Lettere (Sarpi)/Vol. I/69

LXIX. — A Giacomo Gillot

../68 ../70 IncludiIntestazione 22 giugno 2016 75% Da definire

LXIX. — A Giacomo Gillot
Vol. I - 68 Vol. I - 70
[p. 233 modifica]

LXIX. — A Giacomo Gillot.1


Se briciolo di libertà noi abbiamo o ci rivendichiamo in Italia, è tutto merito della Francia. E a resistere a una sfrenata signoria voi c’insegnaste, e ce ne metteste a nudo i misteri. Un tempo i nostri padri s’aveano per una razza nobilissima, quando Germania e altri preclari regni servivano; ed essi furono stromento all’altrui servaggio. Poi che quelli, scosso il giogo, aggiunsero a libertà, tutto il peso dell’oppressione si scaricò addosso a noi. E come avremmo noi senza il vostro soccorso osato fiatare contro di ciò che avevano sanzionato i nostri antenati? Ma il Ciel volesse che noi potessimo cavar profitto di tutti i vostri preservativi!

A nulla io penso più spesso, che al mezzo e modo di metter su il vostro appello ab abusu;2 il quale anche appresso di voi non parmi d’assai antica data. Costumavate nei primi secoli appellare al futuro Concilio; rischiosissimo rimedio: ma cotesto di che vi valete ora, è sicuro, pronto, e porta al termine che il supremo potere di stabilire la disciplina ecclesiastica risegga nel principe. E come no, se a lui tocca infrenare gli abusi dei cherici, e segnar le norme a bene usare dell’autorità della Chiesa? Scartate questo principio, e niun civile governo starà; perchè, se ci ha alcuna cosa che alla [p. 234 modifica]sovranità del principe si sottragga, quel principe fin d’allora rimansi esautorato di fatto. Io su questo non ardisco mettere altre parole, eccetto che si può resistere nella pratica all’abusatore dei diritti ecclesiastici. Ma se pretendessi venir fuora con rimedi legali, mostrerei qualche presunzione delle mie forze.

È noto alla molto ragguardevole S.V., come la materia non sempre risponde all’arte; e che tal costumanza per alcuni regni è buona, che in altri fa per lo più mala prova. Dalle nostre ultime disputazioni, Ella già s’accorse che solo col fatto tenemmo fronte al papale interdetto. I padri nostri con buon successo si valsero dell’esperimento d’appello al futuro Concilio contro l’interdetto di Sisto IV; ma esso, rispetto al monitorio di Giulio II, non diè buon frutto. E però, con ragioni di peso e d’evidenza, rifiutammo quel rimedio, siccome inutile affatto. Stemmo in pensiero sulle altre prove da voi adoperate; ma per incarnarle nei fatti, non rinvenimmo modi e vie accomodate. Se mi vien di Francia qualche libro in proposito, avidamente lo leggo, confidando di rintracciare finalmente il bandolo per isviluppare le difficoltà che s’incontrano. Ella è l’uomo che mi bisogna; nessuno potendomi aiutare meglio di Lei, che da gran pezza ha dato opera a tali studi e (ciò che più monta) a tali esercizi. Con ansietà vivissima aspetto la collezione da Lei pubblicata; la scorrerò e considererò con ogni attenzione, ne sia persuasa; e se m’apparirà qualche barlume di pratica fruttuosa, tanto ricorrerò a Lei per consiglio, quanto basti a rendermi fastidioso. Mi sarà pur una volta dolce la morte, se [p. 235 modifica]innanzi varrò a indicare un temperamento legittimo che sia atto a rintuzzare quelle armi brutali.3 Perocchè il procedere solo in via di fatto mena sovente a disordini, i quali soprattutto in istato libero sono pieni di nocumento.

Che i papisti s’adattino a ridursi nelle loro competenze, la S.V. non lo speri. Fra i cupi arcani di tale dominazione, questo hanno per fermo: lo sminuire anco d’un atomo quella infinita e strabocchevole potestà, suonar lo stesso ch’esautorarsi interamente. Creda Ella a me, che son pratico di tali faccende; tanto inconsideratamente battaglieranno, come se pericolassero fede e patria, da sostenere che il papa sta sopra ogni dritto, che è infallibile e che uomo di sorta non può addimandargli: Perchè adoperi a questo modo? E con buono avvedimento, per fermo; poichè, fate che una piccola goccia d’acqua si trafori in quegli argini, e voi gli vedrete tutti in un attimo convertiti in fiumi.4

Questa repubblica di siffatte disposizioni tenendo conto, scosse quel potere; quando non s’era mai inteso fin qui che un interdetto pontificio, con tanta [p. 236 modifica]solennità posto e promulgato, sfumasse, senza bisogno d’altre lettere papali che il revocassero. E mentre il papa avea suscitato sì gran vespaio, perchè non fossero assoggettati due cherici al giudizio secolare, da quel giorno fino al presente meglio di cento dovettero sostenerlo; e (quel ch’è più rilevante) tutto un religioso convitto, i Gesuiti, i quali s’ebbero condanna di esiglio. D’allora in poi, continui i contrasti col papa: e’ non dà mano a censure, perchè n’è spuntata la forza, e più motivi e di conto ora gli si attraversano. Qual termine avrà la quistione del monastero di Vangadizza, non saprei pronosticare; ma si comporrà tra breve, o durerà eterna. Il tenore di essa non parmi sia ben chiaro costì; e a lungaggine porterebbe riferirlo per lettera. Mentre la Repubblica non ha sancito decreti in proposito, Roma s’è messa in gran faccende; e sempre più imbrogliarono la matassa, e come svilupparsene non sanno. Tace il Senato; ma come prima sarà stretto a far provvidenze, terrà fermo; e quel che sia per venirne, a cose fatte apparirà. Ma non vi cada in mente che la Repubblica ceda mai la menoma giurisdizione ai giudici della Ruota. Essi trattarono ivi i dritti dei monarchi; ma qui non è quistione di principe: ben altre sono le pubbliche ragioni, e queste si malleveranno per altri mezzi, se occorrerà.

Ma son davvero il buon uomo a lasciar correre la penna, e non pensare a qual persona io rubi il tempo, forzandola a sciuparlo in legger frasche. Scusi, la prego, questa noia, e perdoni alla mia indiscrezione. Io vo così persuaso della sua benevolenza a mio riguardo, da non poter bramare che si accresca; sì la reputo piena. Sembrami che dalle sue lettere [p. 237 modifica]traspiri un cotal candore e integrità d’animo, da prognosticarmene a tutto potere il godimento, e farmi immaginare che, insieme conversando, ci partecipiamo certi intimi sensi del cuore, che non soglionsi affidare alle lettere. Chè io mi sono di tal umore da pigliar natura, a guisa di camaleonte, dalle persone con cui uso: doppiezze peraltro e accigliature a mala pena sostengo; ma spontaneo accolgo e di buona voglia i modi franchi e gioviali. E porto maschera, ma per forza; poichè senza di quella nessun uomo può vivere in Italia. E mi penso di leggerle addentro nell’animo, e veder come aggirantesi su’ miei occhi la immagine del suo volto; che giurerei essere la verità. Avrei caro che mi dicesse se un tempo siasi ricreata con la lettura di Senofonte e di Platone: compatisca a tanta curiosità. Stia sana, e riami dello stesso affetto chi le vuol bene e la reverisce.

Venezia, 12 maggio 1609.




Note

  1. Edita in latino, le Opere dell’Autore; ediz, cit., pag. 4.
  2. Veggasi la sapienza legislativa di questo frate. Il voto dell’appello ab abusu fu satisfatto per le leggi Leopoldine in Toscana.
  3. Che direbbe il buon Sarpi se vivesse oggi, e contemplasse questa perpetua tortura dei preti che ripugnano di sottoporsi agli arbitrii ed alle tirannie romanesche? Avviso a chi spetterebbe di ripararvi.
  4. Qual verace pittura della corte di Roma ai nostri tempi! Non paiono scritte proprio oggi queste parole? I grandi geni hanno un tal senso divinatorio, che gli differenzia dal volgo dei mediocri e de’ piccoli. Il curioso è che la interrogazione al papa: Cur ita facis? sta anche nel Gersone; come vedrai nelle Nuove e urgenti ragioni per la causa italiana del P. Bobone, recate in volgare dal Sancasciani e venute a luce il 1862, pei tipi di G. Barbèra.