Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/IX

IX.

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IX.


Disarmare la religione importa tre cose: prima, torre al Clero il potere su la vita e la libertà degli uomini, che l’esercitasse di per sè, o di quello si valesse dello Stato ridotto ad esserne il braccio; secondo, porre un termine alle ricchezze e alle guadagneríe del Clero; terzo, provvedere che la sua autorità, quale che si sia, non torca a mal uso. Il Sarpi comprendeva benissimo il male e il rimedio, come fanno fede le lettere sue; ma Venezia procedeva più guardinga ed incerta, che non avesse voluto il suo consultore. Venezia era vecchia oggimai, e la sua aristocrazia temeva le novità, amando meglio adagiarsi nell’inveterata sopportazione de’ mali. Bisognò che i papi ne stancassero l’infinita pazienza, perchè ricalcitrasse e si difendesse. E la difesa mostrò quanto sarebbe stato facile vincere. Questa facilità proveniva dall’essere oggimai odiosissima e grave ai popoli l’inquisizione ecclesiastica: pretendeva, nientedimeno, il Clero d’impedire ogni commercio de’ cattolici con gli eretici; e chi per cagione di mercatanzia o altra siffatta dovea andare ai loro paesi, dovea dimandarne la licenza a’ preti, che senza denaro non l’avrebbero data di leggieri. Inoltre faceano caso di coscienza il non far la spia l’un [p. xliii modifica]dell’altro, ancorchè fossero vicini o parenti; e su non pochi peccati inquisivano, come se contenessero eresia; e una minuta vigilanza adoperavano su i libri e le opinioni e l’educazione della gioventù, che volevano trarre tutta a sè co’ Gesuiti e co’ seminarii. In una parola, il Clero ch’era surto in altri tempi talvolta come un tribuno imperterrito a difesa e favore de’ popoli, allora era un tiranno odioso; e i governi che in altri tempi erano stati violenti, assumevano allora la dignità, resistendo al Clero, di mantenitori della giustizia e amatori della libertà. Per poco che i governi abbiano voluto in questa parte abolire e restringere l’esorbitanza de’ preti, venne lor fatto, nè il fanatismo potè contro la ragione. Similmente, hanno potuto con facilità sommettere i chierici alla loro giurisdizione ne’ piati civili e nelle ricerche criminali, e abolire quelle che chiamansi immunità; e la ragione ne rende bellamente Fra Paolo in una lettera, dicendo che non veniva perciò scemata la libertà de’ cherici più che non fosse quella de’ laici, ma posto un termine alla loro licenza, della quale erano amatori ardentissimi. Agli occhi di tutti apparivano oggimai i danni della mano morta, che pigliando sempre e non aprendosi a render mai, tutte in poco volger di tempo avrebbe assorbite le ricchezze della società; e a questo avevano i preti un accorto trovato, ed era di rinnovellar gli ordini religiosi, che cominciavano col trar la vita mendicando tra le penitenze e i digiuni, e con siffatto tenor di vita arricchivano, e [p. xliv modifica]divenuti oziosi, molli e scioperati, non perdevano gli acquisti fatti; e quando scemava il numero di que’ frati o monaci, perchè a molti repugnava di far quella vita tanto aliena dalla professione, il papa, coll’uso delle commende, s’insignoriva dell’eredità; e per questo e per disporre de’ benefizii e per le riserve e tutti i modi di far denaro inventati dalla cancelleria, egli era il padrone universale; e i governi di Francia e di Spagna se ne schermivano appena col volere che i benefizii non fossero dati che ai loro proprii sudditi, e con gli altri articoli dei concordati a cui si prestava, quando non potea più resistere, l’accortezza romana, confondendo sempre più il sacro e il profano. Era però naturale che i governi e i popoli guardassero con invidia e bramosía i rimedii pronti ed efficaci che i Protestanti avevano messo in opera; onde proveniva che mentre le nazioni cattoliche decadevano, le protestanti poggiavano in altezza per un miglior sistema economico. Senzachè, dall’eccessiva ricchezza del Clero nasceva un altro male gravissimo: molti si rendevano frati o preti che non avevano vocazione, pur per avere di che vivere e perpetuare i beneficii nelle case; d’onde una generale ipocrisia, che mal velava la corruttela de’ costumi; e puoi vedere nelle Lettere del Sarpi, quali delitti enormissimi bene spesso alcun chierico commettesse, di omicidii, di rapine e di tradigioni. Per fermo codesti rei uomini erano pochi, rispetto al numero grandissimo de’ chierici; e sia. Ma certo sarà incredibile ai [p. xlv modifica]posteri, che i papi abbiano voluto ad un’ora moltiplicare infinitamente il numero de’ preti e tenere la legge del celibato, predicare per virtù scabrosissima la continenza, ed imporla a centinaia di migliaia di uomini; e da questo solo fonte, più che da tutti gli altri insieme, fluiva e si diffondeva l’immoralità, la quale non puossi niegare che fosse troppa più ne’ paesi cattolici che negli altri. Più difficile era, ed è, provvedere all’abuso dell’autorità clericale, che potentissima è quantunque pur sia ristretta ne’ suoi confini. Un rimedio di fatto era sciorre e scacciar dallo Stato le congreghe religiose che gli si scuoprivano inimiche com’erano e come era accaduto de’ Gesuiti. Ma questo rimedio non è sufficiente, potendosi per mille modi offender lo Stato anche senza questo delle congreghe. Il Sarpi, in una sua Lettera (69 della nostra edizione), si eleva ad un principio generale: «Se briciolo di libertà noi abbiamo o ci rivendichiamo in Italia, è tutto merito della Francia. E a resistere a una sfrenata signoria voi c’insegnaste, e ce ne metteste a nudo i misteri. Un tempo, i nostri padri si aveano per una razza nobilissima, quando Germania e altri preclari regni servivano; ed essi furono strumento all’altrui servaggio. Poichè quelli, scosso il giogo, aggiunsero a libertà, tutto il peso dell’oppressione si scaricò addosso a noi.... A nulla io penso più spesso che al mezzo e modo di metter su il vostro appello ab abusu; il quale anche appresso di voi non parmi di assai antica data. [p. xlvi modifica]Costumavate ne’ primi secoli appellare al futuro Concilio; rischiosissimo rimedio: ma cotesto di cui vi valete ora, è sicuro, pronto e porta al termine che il supremo potere di stabilire la disciplina ecclesiastica risegga nel principe. E come no, se a lui tocca infrenare gli abusi de’ cherici, e segnar le norme a bene usare dell’autorità della Chiesa? Scartate questo principio, e niun civile governo starà; perchè, se ci ha alcuna cosa che alla sovranità del principe si sottragga, quel principe sin d’allora rimansi esautorato di fatto.» Comparando questo testo coll’altro rapportato più sopra della Lettera nonogesima quinta, si vede in che il principio sarpiano differisce dall’Hobbesiano; e inteso nel suo senso limitato, è irrepugnabile. Ben può darsi che il governo abusi alla sua volta della possanza e dell’autorità sua per soverchio di cautela o di esigenza; nè noi il neghiamo. Ma rimedio a questo pericolo non può essere che nella libertà universale e nella potenza dell’opinione. Quando il Clero si restringesse dentro a’ limiti del suo ministero, nessun governo sarebbe oso di opprimerlo, perchè gli darebbe favore la pubblica opinione; rimarrebbe a vincer l’impedimento che nasce dalla malignità e dalla fiacchezza degli uomini: per lo che ha l’aiuto superno. L’ostinazione de’ romanisti però ha meglio amato il servaggio con le insegne dell’impero, che la vera libertà ecclesiastica che il Sarpi voleva.