Lettere (Sarpi)/Vol. I/Fra Paolo Sarpi/X
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X.
A bene conoscere il Sarpi, fa mestieri leggerne altresì quella vita che ne scrisse Fra Fulgenzio Micanzio, suo amico e discepolo fedelissimo, alla quale possono le Lettere esser chiosa e complemento. Fra Paolo era austero, dato alle pratiche di un rigoroso ascetismo, studioso di conoscere i suoi difetti e rimediarvi, e la sua pietà confortava con l’assidua lezione e meditazione della Bibbia, massime del Nuovo Testamento; perdonatore delle offese, schivo di ogni superstizione, sincero e men cauto di quel che si accorgesse che i tempi richiedevano, e il rancore e l’astio de’ suoi nemici. La sua fiducia era tutta in Dio, e nell’ordine arcano delle sue disposizioni, onde converte in bene il male. La sua religione è ardentissima, senza che il fumo della fantasia l’oscurasse. Il suo tipo morale era la vita di un cenobita osservator delle regole a cui avea promesso i suoi giorni, e la schiettezza e lucidità delle idee il tenea lontano dalla servitù delle passioni. Tutto lo scibile abbracciava la potenza del suo intelletto, e la curiosità sua n’era pari. Il possiamo raffrontare a Leibnizio; tutti e due passano con la stessa facilità da una questione, poni, di giurisprudenza ad una di matematica, e per tutti e due le cose più difficili agli altri son le più chiare. Se la morte è sincera attestazione della vita, la morte di Fra Paolo prova la sua religione; umilmente confortò coll’aiuto de’ sacramenti le sue ore estreme, e si affisò al Crocifisso, e la sua fede in Dio nelle novissime sue parole lampeggiava per l’ultima volta: «Andate a riposare, ed io ritornerò a Dio onde sono venuto.1»
Io dico che pregio principalissimo del Sarpi era la schietta e sincera pietà religiosa in quel tristo seicento, in cui i romanisti, per adorare il papa, dimenticavano Iddio; e il popolo di una pomposa superstizione nodriva la sua fantasia con le immagini venute dal cielo, come la Madonna dell’Impruneta e san Domenico di Soriano, con sacri amuleti, con sontuosissime cerimonie, e feste e canti, buone per sè, ma non sufficienti alla vera e purificatrice religione cristiana, che vuol che il tempio principale sia nel cuore, e il rito principale nel sacrificio nostro conforme a quello di Cristo. I dotti poi erano per lo più parte avveroisti, materialisti, atei; e come i dotti, era la gente che senza professar filosofia avevano coltura e gentilezza. Il Naudè, che visitava l’Italia nella prima metà del secolo XVII, racconta che tutti costoro, e dotti e colti, in Bologna, in Padova ed anco in Roma, ripetevano e professavano la massima formulata dal Cesalpino, ch’ei conobbe di persona: intus ut libet, foris ut moris est; tantochè, non era poi affatto un’impudente menzogna quel che diceva il Vanini del gran numero degli atei anche fra i principi utriusque, vale a dire laici e cherici. Erano i tempi di Beregardo o di Borro, ateo e furfante sfacciato, e protetto da quella famiglia di principi che non aveva osato schermir Galileo. Erano i tempi ne’ quali l’eruditissimo e dabben Casaubono diceva: si atheus essem, Romæ essem. E nota il Naudè una ipocrisia che correva, di difendere l’immortalità dell’anima a fine di mostrare in realtà le obbiezioni. La fama del Pomponaccio, del Cardano e de’ Ciceroniani, era recente e in bocca di tutti. L’inquisizione lasciava in qualche modo passare (ed anche ne’ dialoghi filosofici del Tasso se ne può trovar testimonio), purchè non si toccasse al papa e alla scolastica, e non si ambisse alla popolarità: in que’ casi era inesorabile. Il suo dilemma in realtà, parlando di quel che faceva in Italia, non era o credi o muori, ma o sii ipocrita o muori. Il Sarpi non volle essere ipocrita, e Iddio lo campò dal coltello de’ suoi nemici; e fu cristiano grave, e in certo modo solitario, perchè poca fiducia in Dio trovava anche ne’ suoi amici più cari, che imitavano le arti de’ Gesuiti, anzichè procedere onesti, semplici, dignitosi.
Fra Paolo fece prova di una somma accortezza governativa nel difendere le ragioni di Venezia. Come Machiavelli fu più grande della sua Firenze, così fu il Sarpi della sua città. Codesti ingegni superlativi erano nati per l’Italia e pel mondo. Fra le miserie grandissime della patria nostra impotente, questa è stata, a parer mio, la più acerba: che i suoi grandi uomini non potessero fare che cose di gran lunga minori della potenza del loro ingegno, quando non si appigliavano a servir lo straniero, come il Montecuccoli o il principe Eugenio. Ma Machiavelli fu segretario d’una repubblica che si spegneva, e Sarpi consultore di un’aristocrazia già vizza e debilitata. Ferruccio e Paoli sarebbero stati autori dell’indipendenza di una nazione, ma non potettero salvare due piccioli popoli; Tanucci e Fossombroni furono grandi ministri di piccioli principati. Ma tutti costoro si racconsolavano nella santa memoria della grandezza romana, e forse nella speranza di un italico risorgimento. Certo non senza lagrime io leggo ne’ discorsi su le storie di Tito Livio del buono e infelice Giannone, scritti nella prigione ov’era tenuto dal governo piemontese a petizione di Roma, la sua candida e generosa speranza fondata sul valore dei principi sabaudi e de’ loro popoli, che avesse l’Italia a risorgere; nè sperava meno in que’ tempi un altro italiano della stessa provincia del Sarpi, Scipione Maffei. Giunti a conseguire quello che codesti valenti uomini hanno bramato e sperato, non dimentichiamo le loro fatiche, e veneriamone la memoria. Scrivere una Storia del pensiero italiano da Pier delle Vigne insino all’epoca nostra, sarebbe opera utilissima alla nostra nazione, ed argomento degnissimo di una mente capace. La nostra unità nazionale non è venuta su d’improvviso; e come noi cominciammo l’epoca della civiltà co’ Comuni della Lega Lombarda, così siamo destinati a cominciare un nuovo periodo nell’Europa che si rinnova. La nostra grande conquista è la libertà della Italia e la libertà della Chiesa; la riforma cattolica ideata dal Sarpi è fatta possibile pel trionfo de’ grandi principii su i quali è fondato il Governo costituzionale, la libertà della coscienza, la libertà della stampa, la separazione della Chiesa e dello Stato. La nostra grande conquista è l’abolizione del dominio temporale de’ papi in Italia e nel mondo.
- Perugia, 1 maggio 1863.
Note
- ↑ Lettera del Superiore del Convento de’ Serviti al Doge; pag. 450, volume II.