Lettere (Sarpi)/Vol. II/257

CCLVII. — Al Doge

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CCLVII. — Al Doge.1


In esecuzione del comandamento di Vostra Serenità, estenderò in questo foglio il ragionamento che [p. 440 modifica]io ho avuto con l’altezza del serenissimo principe di Condé, mercoledì prossimo passato, in casa e in presenza dell’illustrissimo Contarini, savio di Terraferma, secondo l’ordine che nell’eccellentissimo Collegio mi fu imposto.

In quel giorno, mi ritrovai nella suddetta casa innanzi che vi giungesse il signor principe, dove venuto, nell’incontrarlo, stimai che convenisse che io fossi il primo a parlare; usai quelle parole di reverenza e di complimento che stimai convenire, e da lui fui corrisposto con molta umanità. E postici a sedere, colla presenza dell’illustrissimo Contarini, disse il signor principe, che aveva avuto curiosità di vedermi e parlarmi, e che si maravigliava della difficoltà che aveva incontrato, perchè molti principi hanno religiosi al suo servizio, e nessuno gli tiene legati che non possino trattare;2 che non voleva dir altro quanto alla legge della Repubblica che i suoi ministri non trattino, ma che gli pareva doversi far anco qualche eccezione. Io gli risposi, che nessuna cosa più manteneva la legge in vigore, quanto l’osservanza generale senza esentar alcuno; perchè una eccezione chiama l’altra, e finalmente si risolvono in total abrogazione della legge:3 che io mi stimava [p. 441 modifica]legato perciò; anzi, che reputavo che mi fosse di utilità e beneficio, e quando non vi fosse legge che mi obbligasse, vorrei io obbligar me stesso. Disse il signor principe qualche parola in comprovazione, e poi passò a dimandarmi: se era lecito ad un principe introdur l’eresia nel suo Stato. Risposi che una interrogazione così generale ricercava una presta e risoluta risposta, che ciò non era lecito; ma che il punto stava in dichiarare che cosa s’intendeva per eresia, perchè la medesima cosa sarà stimata eresia da persone cattive che vogliono opprimer altri sotto pretesto di religione, e da buoni cristiani vien tenuta per sana dottrina. Soggiunse il signor principe: — Parliamo, adunque, di quelle che sono eresie già condannate da tutti. Dimando se è lecito ad un principe condur tali eretici nello Stato suo. — Risposi che questo in alcuni casi potrebbe esser male, e in altri bene: perchè, se un principe ammettesse eretici nello Stato suo a fine che i propri sudditi fossero contaminati, sarebbe un gran male; ma se lo facesse a fine che quegli eretici fossero instrutti e diventassero cattolici, sarebbe un gran bene; e che innumerabili possono esser le cause cattive e innumerabili le buone: ma che un principe, il quale non riconosce superiore se non Dio, non è tenuto a dar conto delle cause che lo muovono, e ognuno debbe stimare che siano giuste e ragionevoli; perchè gli altri che vogliano condannarlo e farsi giudici, offendono Dio, usurpandosi quello che sua divina Maestà s’ha riservata, che è l’esser solo giudice de’ principi sovrani. [p. 442 modifica]

Interrogò il signor principe: se era lecito aver eretici nelle sue milizie. Risposi che papa Giulio II aveva squadre di Turchi nell’esercito suo in Romagna; che papa Paolo IV condusse, a sua difesa in Roma, alquante compagnie di Grisoni eretici, e diceva che erano tanti angeli mandati da Dio alla sua difesa; che abbiamo nella divina Scrittura esempi di molti santi principi i quali si sono valuti delle arme degli infedeli; e esser notabile l’esempio che David, con la sua gente, andò in campo degl’infedeli contro i medesimi Israeliti. Disse il signor principe che questo era il tempo dei profeti; e io gli replicai, esser dottrina di san Paolo, che tutto quello ch’è nella Scrittura divina è ordinato dallo Spirito Santo per nostra instruzione, acciò, imitando quelle azioni, siamo certi di non fallare.

Passò il signor principe a ragionamenti dello stato delle cose presenti; alle quali io non diedi risposta alcuna, ma l’illustrissimo Contarini rispose ben quanto conveniva. Concluse il signor principe, che era bene a difendere la propria libertà, ma però conveniva tener maggior conto della religione, e non far cosa minima contro la religione per mantener la libertà. A questo io gli risposi, che non si possono incontrare e urtarsi se non quei che camminano per la medesima via; ma quei che vanno per diverse strade, non possono nè urtarsi nè incomodarsi: che il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in Cielo, e che però la religione cammina per via celeste e il governo di Stato per via mondana, e però non può mai incomodar l’altro; ma ben vi è un certo appetito di dominare mascherato di religione, che cammina per vie mondane, e a quello non [p. 443 modifica]conviene aver alcun riguardo, come a cosa non divina ma fraudolente; e esser gran cosa, che tutta la predicazione di Cristo Nostro Signore, e di tanti Apostoli, non è versata in altro, se non a dichiarare le promesse del Testamento Vecchio temporali si debbono intendere spiritualmente, e non di cose mondane; e adesso, tutto il contrario, non si ha altra mira, se non di tirar al temporale le cose spirituali da Cristo promesse alla Chiesa.4 Il signor principe mi parve fermato assai a questo, e passò a dire diverse cose delle correnti nel mondo; e io sempre mi valsi di questa risposta, che delle cose politiche io non intendevo, e che superavano la mia portata.

Volse sua Altezza introdur ragionamento delle differenze passate nell’occasione dell’Interdetto. Io risposi che erano sopite e scordate; ed egli replicò che il tentativo d’ammazzarmi mostrava che non erano scordate; ed io soggiunsi che quello era scordato più di tutto. E egli m’interpellò, se io amava quei di Roma, e se credeva esser amato da loro. Risposi, che dal canto mio non cadeva relazione di amore, ma che io gli osservavo e riverivo, come conviene alla loro grandezza. Qual pensiero essi avessero di me, io non l’aveva mai ricercato, bastandomi assai attender al servizio del mio Principe.

Disse il signor principe, che avrebbe caro che io li dicessi come intendevo che un principe non può essere scomunicato, e come si possa difendere che se il principe fosse indegno, non dovesse esser [p. 444 modifica]proibito dai sacramenti. Risposi, che scomunicar vuol dire separar dal consorzio e commercio de’ fedeli, e che non si possono separar quelli che Dio ha congiunto; e però la scomunica non può separar la moglie dal marito, perchè Dio li ha congiunti; nè il figlio dal padre, perchè Dio ha comandato che il padre sia ubbidito; nè meno il servo dal suo signore, nè il suddito dal principe, perchè l’obbedienza di questo è da Dio comandata. Che il punto sta qui: che con le scomuniche si tratta di assolvere li sudditi dal debito della fedeltà, e che dei sacramenti non si ha pensiero alcuno; e che nessun principe, quando fosse avvertito d’essere indegno, si arrogherebbe di voler i sacramenti, purchè non si trattasse di sovvertirli lo Stato, e levarli quell’obbedienza che, essendo comandata da Dio, nessun uomo con qualsivoglia autorità può levare. Disse il signor principe, che così l’intendevano in Francia, e che però le mie scritture erano state lodate. Gli risposi che la laude non viene a me, ma alla verità, che è chiara; e quanto a quelle scritture, che io le stimo deboli, e non vorrei manco esser giudicato da quelle. Mi soggiunse che era un’altra opera intitolata Istoria del Concilio di Trento, che si diceva esser mia. Risposi, che a Roma sapevano molto bene chi era l’autore; nè volsi uscire di questa risposta. Mi dimandò se io avevo scritto altro: risposi non aver scritto nè esser mai per scrivere cosa alcuna, essendo certo che mai quel ch’è scritto è inteso dal lettore nel senso dell’autore.5 [p. 445 modifica]

Passò poi a dirmi, che io ero religioso, e toccava a me consigliare V.E. illustrissima di quello ch’era bene. Io dissi che V.S. non si serviva di me per consigliare negli affari del governo, perchè non aveva bisogno di consiglio; ma solo in qualche causa di giustizia tra il Principe e li sudditi, ovvero tra li sudditi medesimi. E perchè egli si rendeva difficile ad assentir a questo, io lo supplicai più volte di crederlo. Passarono diverse parole di complimento, ed essendo il ragionamento durato circa un’ora, il signor principe si partì.

Questa è la sostanza de’ discorsi, che durarono circa un’ora, e passarono dal canto mio con tutti li termini di reverenza, e dal canto del principe con ogni dimostrazione di abbondante umanità; essendomi però restato concetto nell’animo, attese le cose precedenti, e giunti qualche altri indicii, che quel signore non mi abbia detto tutto quello che aveva disegnato dirmi.

Ma piacendo a V.S. intender anco le cose che passarono precedentemente, aggiungerò che, essendo arrivato il signor principe in questa città la domenica 13 del mese corrente, il lunedì seguente venne al monasterio, accompagnato solamente da due dei suoi, e addimandò di parlarmi. Il frate che attende alla porta, avendo così commissione da me sempre che son ricercato da persone non conosciute, rispose che io non ero in casa. Il giorno seguente, tornò il signor principe, accompagnato con alquanti e con due nobili di questa città, ricercò di parlarmi e disse di essere il principe di Condé. Li fu risposto parimente che io non ero in casa; ed uno di que’ gentiluomini disse, saper molto bene che io vi era, e [p. 446 modifica]faceva dir di non esservi; ma che il giorno seguente dovesse ritrovarmi, perchè il signor principe era per parlarmi.

Quel giorno seguente, che fu il mercoledì dì 16, venne il signor principe alle diciannove ore, in tempo che io ero ancora in palazzo, e si trattenne aspettandomi fino alle ventidue; ma io, risaputolo, mi trattenni fuora.6 In queste tre ore che il signor [p. 447 modifica]principe restò in monasterio, ragionò con diversi frati; e prima andò in chiesa a vedere la sepoltura di Rinaldo Brederod,7 che morì in Friuli al tempo della guerra, e disse meravigliarsi che in quella chiesa si seppellisse eretici, e che quello era eretico. Li rispose il frate, esser costume dei monasteri di Venezia di seppellir li morti condotti alle chiese dai preti, senza ricercar chi sieno; e che non poteva credere che dai preti fosse stato accompagnato alla sepoltura un morto, se non fosse vissuto cattolico.

Introdusse ancora il signor principe col signor prior del monasterio ragionamento della persona mia. Li dimandò se io diceva messa, se la dicevo ogni giorno e a che ora, e se il popolo sta presente alla mia messa. Li rispose il priore, che io dicevo messa la festa, e spesse altre volte; che la mia messa era l’ultima, alla quale stava presente; il concorso del popolo esser ordinario nella chiesa. Li dimandò poi, se io ero accomodato con Roma; a che il priore rispose di non saper che io avessi avuto altra differenza se non quella per le scritture occorse nell’occasione dell’Interdetto. Soggiunse il signor principe, che quelle scritture le aveva vedute, e che in Francia erano della medesima opinione, e che la Sorbona di Parigi le approvava. Li dimandò appresso, se in monisterio io era mal veduto; se avevo alcun inimico, ovver emulo: al che essendo risposto di no, dimandò se io era nemico dei Gesuiti. A questo il priore passò con termini generali; e per divertirlo [p. 448 modifica]da tal ragionamento, entrò in la pace di Francia. In questo proposito, disse il principe che gli Ugonotti erano persone inquiete; che non si contentavano di vivere a loro modo, ma che volevano anco dominare; e se si contentassero solo di viver a modo loro, sarebbero sollevati; siccome anco in Venezia ci sono molti che vivono a modo loro. Al tempo delle ventidue ore, vennero alquanti gentiluomini a levarlo, e si partì.

Io ho schivato nelli suddetti tre giorni l’occasione di parlare con S.A., per non essermi lecito di farlo senza la pubblica licenza;8 ed infino ero di opinione, che da questo non potesse succedere alcun buon effetto. Ma avendomi comandato V.S. che io dovessi fargli riverenza e ricever i suoi comandamenti, in esecuzione di questo, è successo il ragionamento di che ho fatto di sopra menzione.

26 novembre 1621.

Um.mo e Dev.mo Servitore.

Fra Paulo di Venezia.




Note

  1. Inedita, e tratta dal suo originale, ch’è negli Archivi di Venezia, colla sottoscrizione della mano medesima del Sarpi. V’è pure la riferta, come dicevasi, del Segretario, per indicarne la ricevuta in quel dì stesso 26 novembre 1621. Era doge in quel tempo Antonio Priuli. Ancora il Griselini fa brevemente cenno dell’abboccamento avuto da Fra Paolo col primo principe della real casa di Francia, riferendolo all’anno 1620 e dicendolo avvenuto alla presenza di un segretario del senato; due circostanze che sarebbero da emendarsi secondo la nostra pubblicazione. (Mem. anedd. ec., pag. 117). Chiunque legge non potrà non avvedersi della molta bellezza e importanza di questa relazione o Lettera.
  2. La maraviglia del Condé era ben giusta. Anche noi vorremmo ecclesiastici spontaneamente patriotti e sottomessi alle leggi; ma non vogliamo nè schiavi nè iloti di alcuna sorta.
  3. La questione, quando vi fosse stata libertà di agitarla, non cadeva sulle eccezioni (sempre pessime), ma sulla legge stessa che ha riguardo ai diritti naturali e all’umana dignità.
  4. Ci accadde anche altre volte di riflettere, ma giova di nuovo interrogare: Ora che direbbe il Sarpi di quanto accade negli anni di grazia che noi contiamo; in questo sì sfolgorante e tanto di sè vano pomeriggio del secolo XIX?
  5. Avvertimento agli autori, che molti avevano in sè certamente sentito, ma che nessuno avea forse con sì formali termini espresso.
  6. Al Sarpi non era ignota la venuta del Condé a Venezia, avendo tra gli altri oggetti quello di tentar l’animo suo; e ciò per esserne stato avvertito dall’ambasciatore veneto in Francia, colla seguente lettera, che ci venne altresì spedita come inedita negli Archivi di Venezia:
                         “Rev. Signor mio osservand.
         Il Principe di Condé, in un congresso che seco ho avuto, m’addimandò con grande istanza della persona di V.S. Rev., mostrando di far molta stima delle virtù di lei e del suo merito. Poi soggiunse l’E.S.: — Va in volta un certo libro intitolato l’Istoria del Concilio di Trento, la quale sebbene è stata data in luce dall’arcivescovo di Spalato, che è in Inghilterra, si dice però esser composizione del padre maestro Paolo. Questo libro è sotto la censura della Sorbona, e dicesi che non si approverà. Se ciò fosse (disse il Principe), saría con un poco di nota al padre maestro Paolo. — E poi m’addimandò, se di questo libro io ne avessi saputo cosa alcuna. Risposi di no; ma ben che potevo affermare all’E.S., che V.S. Rev. non fa se non cose che possono stare al martello, e che potrebbe essere tal libro non fosse sua composizione. E qui dissi della bontà, della modestia e della intelligenza di V.S. Rev., ciò che si conviene. Ora, per dire il vero a Lei, questo principe fa il difensore del partito cattolico per accomodarsi al viver presente. Ho voluto avvisarla di questo particolare per ricever da lei informazione come mi dovrei regolare nelle risposte in questo proposito. Intanto bacio la mano a V.S. Rev., e me le raccordo in grazia.
              Di Parigi, a 22 novembre 1619.
                        Di V.S. Rev.

    Obb.m0 Servitore.   

    Angelo Contarini.„

  7. Si ha notizia (e di questo probabilmente vuolsi in tendere) di un Reinardo di Brédérode, olandese, che aveva messo a stampa un Giornale dell’ambasciata in Moscovia, relativa agli anni 1615 e 1616.
  8. Ed ecco la sostanza della legge che ciò vietava, secondo un appunto mandatoci anch’esso come desunto dai veneti Archivi:
         “L’anderà Parte, che, conforme all’intenzione delle predette leggi, e acciò che non siano in ciò più ristretti i Nobili nostri che li altri, debba eziam esser proibito ai segretari nostri, consultori, dottori e qualunque altre sorte di ministri, che avessero o potessero avere occasione di servir o consigliar la Signoria Vostra, lo intervenir, trattar nè servir in alcuna maniera nelle materie o negozi spettanti al Sommo Pontefice o alla Corte di Roma, di quel modo appunto e con le medesime pene, ch’è proibito ai Nobili e Senatori nostri papalisti.„