stumavate ne’ primi secoli appellare al futuro Concilio; rischiosissimo rimedio: ma cotesto di cui vi valete ora, è sicuro, pronto e porta al termine che il supremo potere di stabilire la disciplina ecclesiastica risegga nel principe. E come no, se a lui tocca infrenare gli abusi de’ cherici, e segnar le norme a bene usare dell’autorità della Chiesa? Scartate questo principio, e niun civile governo starà; perchè, se ci ha alcuna cosa che alla sovranità del principe si sottragga, quel principe sin d’allora rimansi esautorato di fatto.» Comparando questo testo coll’altro rapportato più sopra della Lettera nonogesima quinta, si vede in che il principio sarpiano differisce dall’Hobbesiano; e inteso nel suo senso limitato, è irrepugnabile. Ben può darsi che il governo abusi alla sua volta della possanza e dell’autorità sua per soverchio di cautela o di esigenza; nè noi il neghiamo. Ma rimedio a questo pericolo non può essere che nella libertà universale e nella potenza dell’opinione. Quando il Clero si restringesse dentro a’ limiti del suo ministero, nessun governo sarebbe oso di opprimerlo, perchè gli darebbe favore la pubblica opinione; rimarrebbe a vincer l’impedimento che nasce dalla malignità e dalla fiacchezza degli uomini: per lo che ha l’aiuto superno. L’ostinazione de’ romanisti però ha meglio amato il servaggio con le insegne dell’impero, che la vera libertà ecclesiastica che il Sarpi voleva.