Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/I. Dell'unità dei due mondi nella Divina Commedia

Appendice - I. Dell'unità dei due mondi nella Divina Commedia

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I

DELL’UNITÁ DEI DUE MONDI
NELLA DIVINA COMMEDIA

Lezione 2ª, Domenica i9 Febbraio i854.

(ms. della Bibl. Naz. di Nap. XVI. C. 49).


Dovendo venire alla spiegazione dell’inferno dobbiamo farci indietro e contemplare in un solo aspetto il concetto di Dante, poiché giovano questi ritorni sul nostro cammino: il tornare indietro per vedere tutto il complesso. Che cosa è il poema di Dante? un aggregato di fatti e forme d’ogni genere. Egli è come un orizzonte in cui a prima vista non si vedono che varie cose in confuso. Noi vi vediamo finora una materia nuda, informe, e cadaverica. Di questo ho giá mostrati varii esempii che lo hanno preceduto nel medio evo. Finora non conosciamo che la forma astratta di cui si occupano i comentatori: la bellezza parziale, di teologia, filosofia, politica. Ma nessuno di essi colse la materia viva, quella che deve avere un concetto nuovo, da cui procede la personalitá, il complesso delle qualitá per cui si distingue un argomento da tutti gli altri. Ciò che lo fa una situazione: il che è ciò che lo rende poetico. Io insisto su questa parola: perché è il vizio inerente a tutta la critica italiana: guardare alle parti e trascurare l’insieme, il concetto complessivo. Poiché questo è il criterio unico per giudicare della bontá d’un poema. Qual è la natura dell’argomento dantesco? È la descrizione de’ due mondi; l’universo al di lá della vita e della poesia. Il problema risoluto dell’umana destinazione. Ricordatevi di D[on] Gio[vanni]. Egli [p. 326 modifica]va precipitando di delitto in delitto e s’ingolfa nei vizii, finché giunto all’ultimo atto precipita all’inferno, e si cala il sipario. Ebbene allora Dante apre il suo. Quando Goethe finisce il suo poema, Dante comincia il suo qui, dove sparisce la liberta umana innanzi alla necessitá, il passato ed il futuro innanzi al presente. Ivi è spenta l’azione ed il carattere e l’affetto, perché non ha piú materia in cui esercitarsi. Non è piú che un sentimento indeterminato di dolore e di gioia. Non vi è piú che l’elemento descrittivo, lirico. Qui non vi saranno che pene e premii, angeli, uomini, demòni, urli, bestemmie, preghiere e concenti, e melodie. Ma Dante vivo entra nel regno de’ morti e trae seco la storia d’Italia e di Europa. Al suo arrivo i morti dimenticano il presente, si risvegliano alla vita, ricordano le valli e le colline del loro luogo natio. Cacciaguida ritorna Alighieri, Sordello torna Mantovano; Stazio si dimentica a tal segno che tratta le ombre coinè cosa salda. Non è quindi meraviglia che siano [?] uniti il dramma e l’epopea e la satira: mentre il finito si confonde con l’infinito, i due mondi si unificano, il tempo e l’eterno si avvicinano in una unitá, i generi si confondono e si compiono.

Ma dove è l’unitá de’ due mondi? vanno essi meccanicamente a lato l’uno dell’altro senza immedesimarsi: e distinguendosi sempre il principale dall’accessorio? È egli vero, come dicono Rossetti e Foscolo che l’altro mondo non sia che un’occasione per manifestare le sue opinioni politiche: che i suoi tre mondi sono come la Baswilliana del Monti, le Notti Romane del Verri e il Dialogo dei morti di Fontenelle? Oppure il suo concetto serio è quello de’ tre mondi; e la descrizione della vita presente non è che l’accessorio, l’affetto di Dante che ne turba la forma e lo stile, secondo cho dice E. Quinet? No; questo non è il concetto di Dante: esso sta nella unificazione de’ due mondi, in una unitá piú grande che li contiene ed abbraccia ambedue, nella unitá dell’anima in cui coesistono la vita estrinseca materiale come la rappresenta il finito [?] L’uomo sotto l’albero immobile, che non manda [che di] quando in quando qualche parola, il nome di Dio, il contemplante che non comprende che l’azione è la migliore [p. 327 modifica]delle preghiere rappresenta l’infinito, vuoto, privo di realtá e di contenuto, Dio astratto degli orientali, non il Dio concreto, il Dio fatto uomo, il Dio azione dei cristiani. L’uomo, come dice un grande scrittore, porta gli dei nel proprio seno, o, come dice Leopardi, gran parte d’Olimpo in sé racchiude. Ciascuno porta in sé l’inferno e il paradiso: la vita terrena ha innanzi a sé un esemplare, un archetipo, un ideale del giusto, del santo, del buono; ciascuno ha un accusatore nella propria coscienza che, mentre cavalca fuggendo gli salta in groppa secondo l’energica espressione d’Orazio, post equitem sedet atra cura. Dante cava fuori questo sentimento e gli dá un’esistenza materiale. Il reale finito è rappresentato co’ suoi costumi, le opinioni, gli accidenti, ma ha innanzi a sé uno specchio in cui si mira e si giudica. Egli ci strappa dall’eterno per ricondurci a Firenze. Ma anche allora che noi ci aggiriamo in mezzo alle fazioni che dividono quella cittá e siamo pieni del mondo presente, egli ci pone innanzi lo specchio e tutto ad un tratto ritorniamo all’eterno. Vedetelo in Ciacco. Egli dimentica le sue pene, ed aggirandosi per la sua cittá natia dice: «Giusti son due, ma non vi sono intesi: | Superbia invidia ed avarizia sono | Le tre faville che hanno i cuori accesi». Tutto ad un tratto a caduchi interessi [Dante] fa succedere l’angelica tromba del giudizio: «I diritti occhi volse allora in biechi».

Per riassumere il concetto di Dante in una forma distinta, egli è la rimembranza, il sentimento duplice in cui il passato e il presente, il tempo coH’eterno, il finito coll’infinito si confonde. Il passato ritorna alla memoria dell’ombra, ma spogliato del suo prestigio, colorato dalle impressioni del presente. Basta egli questa unitá? Essa non è giá una semplicitá astratta, ma una totalitá capace di successione e di progresso, che è suscettiva di vita e di un processo interiore che tende a spiegarsi nei momenti successivi: l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Che cosa è l’inferno se non l’uomo che si profonda nel lezzo della colpa e del vizio; il purgatorio l’uomo che acquista la coscienza di sé, e per espiazione si purifica dell’elemento terrestre? Il paradiso è l’elevarsi dalla materia, l’uomo che da contemplazione in [p. 328 modifica]contemplazione sale a quella del puro spirito, di Dio. Questo moto non è fantastico, risponde ad una apparenza fuggitiva nella storia, al perenne e successivo sparire di ogni forma nella umanitá, nel popolo e nell’individuo; chiuso è il processo della umanitá, ideale terreno, che esce dalle forme esauste, concrete, fino a che si ravvicini al suo tipo ed esemplare, il cammino dalla fantasia alla ragione, dal simbolo al pensiero, dalla parola all’idea (come lo concepí quel grande ingegno del Vico nell’individuare il passaggio dalla gioventú alla vecchiezza) il dissolversi delle forme per cui palpita ognuno. Rappresentatevi un giovane ed un vecchio. Il primo parla di amore, di speranze, di gioie e il vecchio sorride. Che cosa dice quel sorriso? se non: — Anch’io ho amato, ho confidato; ma ora veggo che tutto è illusione: «veramente siam noi polvere ed ombra» come disse il Petrarca, quando verso la fine della sua vita la Laura per cui aveva tanto sospirato, gli compariva in tutto altro aspetto — . Il poeta si addentra nel reale, nelle idee della umanitá, del popolo e dell’individuo. Egli abbraccia la scienza, la politica, la civiltá, la religione con quel senso del concreto che costituisce la sua arte. Egli vuole andare dalla lettera allo spirito (religione), dall’errore alla ragione, alla rivelazione, dal male al bene, dal vizio alla virtú ed espiazione, dall’anarchia alla unitá, dalla licenza alla legge. Ma tuttavia noi siamo ancora nel campo dell’astrazione; perché la forma abbia una sua esistenza distinta da tutte le altre conviene che sia imparentata coi lineamenti del suo tempo: [che] la veritá diventi Bice, la ragione Virgilio, la religione la Chiesa romana, cui [il poeta] vuole condurre alla sua semplicitá; l’anarchia Firenze ed Italia, l’errore e la scienza volgare de’ predicatori del suo tempo, contro cui inveisce Beatrice che vuole innalzare all’infinito, all’immortale le opinioni del medio evo, del suo tempo.

Ma non basta che il concetto non solo sia divenuto uomo, ma tale uomo; non solo popolo, ma tale popolo; non solo tempo e luogo, ma tale luogo e tale tempo: ma conviene che il concetto, l’idea viva nel particolare nei momenti diversi in cui si esprime: noi usciamo dall’astratto per andare al reale. [p. 329 modifica]

L’inferno è il regno della materia irrazionale, del male e dell’errore, del brutto, dell’anarchia eslege, anarchico, mostruoso ed informe, la forma manchevole e difettosa, entomata in difetto, un verme in cui sua «formazion falla»; manca l’elemento razionale che lo fa bello. Non vi è piú né il bello naturale: sono scomparsi questi nostri campi, prati e valli, il cielo azzurro, i fiori de’ margini gai e gentili. Non vi sono che abissi sprofondati, angusti quanto piú si discende nel fondo, rupi aride, infeconde, scoscese, tristi valli. Nessuno orizzonte, fitte tenebre interrotte da suono cupo ed acuto; nessuna immagine che ricrei i sensi; ma si incontrano materie che fanno zuffa cogli occhi e col naso. Il demonio è il tipo del laido ed osceno: Caronte con occhi di bragia, Cerbero trifauce, Minosse il gran giudice con la coda, Gerione colla forma mostruosa e con la coda aguzza; Lucifero, il tipo del gigantesco sotto forme organiche. L’uomo, in attitudini violente, contorte, dispettose e strane. Dissonanze, guai, vizii, depravazione perfetta, defitti e colpe e misfatti che vanno sempre aggravandosi. Eppure l’inferno è bello, anzi piú bello; noi non sappiamo distaccarci da lui. Come ha saputo Dante accettando la situazione cavare dal brutto il bello, la poesia dalla prosa piú vile?1

  1. La scrittura è difficile a leggersi, si che non siamo sicuri di aver sempre bene interpretato; e l’interpunzione cosí strana o manchevole che abbiamo dovuto spesso sostituirla o aggiungerla. Lo stesso, quanto all’interpunzione, deve ripetersi per la lezione che segue.