi del sole e ripercuotersi cosí come nelle altre parti; l’altra si è la variazione della sua luminositá, che ora luce da un lato, e ora luce dall’altro, secondo che il sole la vede. E queste due proprietá ha la Grammatica; ché, per la sua infinitade, li raggi della ragione in essa non si terminano in parte, spezialmente delli vocaboli: e luce or di qua or di lá, in tanto quanto certi vocaboli, certe declinazioni, certe costruzioni sono in uso che giá non furono, e molte giá furono che non saranno». E parimente «il cielo di Venere si può comparare alla Rettorica per due proprietá: l’una si è la chiarezza del suo aspetto..., l’altra si è la sua apparenza, or da mane, or da sera. E queste due proprietá sono nella Rettorica; ché la Rettorica è soavissima di tutte l’altre scienze... Appare da mane, quando dinanzi al viso dell’uditore il rettorico parla: appare da sera, cioè retro, quando la lettera per la parte remota si parla per lo rettorico». Che cosa ve ne pare? E chi, se egli non ce Io avesse detto, avrebbe [p. 40 modifica]potuto indovinare che il cielo di Venere significhi la Rettorica ed i motori di esso cielo significhino Boezio e Tullio? Bene egli ha potuto dire altrove, parlando delle sue canzoni, che la vera sentenza di quelle per alcuno vedere non si può, s’ei non la conta, perché è nascosa sotto figura, di allegoria. Ed in fede vostra, come potrebbe altri cogliere tra due oggetti relazioni affatto estrinseche, arbitrarie e sottili anzi che vere? Aggiungete che l’autore, oltre l’allegorico, ha in serbo il senso morale ed anagogico; e quando si pensa che le moralitá da lui cavate ed i sovrasensi, cioè i significati spirituali ch’egli aggiunge ai letterali, sono parimente arbitrarii ed estrinseci, quale speranza si avrá di trovare un filo in tale labirinto? Eppure egli è in questa nascosa veritá che Dante ripone il midollo della sua poesia, e la bellezza è il senso letterale ed apparente ch’egli lascia al volgo. Nella chiusa d’una sua canzone egli esclama:

                                         Canzone, io credo che saranno radi
Color che tua ragione intendan bene,
Tanto lor parli faticosa e forte:
Onde se per ventura egli addiviene
Che tu dinanzi da persone vadi.
Che non ti paian d’essa bene accorte;
Allor ti priego che ti riconforte,
Dicendo lor, diletta mia novella:
Ponete mente almen com’io son bella.
               

Il che significa, come spiega lo stesso autore: «Canzone, se mai capiti innanzi a persone che non comprendano il tuo senso allegorico, ma solo il litterale, non ti smarrire, ma di’ loro: poiché non vedete la mia bontá, ponete mente almeno la mia bellezza»... «O uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone, egli soggiunge, non la rifiutate però; ma ponete mente alla sua bellezza, ch’è grande si per costruzione, la quale si pertiene alla Grammatica; si per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici; si per lo numero delle sue parti, che si pertiene alla Musica». — Cosi spiega il poeta, sublime ignorante, che disconosce se stesso e pone in qualitá grammaticali [p. 41 modifica]e rettoriche e musicali quella bellezza, spontaneo frutto d’ispirazione, ch’egli sentiva con tanta squisitezza e potenza e che è non solo il di fuori, ma il di dentro, non solo apparenza, ma sostanza, non solo immagine, ma veritá, non solo lettera, ma spirito. Bella è la sua canzone per la naturale e profonda pittura de’ contrari pensieri che battagliano nel suo cuore, e non punto per le veritá e per le moralitá che sono rimaste nella sua intenzione; anzi il senso allegorico turba a quando a quando la chiarezza del senso letterale, e raffredda l’affetto e scolorisce l’immagine: onde il difetto di questa poesia è in quella parte appunto che il poeta indirizza ai savii, ed il pregio è in quella che egli disdegnosamente lascia al volgo. Questo falso concetto che Dante ebbe della poesia insieme coi piú grandi ingegni del suo tempo, come ne fa fede il comento del Boccaccio, e che, tramandatosi quasi per tradizione non piú esaminata ne’ secoli posteriori fino al Tasso e al Gravina, è oggi novamente ricomparso sotto piú scientifico aspetto, basta a spiegarci i principali difetti che si possono notare nella Divina Commedia. Il pensiero talora nella sua cruditá scolastica e pedantesca, tal altra nella sua severitá razionale, piú spesso abbellito d’immagini e di paragoni, che pure non bastano a vincere la sua natura astratta, vi ha troppo gran parte. Inoltre le figure simboliche da lui immaginate ricordano alcuna volta piú i mostri orientali che la schietta bellezza greca, personificazioni astratte, anziché persone conscie e libere; e valga ad esempio il Grifone del purgatorio e l’Aquila del paradiso. E quantunque il senso letterale, secondo la sua stessa teoria poetica, debba essere indipendente dall’allegorico, di modo che sia intelligibile per se stesso, nondimeno, preoccupato com’egli è del secondo senso che ha in mente, non di rado gli escono dalla penna particolari che punto non hanno attinenza con la lettera, e si riferiscono al concetto inespresso rimasto al di fuori di quella, com’è del famoso Veltro che dee cacciare la Lupa: il che turba il lettore, lo trae violentemente dalla serena contemplazione poetica, e lo gitta sospeso e raffreddato in investigazioni storiche e filosofiche, che è a dire in regioni estrinseche alla poesia. Questa presenza perenne di un [p. 42 modifica]concetto astratto, che aleggia al di sopra della sua rappresentazione e vi si introduce a quando a quando e turba la chiarezza e l’armomia, vizia anche in parte il suo stile.

Dotato di un’acuta intelligenza, dimesticatosi con le piú astruse dottrine di quei tempi ed avvezzo alle ingegnose argomentazioni delle scuole, non sempre ei si contenta della schietta e lucida esposizione omerica, ma va talora cercando rapporti lontani e sottili; sicché, in luogo di chiarire ed illustrare, non riesce che ad intralciare ed intenebrare. Cosi nel canto XXVII del Paradiso:

                                         E tal nella sembianza sua divenne,
Qual diverrebbe Giove, s’egli e Marte
Fossero augelli e cambiassersi penne.
               

E nel canto XXV:

                                         Poscia tra esse un lume si schiarí,
Sí che se il Cancro avesse un tal cristallo,
Il verno avrebbe un mese d’un sol dí.
               

Quando egli scriveva cosí, il suo animo si trovava in uno stato impoetico, e tutta la sua scienza astronomica non vale ad illuminarci né quella sembianza né quella luce. Questi difetti rimangono però parziali e non penetrano nella essenza stessa della concezione poetica. Dante volle fare una poesia allegorica, e non vi riuscí, perché era poeta: il poeta vinse il critico, la poesia trionfò della poetica. La favola, quello ch’egli chiama bella menzogna, innalza la sua fantasia e lo soverchia, ed egli vi si lascia ir dietro come innamorato, né sa creare a metá, né sa arrestarsi a mezzo il cammino. Nel caldo della ispirazione non sa egli, come vien fatto agl’ingegni mezzani, serbarsi tranquillo e pacato, col suo pensiero preconcetto innanzi, e immaginare figure mozze che vi rispondano con perfetto riscontro, particolare con particolare, accessorio con accessorio. No, no. Innanzi a Dante i pensieri diventano fantasmi: vuol [p. 43 modifica]costruire un’allegoria, ed eccoti fuori una poesia; ha in mente una personificazione, e sotto la penna gli esce una persona. La Teologia diviene Beatrice, la Ragione diviene Virgilio, l’Uomo diviene Dante Alighieri, esseri vivi e compiuti che hanno infiniti lati proprii, indipendenti dal concetto, di cui dovrebbero essere simboli. Il simile è di Caronte e di Cerbero e di Catone e di S. Bernardo e di quanti personaggi è stata feconda la fantasia dantesca.

In tanta pienezza di realtá dove trovare l’allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi questo per un cementatore e questo per quell’altro? Qual maraviglia che in tanta ricchezza e diversitá di particolari si trovino fiella stessa figura argomenti per provare la veritá di questa o di quella interpretazione? Se ponete mente a quel particolare, il leone della selva significa questo; se ponete mente a quell’altro, il leone significa quest’altro: onde l’eterno battagliare de’ comentatori che non è riuscito né può riuscire a nessuna valida conclusione: la loro disperazione è il trionfo di Dante; egli ha sigillato il suo pensiero con sette suggelli; l’idea è tutta calata nella realtá della vita. Mirate quella statua egizia, quella persona d’uomo col corpo di leone: voi potete affermarmi con sicurezza: — Significa questo. — Mirate quella statua greca, quel Giove di Fidia, quell’Apollo del Belvedere: guardatevi dall’imitare Creuzer, dal cercarvi entro un’allegoria; voi volete spiegarmela, e me la distruggete: quell’armonica bellezza è cosa viva, ed il suo significato non è nella natura delle sue varie parti, ma nella stessa bellezza, sua ragione e sua vita. Le figure dantesche non sono il senso letterale, la morta lettera, che abbia fuori di sé la sua spiegazione. Ciascuna figura porta dentro di sé il suo pensiero: i tre mondi, presi nel senso proprio, hanno in se stessi il loro compiuto significato; e quivi, quivi solo, è la poesia. Onde poniamo pure che i comentatori si accordino in una comune allegoria, cosa piú desiderabile che possibile, certo ciò varrebbe a spiegarci quel passo oscuro, quel verso sibillino, quel particolare indefinito, che non concordano col senso letterale e che hanno attinenza con qualche altra cosa rimasta nella mente di [p. 44 modifica]Dante; ma niente aggiungerebbe al pregio intrinseco della poesia, che ha in sé la sua ragione ed il suo valore.

Guardate una piramide: voi non conoscete a qual uso fosse destinata e di che sia simbolo. E che importa? Per ammirarla e per dire: — Ecco una sublime poesia! — voi non dovete fare altro che guardarla. Ma ecco un antiquario che vi dirá: — Quella piramide era un sepolcro di re — ; ed ecco un filologo che soggiunge: — Guardate quei caratteri; ella era sepolcro del tal re, nel tal tempo. — Preziosa scoperta per la storia, ma superflua per l’arte. Dante ha avuto finora i suoi mille antiquarii e filologi, tanto meno felici di quelli, quanto è men facile di spiegare l’opera libera del poeta che il lavoro essenzialmente simbolico dell’architetto.

Dante ha avuto i suoi mille antiquarii e filologi: non è egli tempo che nella grande poesia si cerchi la poesia, cioè quello per cui Dante è immortale?