Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione undecima
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Lettura prima - Lezione decima | Lettura prima - Lezione duodecima | ► |
LEZIONE UNDECIMA
Incominciai:1 poeta che mi guidi: |
Tutte le virtù giovano universalmente e sono utili a gli uomini. Nientedimeno ei se ne ritruovano alcune, le quali non son loro solamente utili, ma grandemente necessarie. E infra queste è, secondo il giudizio de’ più savi, la prima la prudenza, sì per non poter esser virtù alcuna perfetta, come diceva Socrate, senza lei, e sì perchè ella sola regola e indirizza la principale e più nobil parte della nostra anima. Per miglior notizia della qual cosa è da sapere, che son solamente quattro le potenze della nostra anima, le quali possono essere subbietto delle virtù: e queste sono l’intelletto pratico, la volontà, la parte nostra irascibile e la concupiscibile. Delle quali, cominiandosi da la inferiore, la concupiscibile, è il subbietto della temperanza, la irascibile della fortezza, la volontà de la iustizia e l’intelletto pratico della prudenza. E se bene ei si ritruovano ancora delle altre virtudi, le quali regolano in qualche modo queste tali potenze, elle derivano, a guisa che fanno i fiumi da i fonti, tutte da qualcuna di queste quattro; per il che queste sole sono chiamate comunemente le quattro virtù cardinali, cioè reggitrici delle altre. Laonde si conclude finalmente, come si è detto di sopra, che regolando e indirizzando la prudenza la prima parte dell’uomo, ella sia ancor per conseguenza la prima di tutte l’altre virtudi. Nientedimanco ei non son però mancati di quegli (se bene egli è così il vero), i quali hanno detto, e ch’essa prudenza non è virtù, e che ella non è necessaria all’uomo; provando ch’ella non sia virtù, con dire che le virtù sono abiti acquistati, e non proprietà naturali, e la prudenza è non solo proprietà naturale dell’uomo, ma di tutti gli animali, di chi più e di chi meno, secondo la perfezione della specie loro. E questo è provato da loro con l’autorità di Aristotile, il quale dice nel sesto della Etica, che le cose le quali appartengono a la prudenza sono naturali, e ch’ei si scorgon molte prudenze particolari negli animali, come racconta il medesimo filosofo nell’ottavo libro della Istoria di quegli; mediante le quali si conosce chiaramente, essa prudenza non essere virtù, ma proprietà naturale, non solo dell’uomo, ma di ciascuno animale. Dopo la qual cosa ei sono ancora similmente sforzatisi di provar ch’ella non sia necessaria al vivere rettamente, dicendo ch’ella fa il medesimo ufficio nelle cose, che fa l’arte; onde così come ei non è necessaria l’arte da poi che le cose son fatte, così non è ancor necessaria la prudenza da poi che l’uomo ha acquistate l’altre virtudi; soggiugnendo oltre a di questo, ch’ei si può ancor vivere rettamente, così per il consiglio d’altri, come per quel della prudenza sua stessa. Per il che concludon finalmente questi tali, che la prudenza non solamente non è2 virtù, ma ch’ella non è ancor necessaria all’uomo. Ai quali rispondono gli scrittori morali, la prudenza essere indubitatamente virtù; conciosia cosa ch’ella sia un abito, il quale fa perfetto colui che lo ha, in quel modo medesimo che fanno tutti gli altri abiti virtuosi; e oltre a di questo non è propietà naturale, perchè le propietà naturali le hanno tutti gli uomini parimente, e la prudenza no. E se Aristotile disse, ch’ella si esercita circa a le cose naturali, egli intese del fine dell’uomo, e di quella felicità, la quale potendo egli acquistare con le forze umane, si può dire ch’ella gli sian naturale. E quelle prudenze dipoi, che ei dicono scorgersi negli altri animali, sono instinti e propietà di natura, e non prudenze. E ch’ei sia il vero, tutti quegli di una specie operano sempre in un modo medesimo; il che sarebbe impossibile, se eglino operassero eleggendo, come fa la prudenza, essendo bene spesso bene il fare una cosa in un tempo, che non è dipoi bene farla in uno altro. È adunque la prudenza virtù, e necessarissima a chi vuol rettamente vivere: e la ragione è perchè il viver rettamente non consiste tanto nel bene operare, quanto nell’operar bene per elezione; onde così come ei non si può chiamar verbigrazia nè giusto nè temperato chi fa una operazion giusta o temperata forzatamente e non conoscendo quel ch’ei si faccia, così non si può ancor dire ch’ei viva rettamente chi non lo fa per elezione, e non conoscendo quel ch’egli faccia. Per il che ricercandosi a operare rettamente, oltre a l’aversi preposto il fine buono, procacciarsi i debiti mezzi per conseguirlo, bisogna, oltre a le virtù morali le quali rendono perfetta la parte nostra appetitiva (l’obbietto delle quali è sotto ragione di fine il bene), porre ancor nella parte nostra intellettiva una virtù, la quale la indirizzi a trovare i mezzi convenienti e proporzionati a esso fine. E questa è la prudenza, la quale non è altro che una vera ragione e una retta misura delle cose agibili; le quali cose agibili, o vero morali, son diverse da le fattibili, o vero artificiali, in quanto il fare (del quale dice Aristotile nel nono della Metafisica) è una operazione, la quale trapassando nelle cose che si fanno, fa perfette solamente quelle, come si vede verbigrazia nella Architettura e nella Scultura; e lo agere è un’azione, la quale rimane nello agente e fa perfetto lui, come si vede nello intendere. Laonde il bene operare dello artefice consiste nella opera fatta di lui, e non in lui; per il che non si ricerca nella arte, che lo artefice operi più in un modo che in uno altro, ma solamente che l’opera stia bene ella. E il bene operare dello agente consiste per il contrario in esso agente, e nel modo suo dell’operare; per la qual cosa si attende più nella prudenza a esso operare, che a le operazioni. Imperò che ei non può dirsi con ragione d’una operazione fatta a caso, ancor ch’ella sia riuscita bene, ch’ella sia stata fatta prudentemente; per la qual cosa a volere operare bene e rettamente è sempre necessaria la prudenza che consigli altrui. E per tal cagione l’operazion di coloro, i quali operano bene per consiglio d’altrui, per avere origine da altro principio ch’elle non dovrebbono, non si posson chiamar veramente perfette. Per il che è cosa manifestissima, che così come i corpi i quali non hanno sanità non posson fare operazioni da sani, così ancor similmente quegli che non hanno prudenza non possono fare opere perfette, e che conseguitino il vero e perfetto fine. Imperò che quelle, le quali non hanno il fine buono, non solo non sono buone elleno, ma ei non è ancor buona quella potenza, la quale cerca ed elegge i mezzi per acquistarlo; onde non si può chiamarla prudenza. E se bene ella è una medesima attitudine di natura, questa tale attitudine essendo male usata, e pigliando (per aver cattivo fine) male3 abito, si chiama malizia; e da alcuni, i quali vogliono per qualche loro comodo scusarla, astuzia; ed essendo bene usata, e pigliando (per avere buon fine) buono abito, prudenza. Con questa virtù della prudenza adunque ricercando il nostro Poeta de’ mezzi convenienti a conseguire il fine ch’egli si aveva preposto, il quale era di seguitar, per uscir di quella selva oscura, Virgilio per quel luogo eterno e incognito, egli gli dice:
Guarda la mia virtù, se ella è possente, |
cioè esamina molto bene, prima che tu mi fidi ed esponga a così alto e profondo passo, se la virtù mia è bastevole a tale impresa. Imperò che ei non è officio di prudente non considerar, prima che altrui pigli una impresa, se le forze sue sono atte a condurla al fine, essendo molto meglio, come diceva Tullio, il non cominciar le cose, che lo averle di poi a lasciare vergognosamente imperfette. Considera adunque bene se la mia virtù è possente a ciò, prima che tu mi esponga a trapassare da questa cognizione delle cose, a le quali io posso arrivare discorrendo, mediante il lume di quelle prime notizie le quali ha avute da la natura il mio intelletto, a la cognizione di quelle che tu mi hai detto, le quali eccedono e superano il mio lume naturale. E questo è quello che il Poeta chiama alto e profondo passo. Imperò che questa voce passo, quando ella è posta così sola come ella è quì, non significa il passo con il quale si muovon gli animali, ma qualche difficile partito, e qualche trapassamento e mutazione grande da uno stato a uno altro; per il che si chiama meritamene, il trapassar da questa vita a l’altra, passo; e così ancora, come fa qui il Poeta, il trapassar da la cognzione delle cose naturali a le soprannaturali e divine, levando la cognizione e il pensiero di terra, e innalzandolo al cielo e ponendo quivi la contemplazione. E in questo significato intende qui il nostro Poeta passo. E ch’ei sia il vero, egli si espone subitamente da sè stesso. Imperò che volendo rispondere a una istanza, la quale gli arebbe potuta far Virgilio con dimostrare ch’eglino erano andati ancor degli altri, mentre ch’eglino eran vivi, a quel luogo eterno, egli gli dice: tu dici, cioè scrivi nel tuo volume, che il parente di Silvio (cioè Enea, da ’l quale discese Silvio re di Alba)
Corruttibile ancora, ad immortale |
cioè passò ancora egli, mentre ch’egli era vivo, non immaginariamente o per astrazione d’intelletto, ma sensibilmente e con la cognizione stessa sensitiva, a secolo immortale, cioè a l’altra vita non misurata da tempo. Imperò che questa voce secolo, se bene alcuni canonisti hanno tenuto che voglia dire un tempo di cento anni, significa propiamente una durazione, non misurata da tempo, ma perpetua, come sarà la nostra vita futura. Questo che tu di’ è vero, e confessolo, si ha a intendere per la forza di quel che segue; ma ei non son già le ragioni pari e di Enea e di me. Imperò che se lo avversario d’ogni male, cioè Dio ottimo e grandissimo, sommo e perfetto bene, fu liberale e cortese in concedere tal grazia a Enea, egli lo fece per il grande e maraviglioso effetto, il quale egli aveva ab eterno predestinato che dovesse nascere di lui. E questo fu lo Imperio Romano, il quale aveva per la potenza e grandezza sua a comandare per alcun tempo a tutto il mondo. E la cagione di tal cosa è assegnata da ’l Poeta medesimo nella terza parte del suo Convivio. Dove, ragionando egli della grandezza di esso Imperio, dice così: «Volendo la smisurabile bontà divina l’umana natura a sè riconfermare, che per la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita, eletto fu in quello altissimo e congiuntissimo concistoro della Trinità, che il figliuolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia. E però che nella sua venuta, non solamente il cielo, ma la terra conveniva essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione della terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta a un principe; ordinato fu per lo divino provvedimento quel popolo e quella città, che ciò doveva adempire, cioè la gloriosa Roma. E perchè anche lo albergo, dove il celestiale Re entrare doveva, conveniva esser mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, della quale dopo molti meriti nascesse una femmina, ottima di tutte l’altre, la quale fusse camera del figliuolo di Dio. E questa progenie fu quella di Davit, del quale nascesse la baldanza e lo onore della umana generazione, cioè Maria. E tutto questo fu in un temporale, che Davit nacque, e nacque Roma; cioè Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della città Romana, sotto l’imperio della quale, come testimonia Luca Evangelista, fu dipoi al tempo di Cesar Augusto pace universale per tutto, che mai più non nè fia.» E queste son le parole propie del Poeta in quel luogo; per il che egli dice ancora qui, ch’ei non fu cosa disconveniente che Dio concedesse a Enea tal grazia, dovendo egli esser padre dell’alma Roma, cioè eccelsa e alta, secondo il Boccaccio e Francesco Buti; o veramente (secondo il Landino) nutritiva, come significa propiamente questa voce alma nella lingua latina, per aver Roma primieramente creato, e dipoi grandissimo tempo nutrito esso Imperio, e per essere oltre a di questo stata stabilita, come séguita il testo, per lo loco santo:
U’ siede il successor del maggior Piero; |
cioè per il luogo ove avesse a stare la cattedra di Piero Apostolo, chiamato da ’l Poeta il maggiore, per antonomasia ed eccellenza di santità, rispetto a gli altri successori suoi. Il quale luogo, a voler saper perchè il Poeta lo chiami santo, fa di mestieri considerare che questa tal voce deriva nella lingua latina (donde ella è di poi trapassata nella nostra) da un sancio verbo, il quale significa consacrare con sangue; tratto da ’l modo con il quale si consacravano anticamente ne’ sacrificii, col sangue degli animali, quelle cose le quali avevano a servire al culto degli Dei; onde elle eran dipoi chiamate sante. A similitudine delle quali chiamano ancor sante i sacerdoti nostri le cose deputate al servizio divino, e particularmente i templi e le chiese; e per questa cagione chiamavano ancor poi i latini, quando eglino approvavano una legge con pena di sangue, sancire leges. Oltre a la quale opinione sono stati alcuni altri, i quali hanno detto che santo significa munito e difeso da le ingiurie e da le violenze degli uomini, e ch’ei deriva da una erba chiamata sagmina, con la quale avevano in uso i Romani di coronare i loro oratori, acciò che ei fossero riguardati e onorati, come persone pubbliche e approvate; onde chi offendeva e disonorava dipoi quegli, offendeva e disonorava il nome Romano. Il quale costume usarono ancor prima di loro i Greci, ma con un’altra erba, chiamata cerazia. Per le quali tutte a tre significazioni, chiama la religion nostra quegli spiriti beati, i quali hanno dimostrato qualche manifesto segno di esser del numero de’ veri amici di Dio, santi. Al che fare la ha inluminata la dottrina di Giovanni Evangelista, il quale volendo descrivere nel suo Apocalisse lo stato di essi eletti dice, da poi ch’egli ha narrato come eglino erano stati segnati in fronte da l’Angelo: questi son quegli i quali lavarono le stole loro nel sangue dello agnello (che è il primo significato); laonde ei son sicuri da ogni violenza e da ogni forza, nè cadrà più sopra di loro fame, sete o alterazione alcuna (che è il secondo); e colui, il quale siede sopra il trono, gli confermerà abitando sopra di loro (che è il terzo). Per il che, confermandogli e approvandogli ancora ne’ suoi Canoni, la Chiesa cristiana gli chiama Santi; e delibera e ordina che i loro nomi sieno celebrati e onorati pubblicamente da gli uomini. Per tutte a tre queste cagioni chiama adunque ancora il Poeta nostro Roma il loco santo, essendo ella stata, come noi abbiamo detto, deputata da la divina provvidenza per il luogo, nel quale avesse a resedere la cattedra della sua Chiesa cattolica, consegrata nel sangue di Cristo suo unigenito figliuolo, confermata e approvata da quello di sì gran numero di martiri, e assicurata delle offese del mondo da le parole di esso Cristo il quale disse: quod portæ inferi non prævalebunt adversus eam, cioè che nè le potenze de’ tiranni del mondo, nè le false dottrine degli eretici (le menti de’ quali si posson meritatamente chiamar, per la ostinazion loro, porte infernali), non potranno mai farla mancare.
Per questa andata, onde gli dài tu vanto, |
Per la quale andata, séguita il Poeta, onde tu gli dài lode (chè così significa questa voce vanto, senza lo articolo, nella nostra lingua; perchè con lo articolo significa ella non solo lode, ma la prima lode, come dimostrò chiaramente il nostro M. Francesco Petrarca, quando disse della sua M. Laura:
Vedendosi fra tutte dare il vanto), |
esso Enea intese da Anchise suo padre cose, le quali furon cagione della vittoria ch’egli ottenne contro a Turno e Mesenzio, e conseguentemente della edificazione di Roma, dove aveva a far residenza il papale officio, inteso da lui con questa voce ammanto, il quale è uno ornamento pontificale, in quel modo che s’intende ancor vulgarmente il Cardinalato per il cappello, il quale è uno ornamento de’ Cardinali. Dopo le quali parole, dubitando il Poeta che Virgilio non avesse saputo da Beatrice, che Paulo Apostolo fu ancora egli, mentre ch’egli era in vita, rapito e tirato da la potenza divina nello altro secolo; onde gli potrebbe essere ancor fatta da esso Virgilio la medesima instanzia di lui, che di Enea; egli previene con la risposta ancora a quella. Ma perchè ei non era certo che Virgilio lo sapesse, come di Enea del quale egli aveva scritto, egli non gli dice come di Enea: tu dici, o veramente: tu potresti dire, ma dice assolutamente:
Andovvi poi lo vaso5 d’elezione. |
Nella esposizione del qual verso affaticandosi non poco il Landino, per parergli cosa strana che il Poeta dica che Paulo andasse a lo Inferno, essendo egli stato rapito al terzo cielo, dice finalmente che Paulo ebbe cognizione, in esso rapimento, così dell’Inferno come del Paradiso. La qual cosa non arebbe egli avuta a pensare, se egli avesse notato, che se bene Virgilio dice ch’Enea andasse a lo Inferno, ei non dice ch’ei vi andasse ancor similmente Paulo; e se egli avesse considerato diligentemente quel che disse Virgilio, e quel che risponde Dante. Imperò che Virgilio, da poi ch’egli ebbe consigliato Dante a tenere altro viaggio, e dimostratogli come ei pensava ch’ei fusse il suo meglio il seguitarlo, gli disse:
E trarrotti di qui per luogo eterno, |
chiamando lo Inferno, il Purgatorio e il Cielo, tutti a tre insieme, luogo eterno con il nome del genere; e dipoi lo divide nelle sue specie, le quali sono, come voi udiste nello altro capitolo, Inferno, Purgatorio e Paradiso. Volendo adunque il nostro Poeta tenere il medesimo ordine nel rispondere, chiama primieramente tal luogo secolo immortale, con un nome generico; e dipoi lo divide in quelle specie, le quali facevan di mestieri a lo intendimento suo; e queste sono lo Inferno, al quale andò Enea, e il Cielo al quale fu rapito Paulo. Dove è grandemente da considerare come ei possa stare, che il Poeta dica di Paulo, il quale ascse al cielo, rapito e tirato da la potenza divina, ch’egli vi ascendesse, con questa voce andovvi; la qual significa muoversi e naturalmente e volontariamente, conciosia cosa che lo andare nasca da un principio il quale è dentro a la cosa la quale va, onde si chiama moto naturale; e lo esser rapito procede da una forza la quale nasce da una potenza che è fuori della cosa rapita, onde si chiama moto violento. Per dichiarazione della qual cosa, e insieme della gran dottrina e della maravigliosa arte del Poeta, è da sapere, ch’ei si ritruovano alcuni moti, i quali se bene ei muovon le cose con movimenti i quali non son lor naturali, ma più tosto in tali cose moti violenti; e questo nasce perchè ei dànno con essi moti maggior perfezione a quelle cose ch’ei muovono, che non fanno i lor moti naturali; e ogni cosa ama e desidera per natura il bene. E di questo voi ne avete lo esempio del moto del primo mobile. Il quale se bene ei muove tutti a sette gli orbi de’ pianeti, ogni giorno, da levante a ponente, contro a ’l lor moto naturale il quale è da ponente a levante, ei non si dice però che tal moto sia loro violento. E questo è perchè egli dà lor maggiore perfezione; imperò che egli assomiglia al primo motore, il che non fa loro il lor moto naturale. Per la quale ragione non si chiama ancor violenta quella immortalità, che darà la beatitudine delle anime degli eletti dopo il giorno del giudizio a i loro corpi, se bene ella sia contro la loro natura, la quale è di essere mortali. E per questo, se bene Paulo fu rapito al cielo con un moto il quale non gli era naturale, perchè tal moto gli apportò maggior perfezione che il suo naturale (innalzandolo egli la cognizion di Dio, ove ei non poteva naturalmente mentre ch’egli era in vita pervenire, se non per mezzo di queste cose visibili imperfettamente, e per modo di specchiarsi in quelle), il Poeta non lo chiama violento, e non dice: fu rapito o tirato, ma andovvi; dimostrando con questa parola, che tal moto non fu contro a la volontà sua, facendolo egli degno di ascendere fino al terzo cielo; cioè secondo alcuni (i quali pongono il cielo stellato e cristallino) al cielo empireo, ove è la sedia di Dio e il luogo de’ beati; e secondo alcuni altri, sopra la terza e suprema ierarchia degli Angeli, dove ei vide l’essenza divina; chè così interpreta Agostino quelle role: vidi quæ non licet hominibus loqui. E perchè se bene l’anima sua in quello tanto ch’ella fruiva la visione di Dio fu beata; perchè tal beatitudine fu, come dicono i teologi, per via di trapassamento, e non fu permanente, onde ella redundasse e trapassasse nel corpo; egli scrive a’ Corintii, che ei lo sapeva Dio stesso. Per queste ragioni adunque non dice Dante, che Paulo fosse rapito al cielo, ma dice: andovvi, soggiugnendo che la cagione fu
Per recarne conforto a quella fede |
cioè acciò che, essendo egli stato eletto da Dio, come si legge ne’ Fatti degli Apostoli, e dice disopra il testo, per quel vaso di elezione, il quale avessi a portare il nome suo, non solo a’ figliuoli di Isdrael, i quali sono gli Ebrei, ma ancora nel conspetto delle genti, che sono i Greci e i Romani, ei potesse predicare con maggiore autorità ed efficacia quella fede, la quale è principio e cagione della salvazione nostra. Il principio, perchè a chi vuole appressarsi a Dio, nella qual cosa consiste la salute nostra, bisogna credere, essendo impossibile (come scrive Paulo) piacergli senza fede. E la cagione, perchè da lei sola nascono e procedon quelle operazioni, a le quali è piaciuto a la liberalità divina dare, se non per merito, almanco per grazia, in premio il regno del cielo; ed essendo oltre a di questo cosa convenientissima (avendo Paulo a render testimonianza delle cose divine, ed essere il primo dottore de’ Gentili) ch’ei vedessi ancora egli a faccia a faccia Dio, come fece Moises, il quale fu il primo degli Ebrei. Considerando adunque il nostro Poeta, quanto fossero state grandi le cagioni, per le quali era stato concesso da Dio a Enea e a Paulo, ch’eglino andassero vivi nello altro secolo, il che non avveniva di sè, soggiugne:
dimostrando con arte grandissima, che non che gli altri (i quali giudicano più rettamente, che non faceva forse egli stesso, rispetto a l’amor propio), si giudicava al tutto indegno egli di tal cosa; e concludendo finalmente, che se egli si sbigottiva, e abbandonava l’andar seco, lo faceva solo perchè ei temeva che tale andata non riuscisse folle, cioè vana, come dice il testo; soggiugnendo, per spronar Virgilio maggiormente a considerar le difficoltà ch’erano nel luogo, per il quale e al quale ei voleva menarlo:
Sei savio, e intendi me’ che io non ragiono. |
E qui posto fine a tal ragionamento, egli dimostra con una bellissima comparazione, qual fusse divenuto, combattuto da così diversi pensieri, il suo animo dicendo:
Imperò che come colui al quale, sopravenendo qualche nuovo pensiero, muta di tal maniera il proposito suo, ch’ei disvuole e non vuole più quel ch’egli voleva prima, così divenuto tale il nostro Poeta in quella oscura costa, cioè piaggia (oscura litteralmente, perchè si discostavano, camminando a lo ingiù, di mano in mano più da’ raggi del sole; e oscura allegoricamente, perchè camminava ancora, in quanto a sè, nella incertitudine della sapienza umana), consumò e finì l’impresa, la quale egli aveva così tosto, prestando fede a le parole di Virgilio, incominciata. Della qual cosa accorgendosi Virgilio, gli rispose quel che noi esporremo, concedendolo Dio, nella lezione che verrà.