Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/V. Il concetto della Divina Commedia

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - V. Il concetto della Divina Commedia

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Lezione V

IL CONCETTO DELLA DIVINA COMMEDIA


Onde siamo partiti? Noi non siamo partiti da un’astrazione; noi non siamo partiti dalla nuda materia o dalla nuda forma. Fondamento della nostra critica è stata la situazione, la materia condizionata e determinata dalle sue leggi proprie, cominciando di lá onde dee far principio lo stesso poeta, che solo nella situazione dee trovare la sua impressione. Noi dunque abbiamo esaminato il subbietto dantesco a parte a parte, ed abbiamo veduto emergere dalle sue condizioni organiche un poetico universo, che contiene in sé tutta la vita, il presente e l’avvenire, il terreno ed il divino. Questa unitá deve ora avere il suo significato, il suo concetto, che determini il suo indirizzo, il punto da cui muove, il punto a cui riesce, le gradazioni per cui passa: niuna creazione poetica può farne senza: tutto ciò che vive ha il suo concetto, la ragione del suo essere.

Qual è il concetto informativo della Divina Commedia?

In ogni quistione che noi poniamo ci troviamo tra i piedi regole ed opinioni quanto assolute tanto inesatte di una critica giá morta nello stato presente della scienza, ma viva ancora nel volgo degl’insegnanti, e quindi nelle scuole. Cominciamo dunque dal ben determinare la parte speculativa. Ogni totalitá deve avere il suo concetto, che la renda unitá, e dal quale prendano qualitá tutte le sue parti; altrimenti essa non è che un informe ed arbitrario accozzamento. Ma il concetto è di diversa natura secondo la materia in cui lavora, ed altra è la [p. 30 modifica]sua condizione negli esseri viventi, altra nella scienza, altra nell’arte. Nella vita reale il concetto è manchevole, e talora rimane mutilato e quasi perduto in mezzo all’accidente; nella scienza esso è pensiero puro, estrinseco ed astratto: e la critica ordinaria non esce da questo doppio presupposto, ed ora empiricamente rimane nel cerchio del puro fatto, ora pone come fondamento di poesia una vacua generalitá, una massima morale, un vero religioso e politico. Ragioneremo a suo luogo della scuola empirica, per la quale il concetto è una lettera morta: toccheremo ora dell’opinione di quelli i quali confondono il concetto poetico col razionale, e, tenendo poco conto di ciò che essi chiamano superficiale bellezza, pongono l’importanza capitale di una poesia nei veri di cui ci è maestra. Il pensiero non si presenta dapprima nella sua generalitá; il mondo non comincia con la scienza. Solo dopo lungo tempo il pensiero si disviluppa dalla scorza, e voi lo trovate nei primi tempi involuto ed inscio di sé nell’istinto, nel sentimento, nell’immagine, nell’azione. L’umanitá è come l’anima: ella pensa sempre; ma ora pensa adorando, ora immaginando, ora operando. Vi è un primo stadio, in cui non si ha ancora né scienza né poesia né pensiero puro né pura immagine; i due termini rimangono l’uno estraneo all’altro, amendue astratti: è il tempo del simbolo, dell’allegoria, della personificazione e spesso del quantitativo e del meccanico; quindi del gigantesco, del mostruoso e dell’enigmatico. E il naturale accozzato con l’animale, l’animale con l’umano; la natura cessa di essere una cosa viva e diviene un segno, una lettera, una cifra. Il leone non è piú un essere vivente; voi me lo spogliate delle sue qualitá e non gli lasciate che quella sola che fa al vostro scopo; indi me lo unite col tale altro animale, che mi avete ugualmente mutilato, e da questa congiunzione meccanica nasce una forma mostruosa avente il suo significato in un fuori di sé, in un sottinteso, in ciò che mi chiamate concetto. E poiché quella forma può ancora avere altre qualitá, e perciò altri significati, spenta la tradizione, perduta la memoria del significato arbitrario datole in prima, che cosa rimane? La forma è un mostro, il pensiero è un’incognita: la [p. 31 modifica]poesia diviene una sciarada. In questo primo stadio il pensiero soprastá all’immagine senza scendere in essa, quasi farfalla che gira intorno alla fiamma come attirata dal suo splendore, e non sa risolversi. Verrá tempo che, come la farfalla, il pensiero anch’esso vi cadrá dentro, e, consumata la sua parte astratta, ne uscirá trasfigurato, ne uscirá poesia. Il popolo greco, che ebbe un senso cosí squisito del bello, espresse con vivace fantasia questo passaggio dalla Sfinge all’uomo, dal quantitativo al qualitativo, dalla natura astratta alla natura viva, la vittoria dell’arte, l’assorbimento del pensiero. Pigmalione s’innamora della sua propria statua e sconsolatamente la bacia e la si stringe al seno, quando nel delirio del desiderio sente la fredda pietra riscaldarsi e muoversi tra le sue braccia e farsi persona viva. E cosí è. Allora avremo perfetta poesia, quando l’immagine astratta diverrá idolo, l’idea astratta ideale, ed alla personificazione succederá la persona. L’idolo è l’immagine che ha dentro di sé la sua ragion d’essere, il suo pensiero; l’ideale è l’idea viva, l’idea cosa, l’idea fatta idolo; la persona è la creatura libera, che abbia in sé la sua unitá, la sua anima, il suo significato: tale è la bellezza greca.

Diremo ora noi che nei tempi moderni questa bella unitá sia rotta? Il cristiano nel primo calore del sentimento si macera il corpo, abbatte templi, spezza idoli, dispregia le belle forme antiche, guarda il nudo vero: lo spirito uccide la lettera. Temperato il primo fervore, risorge il culto della forma, e contro questa nuova idolatria ecco su la riforma: il pensiero abita la nuda parete. Tutti i critici moderni sotto diverse formole riconoscono questa preponderanza del pensiero, questa progressiva emancipazione dello spirito dalla carne, che è il sostanziale del mondo cristiano. Ma guardiamoci dal cadere nell’esagerazione e parzialitá de’ sistemi: il pensiero non è astratto dalla forma, come nell’allegoria primitiva; ma vive con lei ed in lei, salvo che in luogo di obbliarsi in quella vi si sente come anima, come pensiero; ha un corpo e sa di averlo; sa di avere un corpo e sa di non esser lui: il corpo è la bella persona di Laura, la veste di Elena, velo dello spirito: il Petrarca ed il Goethe in tanta [p. 32 modifica]distanza di secoli s’incontrano e si riconoscono. Io non posso stendermi piú; ve ne darò un esempio. Gli antichi rappresentavano la Fortuna in forma di bellissima donna che gira intorno ad una ruota velocissimamente. Volete voi ora sapere che cosa diviene questa ruota in Dante? Un pensiero puro.

                                         Necessitá la fa esser veloce.                

È la spiegazione di quello che nell’antico è rappresentato; è il corpo dissolutosi in pensiero; è l’intelligenza che spodesta la fantasia: in questi termini la poesia è morta: il tempio è spogliato delle sue statue, anzi il tempio stesso è crollato. Ma no: Dante non si sta contento a questo. La Fortuna non è per lui un concetto, ma una Dea, che in mezzo al tumultuoso fervore delle ire mortali serba l’immortale serenitá di un Dio di Omero.

                                         Ma ella s’è beata e ciò non ode:
Con l’altre prime creature lieta
Volve sua spera, e beata si gode.
               

È una rappresentazione greca entro di cui si move visibile il pensiero; è la statua greca, ma con gli occhi mobili, finestre dell’anima, che di quivi trasparisce. Nella storia della poesia cristiana appariscono come necessari momenti l’allegorico e il didascalico: noi li troveremo nella Divina Commedia. Questo noi possiamo spiegarlo e scusarlo in Dante, dobbiamo vituperarlo nei moderni. E poiché ad una critica decrepita, che poneva ogni valore nelle parole, è succeduta una critica astratta, che guarda principalmente al concetto; poiché ad una poesia vacua e sonora, vox et praeterea nihil, è succeduta in alcuni una poesia metafisica e nebulosa, non si stimerá soverchio che io insista su questo punto. Il pensiero, o me lo prendete nella sua severa astrattezza, o me l’ornate di figure e di tropi, o me lo vestite di un leggiadro velo simbolico, può ben essere un accessorio, non mai il sostanziale di una poesia. Il pensiero in quanto pensiero è fuori dell’arte. Che cosa è il pensiero per un [p. 33 modifica]gran sonatore? Il pensiero è melodia: nel tempo stesso gli lampeggia dinanzi e gli freme sotto le dita. Che cosa è il pensiero per un grande oratore? Il pensiero è la parola: infiammato, innalzato dal suo uditorio, egli pensa e parla ad un tempo. Che cosa è il pensiero per un gran poeta? Il pensiero è l’immagine: egli non può, egli non dee saper pensare se non per mezzo della sua immaginazione. Giacomo Leopardi si è levato nelle piú alte regioni della metafisica; ma innanzi a quella invitta fantasia l’idea si fa marmo, ed i suoi pensieri si chiamano Consalvo, Silvia, Aspasia e Saffo. Pur quando, affranto dalla sventura, sta tristamente abbandonato in sulle falde del Vesuvio, come la solitaria ginestra che gli sta innanzi, la vita di quel malinconico fiore desta in lui sulla vanitá della vita gli usati pensieri, ma non le usate immagini, e la ginestra rimane unico fiore di poesia nell’ariditá del suo ultimo canto. Di tutti i diletti della vita egli non gustò altro che le arcane gioie dell’arte: anche queste allora gli venivano meno, e la stanca fantasia rimase, mesta contemplatrice, fisa in quel fiore senza poter di quivi spiccare il volo verso le sue consuete altezze.

Non vogliamo dunque cercare nella Divina Commedia né teologia né filosofia né morale: ella è divina non per questo, anzi malgrado questo. Il poeta ha serbata tutta la freschezza della sua fantasia in mezzo all’ariditá della scuola ed alla pedanteria de’ suoi tempi. Il concetto del suo universo non gli si offre innanzi sciolto e puro, come un vero filosofico, ma involto e diffuso, come forza viva, per entro tutta intera la sua creazione: è il sostanziale, il necessario, la stessa essenza della situazione, che si va evolvendo a mano a mano nelle piú svariate forme. Innanzi al poeta non si presentano che fantasmi: è la critica che disviluppa di quivi il concetto e lo pone come principio astratto.

Il principio generativo del mondo cristiano e moderno è, come abbiamo veduto, la consapevolezza e la libertá dello spirito sotto le forme in cui vive, il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi. Or questo, e non alcun vero particolare, è la sostanza dell’imiverso dantesco, il quale è perciò la [p. 34 modifica]progressiva dissoluzione delle forme, un costante salire di carne a spirito, il cammino dalla materia allo spirito mediante l’espiazione e il dolore, dal satanico al divino, dal male al bene, dall’inferno al paradiso. Omero trasporta gli dei in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini in cielo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi dinanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua davanti come una visione; il reale, il presente è l’eterno infinito spirito; tutto l’altro è «vanitá che par persona». Questo assottigliamento del corporeo è progressivo: il velo si fa piú e piú trasparente, infino a che non si dilegua affatto dinanzi all’occhio. L’Inferno è la sede della materia, il dominio della carne, il regna del male; il terreno vi è non solo in rimembranza, ma in presenza; la pena non modifica punto i caratteri e le passioni; il peccato, il terrestre in quanto terrestre si continua nell’altra mondo e s’immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno, dolore eterno. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole, la luce dell’intelletto, lo spirito: il terreno è una rimembranza penosa che il penitente si studia di scacciare da sé, e lo spirito a poco a poco, sciogliendosi dal corporeo, si avvia alla sua compiuta redenzione. Nel Paradiso l’umana persona scomparisce, e tutte le forme si risolvono ed innalzano nella luce; piú si va su, e piú questa gloriosa trasfigurazione s’idealizza, insino a che al cospetto di Dio, dell’assoluto spirito, la forma vanisce e non rimane che il sentimento:

                                    .    .    .    .    .    .    .    .    .    Tutta cessa
Mia visione, ed ancor mi distilla
Nel cuor lo dolce che nacque da essa.
               

La forma si liquefá come neve; intangibile e invisibile come il suono della voce.

                                         Cosi la neve al sol si disigilla;
Cosi al vento nelle foglie lievi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
               
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Ma il concetto dantesco non rimane inerte in questa generalitá: dopo di aver costruito il mondo a sua immagine, voi lo trovate sempre vivo nel cammino naturale ed intellettuale delle universe cose, sotto tutte le forme, in tutte le quistioni sociali, in religione, in filosofia, in politica, in morale; e cosí si concreta e si compie in tutti gl’indirizzi della vita. In religione esso è il cammino dalla lettera allo spirito, dal simbolo al pensiero; nella scienza, dall’errore alla ragione, e dalla ragione alla rivelazione; in morale, dal male al bene mediante l’espiazione; in politica, dall’anarchia all’unitá. Ma ciò non basta: noi non siamo ancora nel campo della poesia; il concetto non ha ancora raggiunto la sua piena concretezza, non vive ancora. Noi dobbiamo sottoporlo alle condizioni di spazio e di tempo; esso dev’essere storia: il tale uomo, il tale popolo, il tale secolo. Cosi in religione voi avete innanzi la Chiesa romana, il papato, che il poeta studiasi di emancipare dalle cure terrene ed alzare verso il suo tipo spirituale; in filosofia voi avete la scienza volgare, la scienza dell’apparenza, come il poeta la chiama, a cui contrappone la scienza della veritá in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni, le discordie, le colpe, i vizii del medio evo, da cui a poco a poco vi allontanate nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica vi sta in presenza l’Italia anarchica, scissa, sanguinosa, che il poeta sforzasi di comporre a concordia ed a pace nell’unitá dell’impero. In tutti questi aspetti il punto da cui partite è il senso, la selva, anarchia religiosa, scientifica, morale, politica ad un tempo; il punto a cui giungete è lo spirito assoluto, cioè Dio, la Veritá, la Bontá, l’Unitá, l’ultimo Ideale. Antagonismo vivace, in cui l’un termine, il mondo avvenire, è dal poeta posto di rincontro alla societá del suo tempo: al mondo quale dev’essere oppone il mondo qual era allora. Sicché l’eterna collisione del terreno e del divino, che si continua anche in paradiso, quel suo incessante ritorno a’ suoi tempi, quel passato a cui pone sempre dirimpetto il presente, quel suo perpetuo sdegno di tanta dissonanza non è un divagare, non è digressione, ma parte inseparabile del suo concetto: è l’idea che giudica il fatto, è il cielo [p. 36 modifica]che giudica la terra. Cosi i due mondi sono in una opposizione che è sciolta nel tempo stesso che è posta, non potendo il passato o il terreno comparire dinanzi all’eterno presente senza dileguarsi a un tempo come cosa vana; e tutto l’universo dantesco non è nel fondo che questa fatale opposizione posta e sciolta, la vittoria progressiva dello spirito sul senso, di Dio sopra Satana. Non vogliate dunque, o comentatori, chiamarmi questo poema o religioso, o didascalico, o politico, o morale; non vogliate ridurmelo a querele di cattolici e protestanti, a dispute di guelfi e ghibellini; non vogliate neppure rinchiudermelo in uno scopo unicamente italiano, grande ch’ei fosse: il concetto dantesco è ben piú alto, bene al disopra di queste differenze che contiene tutte in sé. In luogo di guardarmelo dalla cima del monte, voi me lo contemplate nella pianura, e prendete per il tutto quello che voi incontrate nella diritta linea del vostro cammino senza degnarvi di guardare a destra e a manca. Ché se volete dargli un nome, chiamatemelo il poema dell’universo, l’eterna geometria e l’eterna logica della creazione incarnate nei tre mondi cristiani, la cittá di Dio, entro di cui si riflette la cittá dell’uomo in tutta la sua realtá del tal luogo e del tal tempo, l’una tipo ed esemplare e giudice dell’altra.