Lettere (Bentivoglio)/Lettere familiari

Lettere familiari

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La nunziatura di Parigi Dai carteggi domestici
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IV

LETTERE FAMILIARI

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A) I

Al signor cardinale di Retz, alla corte.

Nascono al re le vittorie prima nel suo consiglio. Onde ognuno può vedere quanta parte avrá avuta Vostra signoria illustrissima in quella ch’ha riportata Sua Maestá per colmo dell’altre precedenti con l’andata sua in Bearne. Il gentiluomo spedito qua è venuto a trovarmi d’ordine del signor duca di Luines, e m’ha dato pieno ragguaglio di quanto era succeduto sino alla sua partita. Egli m’ha detto fra l’altre cose, ch’aveva veduto Vostra signoria illustrissima in Navarrino, di che io mi son rallegrato molto, poich’ella a questo modo non solo si sará trovata al consultare, ma all’eseguire un fatto cosí importante, com’è l’esser venuta in mano del re una tal piazza. E questa, e l’altre azioni di Sua Maestá cosí pie hanno riempito d’allegrezza Parigi, e la mia propria è in quel grado, che Vostra signoria illustrissima può imaginarsi da se medesima. Sará infinita similmente quella di Sua Beatitudine e vorrei che le mie lettere avessero l’ali per volar a portarle subito le nuove di successi cosí grandi in favor della Chiesa e di Sua Maestá. Col piú vivo dell’animo io me ne rallegro qui ora con Vostra signoria illustrissima, ed aspetterò di sodisfar poi meglio a quest’offizio con la presenza.

E le bacio umilissimamente le mani.

Di Parigi, li 28 d’ottobre 1620.
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II

Al padre Arnulfo giesuita, confessore del re cristianissimo, alla corte.

Il cuor supplisce dove mancano le parole. E cosí leggami Vostra paternitá nel cuore l’allegrezza, ch’io ho sentita dell’accommodamento felice, ch’è succeduto fra il re e la regina sua madre, non avend’io parole che possano esprimerla. Maravigliose cose veramente ha operate la divina providenza in quest’occasione, e la Francia appena le può far credibili a se medesima, che ne vede sí chiare pruove. A Vostra paternitá non resta l’ultimo luogo e del merito e delle lodi d’un successo cosí felice; anzi a lei ne tocca parte tanto maggiore quanto ella piú d’ogni altro ha operato nel piú intimo del re. Ma io scrivo in fretta, e non posso esser piú lungo. Spero che presto ci rivedremo. In tanto prego Dio che secondi le risoluzioni del re altretanto di lá dalla Loyra quanto le ha secondate di qua. Basta questo enigma per ora, e per fine a Vostra paternitá bacio mille volte le mani.

Di Parigi, li 16 d’agosto 1620.

III

Alla regina madre, a Parigi.

Io partii da cotesta real corte onorato di tante grazie da Vostra Maestá che ne riverisco la memoria, non potendo mostrarne in miglior modo la gratitudine, e ciò fra me stesso desiderando almeno che le succedano continove felicitá, giaché non posso con i segni esterni esercitar verso di lei piú degnamente la devota mia servitú. Può ben dunque considerare Vostra Maestá per se medesima quant’io goda di quelle dimostrazioni d’onore, di confidenza e di tenerezza ch’ora ha fatto il re verso di lei, dopo la mutazione ultima della corte, [p. 381 modifica] che sono di quelle appunto ch’io desiderai con tant’affetto al mio tempo in Francia, e che procurai sempre con non minor affetto, com’ella si degnará di ricordarsi, coi miei offízi privati e publici. Io mi rallegro di ciò quanto debbo con Vostra Maestá e con lei mi rallegro insieme del felice ritorno del re a Parigi; dei propri successi ch’ha portato dai suoi viaggi; ma sopra ogni cosa della risoluzione ch’ha presa di voler tutto il governo in man sua da qui inanzi, ch’a questo modo verrá ad esser tutto conseguentemente anche in mano di Vostra Maestá, ch’è una cosa stessa col re. E certo non potrei dire quanto sia ben ricevuta in Roma cosí fatta risoluzione, e quanti vantaggi qui ne risultino a cotesta corona, e lodi alla persona particolare del medesimo re. Ho sentito parimente quel gusto, che Vostra Maestá si può imaginare, della reiterata nominazione al cardinalato ch’è venuta ora dal re in favor di monsignor vescovo di Lusson, prelato di quel merito ch’ognun sa, e del cui avanzamento deve non men godere il nostro sacro collegio in Roma, di quel che ne sia per godere l’ordine ecclesiastico in Francia. Io non ho mancato sin’a quest’ora di far gli offizi che dovevo in tal materia col signor Cardinal Ludovisio nipote di Sua Santitá e li farò nell’istessa forma con Sua Santitá medesima, e non solo per eseguir gli ordini ch’ho avuti dal re sopra di ciò, ma per testificare specialmente in quest’occorrenza e la mia devozione infinita verso Sua Maestá e la stima particolare, ch’io porto al merito di monsignor di Lusson medesimo. Nel resto io mi rimetto a quello, che rappresentará nell’istessa maniera monsignor vescovo d’Air; e supplico insieme Vostra Maestá a degnarsi d’ascoltar benignamente il padre Berulle in quello che in mio nome le sará significato da lui in riguardo delli interessi miei propri, ch’ella per sua somma benignitá ha voluto far suoi con la real sua protezione, ch’alla mia partita ella si degnò di pigliarne. Io prego Dio, che conceda a Vostra Maestá il colmo di tutte le felicitá piú desiderabili, e le bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, li 12 febraro 1622.
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IV

Al signor Cardinal di Savoia, a Turino.

Arrivò ultimamente a Roma il signor commendatore di Sillery per esercitar il suo carico d’ambasciatore ordinario del re cristianissimo in questa corte, e si compiacque di darmi parte subito di quel che Vostra eccellenza aveva tratto in Turino sopra il particolare della mia comprotezione, e poco dopo ancora mi significò che il tutto era stato pienamente approvato da Sua Maestá. Quanto io abbia goduto di questo successo non ho parole che abastanza possano esprimerlo, poiché io non ho desiderato mai cosa piú in questo negozio che di vederlo aggiustato con intiera sodisfazione di Sua Maestá e di Vostra signoria illustrissima e di veder me stesso onorato di un carico, nel quale servendo un re cosí grande, potessi nel medesimo tempo servire un cardinale di sí grand’eminenza com’è Vostra signoria illustrissima, e con la subordinazione del mio carico al suo, mostrar insieme subordinata in tutto il resto a’ suoi commandamenti la mia volontá. Di questi miei sensi potrá far piena fede a Vostra signoria illustrissima il medesimo signor ambasciatore, il quale ha potuto qui molto chiaramente scoprirgli, ed io vengo ora a supplicar lei medesima, che ne voglia far piena pruova, con esercitare la sua autoritá sopra di me a misura della mia devozione infinita verso di lei, ed a misura di quell’ossequio devoto che verso la sua serenissima casa ha professata sempre la mia. E perché dell’offizio ch’io mi veggo obligato a passar con Vostra signoria illustrissima in quest’occasione sarebbe troppo deboioria illustrissima in quest’occasione sarebbe troppo debol segno una semplice lettera, ho voluto perciò inviare questo mio gentiluomo espresso che le renderá la presente mia, ad eseguirlo in forma piú degna con lei in mio nome. Io la supplico a raccoglierlo ed ascoltarlo benignamente, ed a prestargli [p. 383 modifica] quella fede che si degnerebbe di prestar a me stesso. E per fine a Vostra signoria illustrissima bacio umilissimamente le mani, e le prego ogni maggiore e piú desiderata felicitá.

Di Roma, li 15 di giugno 1622.

V

Alla maestá del re cristianissimo, a Parigi.

Il successo ch’ha avuto la conversione alla fede cattolica del signor maresciallo de Dighieres ben ha fatto conoscere nuovamente, che non può ricever in Francia vantaggio alcuno la Chiesa che non lo riceva al medesimo tempo Vostra Maestá: e di ciò non poteva apparir piú chiara pruova di quella che n’ha data ella stessa con l’onore di contestabile conferito subito nella persona del signor marescialle, fatta sicura intieramente Vostra Maestá del suo servizio ora che egli ha professato di voler rendere quello che doveva alla vera Chiesa. Dal signor commendatore di Sillery intenderá la Maestá Vostra con quanto applauso sia stato ricevuto in Roma questo successo. Nondimeno ho stimato che convenisse a me ancora di dargliene questo cenno, ed insieme rallegrarmi altretanto con lei d’un acquisto tale, quanto mi son rallegrato di quello che ne fa per la sua parte la Chiesa. Ma io doveva scrivere particolarmente questa lettera a Vostra Maestá per sodisfar con quei piú ringraziamenti che posso a due miei oblighi verso di lei; l’uno cioè per il suo beneplacito regio in favor della rinunzia che il signor Cardinal Montalto m’ha fatta della sua abbazia di San Valéry in Francia, e l’altro per il luogo della congregazione di questo santo offizio di Roma, che m’ha fatto ora ottenere il signor commendatore sudetto in riguardo del mio carico di comprotettore. Questi sono effetti, Sire, della sua real beneficenza, che tanto piú divien feconda di grazie quanto piú ne comparte verso i suoi servitori; fra i quali io [p. 384 modifica] piu d’ogni altro procurerò qui di meritarle colla mia servitú piena d’ossequio, e di fede verso il suo real servizio. E per fine a Vostra Maestá bacio umilissimamente le mani, e le prego il colmo di tutte le piú desiderate felicitá.

Di Roma, li 15 d’agosto 1622.

VI

Al signor marchese di Castagneda, a Madrid.

Ho servito con particolar gusto Vostra eccellenza e la signora marchesa sua moglie intorno al particolare dell’ingresso nel monasterio delle monache scalze di Madrid, e se n’erano certerati nuovi offizi da me, accioché Sua Beatitudine concedesse tal grazia per quelle piú volte che fosse possibile. E se bene non erano quante io avrei desiderato, con tutto ciò mi pareva che la signora marchesa avrebbe potuto riceverne conveniente sodisfazione, rispetto alle difficoltá che Sua Beatitudine suol fare in simili materie. Ma ora che Vostra eccellenza mi significa non esservi piú bisogno di grazia simile, io non posso far altro che goder in me stesso d’aver procurato di servir la signora marchesa quant’ho potuto, si come farò ancora in ogni altra occasione con pienissimo affetto. Nel resto io debbo ringraziar vivamente Vostra eccellenza della particolar memoria, che di me tuttavia conserva, e dei tempi nostri passati di Fiandra. Io l’assicuro che sempre le ho corrisposto con la memoria del suo gran merito, e con l’istesso desiderio ch’ebbi di servirla in quella corte. Ora che Vostra eccellenza se ne va a quella di Francia tanto diversa in ogni cosa dall’altra, non dubito punto ch’ella non sia per esercitare il suo carico d’ambasciatore con ogni maggior laude; sopra di che non può ella desiderar regole migliori che quelle della sua propria prudenza. Reputo per favore, e non per delitto, come Vostra eccellenza chiama, quel [p. 385 modifica] desiderio che vien mostrato da lei che il suo carico avesse potuto essere in tempo del mio, poiché non per questo debbo io credere ch’ella ugualmente non m’avesse desiderato quell’onore che ne riportai sí benignamente dalla santa memoria di papa Paolo, mio singolare benefattore. Ma non sará meno stimata da me ora quella dimostrazione sí cortese ch’ella mi promette nella corrispondenza delle sue lettere. Intanto prego Vostra eccellenza a disporre di me con ogni libertá in questa corte col favorirmi spesso di qualche suo commandamento, insieme con quelli ancora della signora marchesa. E per fine all’uno e all’altra prego da Dio ogni maggior prosperitá.

Roma, li 30 di gennaro 1627.

VII

Al signor cavalier Testi, a Modona.

Signor cavalier mio. Per raffinar le amicizie sono desiderabili qualche volta le gelosie. Cosí ora sará seguito da quelle poche amarezze ch’avevano fatto senso a Vostra signoria, al marchese mio fratello, ed a me. E qual affetto poteva io desiderar di mio maggior gusto che la lettera da lei scrittami? come poteva da me piú chiaramente conoscersi che fosse piú mio che mai il mio cavalier Testi? cioè altretanto mio quant’io son suo. Lasciamo dunque le giustificazioni da parte. Né io le ricevo da lei, né le aspetti ella da me. Nel resto ho letta la lettera di Vostra signoria com’uno de’ soliti frutti del suo amenissimo ingegno; e fra il serio non poteva scherzar meglio in essa il giocoso. Parlo di quegli amori che le sono imputati, che certo nella forma che da lei mi sono descritti m’hanno fatto rider di cuore. Non so perché monsignor nostro di Campagna abbia cartelleggiato, per cosí dire, con Vostra signoria, poiché veramente io non gli diedi occasione di farlo. Passai [p. 386 modifica] è vero qualche doglianza con lui, ma non giá di cosa perduta, sapend’io che non posso perder l’amore di Vostra signoria sí giustamente acquistato dal mio. Ma egli avrá voluto esser a parte delle querelle per participare ancora della soavitá con la quale noi le avrem terminate. A lui dunque mando la lettera di Vostra signoria, e significherò insieme qual sará stata la mia risposta. Del suo stato di sanitá non ebbi ultimamente quelle nuove ch’avrei voluto. E certo quella non è stanza, e vita per lui. Ma chi sa? forse potrebbe essere, che non tardasse molto ad aprirsi qualche occasione di mutar l’una e l’altra; il santo offizio non permette che si dica di piú. E ben crederá Vostra signoria ch’in questo mio religioso silenzio qui io mi senta far piú forza per tacere, che non vorrei. Torno al principio. Assicurisi Vostra signoria, il mio signor cavaliere, ch’io sono e sarò sempre mai tutto suo. Amo con tenerezza la sua persona ed osservo con ammirazione la sua virtú. E qui per fine a Vostra signoria prego da Dio ogni maggior contentezza.

Di Roma, li 16 di maggio 1628.

VIII

Al signor Cardinal Antonio Barberino
legato di Bologna, di Ferrara e di Romagna.

Che fará Vostra signoria illustrissima di tante legazioni? Legato nel dominio ecclesiastico, legato in Italia, legato fuori d’Italia, legato alla regina d’Ungheria, legato alla pace, legato alla guerra, e finalmente legato a finir le differenze fra il cardinale, e marchese Bentivoglio da una parte, e questi camerali di Roma dall’altra. Quest’era la legazione piú importante e perciò ha avuto il suo fine prima d’ogni altra. Appena arrivò qui il signor Vincenzo Martinozzi con l’ordine di [p. 387 modifica] Vostra signoria illustrissima per monsignor commissario della camera, che subito la guerra fra di noi fu finita. Ma lasciando li scherzi io rendo quelle piú riverenti grazie che posso a Vostra signoria illustrissima della benigna protezione ch’ella s’è degnata di pigliar nuovamente di quest’interesse della mia casa con la venuta qua del sudetto signor Martinozzi. Egli portò seco l’augurio dell’aggiustamento, che doveva seguire del negozio, ed appunto mentr’egli è stato qui s’è poi terminato del tutto. E Nostro Signore medesimo ieri l’altro in concistoro parlandomi con particolar gusto e benignitá di questo successo, si degnò di dirmi che il signor Vincenzo aveva rappresentato a Sua Santitá il piacere che di ciò avrebbe sentito Vostra signoria illustrissima. Con l’umanissimo affetto di lei ha cospirato a pieno quello similmente dell’illustrissimo signor Cardinal Barberino, che si compiacque ieri poi d’inviarmi per il signor conte Girolamo Bentivoglio il chirografo segnato da Nostro Signore. La composizione è di tre mila scudi, e cosí restiamo liberi da tutte le molestie de’ camerali. Vengo ora alle vere legazioni, ed a quelle che sono proporzionate all’eminenza non meno del merito che del grado di Vostra signoria illustrissima. Non goderá ella particolarmente di quest’ultima, che le dará occasione di visitare sí bel sole spagnuolo? Noi qui la passata domenica trattammo a lungo di questa materia nella nostra congregazione del cerimoniale. Vostra signoria illustrissima saprá il tutto distintamente né si può dubitare ch’ella, e con gli ordini prudentissimi di Nostro Signore e col singolar suo giudizio proprio, non sia per condur quest’azione in ogni piú esquisita maniera. Delle sue glorie niuno giá mai piú di me goderá, né della sua grazia niuno sará giá mai piú ambizioso. E per fine a Vostra signoria illustrissima bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, il primo di settembre 1631.
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IX

Al signor Cardinal di Richeliú, a Parigi.

Con somma benignitá si compiacque Vostra Eminenza di scrivermi due lettere l’anno passato, l’una da Parigi sotto li 17 di maggio, e l’altra da Fontanableò sotto li 14 d’ottobre, nelle quali prevenendo il mio desiderio con la sua umanitá mi commandò espressamente, che da allora in qua io m’indrizzassi sempre a lei stessa intorno al particolare della mia pensione. In conformitá di ciò ebbe poi il signor avvocato Picard mio agente una benignissima audienza da lei a parte, ed un’altra in presenza del giá signor marchese d’Effiat soprintendente delle finanze, e con tanta risoluzione Vostra Eminenza diedegli ordini che bisognavano perch’io ricevessi nel l’accennata materia la dovuta sodisfazione, ch’io tenni per certo d’aver ben presto a vederne gli effetti. Ora per eseguire il suo proprio commandamento io m’indrizzo di nuovo a lei stessa, e le do parte che non è seguita mai alcuna effettuazione de’ suoi ordini, e che resta tuttavia questo mio interesse quasi nel medesimo stato d’allora. Con quanta mia mortificazione io mi vegga trattato in questa maniera, Vostra Eminenza medesima può giudicarlo. Io la supplico di nuovo a considerare che son piú di dodici anni ch’io servo il re in questo carico della comprotezione di Francia. Che sempre ho servito Sua Maestá con zelo e devozion singolare. Che da me è stato preferito il riguardo del suo servizio ad ogni altro de’ piú importanti ch’io potessi aver nel mio proprio. Che da molti anni in qua io sostengo non solamente il carico della comprotezione in luogo del signor Cardinal di Savoia, ma tutte l’altre funzioni solite a farsi da cardinali francesi, quando si trovano in questa corte, e che finalmente io solo di tutto il sacro collegio porto l’armi di Francia sulla mia casa, e ne professo la dipendenza. Che sono gravissime le spese che qui [p. 389 modifica] si fanno e quelle particolarmente alle quali m’obbliga l’impiego che qui sostengo per cotesta corona; e che finalmente per impossibilitarmi del tutto a farle si sono aggiunte le miserie d’Italia, e quelle in particolare della peste, dalle quali la mia casa ha ricevuto notabilissimi danni. A queste considerazioni potrei aggiungere molte altre gravissime per far vedere il torto, che mi si fa in non essermi pagata giá da si lungo tempo la mia pensione. Ma confesso che sopra ogni cosa mi sento affliggere in riguardo alla mia riputazione, che in tanti modi può restar offesa con un tal trattamento, e perché di giá io mi ritruovo in termine che per senso d’onore, e per necessitá d’interesse io non posso caminar piú a lungo in questa maniera, io vengo per ultimo offizio a supplicare umilissimamente Vostra Eminenza in questa lettera che voglia degnarsi d’impiegar la sua autoritá per modo che s’eseguiscan senz’altra dilazione le sue promesse. Io so che dalla suprema autoritá di Vostra Eminenza può venir solamente la sodisfazione che m’è dovuta. Al suo mezzo solo perciò con ogni maggior confidenza faccio ricorso, quando ben ella non m’avesse commandato, che lo facessi; e può ella ben credere in conseguenza che dalla sua mano sola io riceverò quell’effetto, ch’io sia per ricevere in cosí giusto mio desiderio. In tanto procurerò di nuovo insino alla primavera seguente di far violenza a me stesso ed alla strettezza de’ miei bisogni in trattenermi qui tuttavia. Nel qual tempo se per mia poca fortuna io non riceverò la sodisfazione, che per tanti rispetti si giustamente dovrei sperare, sin da ora supplico Vostra Eminenza d’impetrarmi perdono dal re, s’io mi vederò astretto a levarmi da questa corte, ed a ridurmi alla mia casa privatamente a Ferrara; e spero che non sará difficile l’impetrarmelo poiché in tal caso ognuno potrá conoscere ch’io non avrò abbandonato il suo real servizio per propria elezione, ma per mera necessitá. Confido nondimeno che Vostra Eminenza, la quale con le sue eroiche operazioni ha posta la Francia in grado tanto sublime di gloria, vorrá farla risplendere ancora in questo teatro di Roma, sicché i servitori del re s’abbino da vedere [p. 390 modifica] piú tosto bene che mal trattati; e coi buoni trattamenti s’abbia a farne acquisto de’ nuovi e non perdere i vecchi. Se ben ciò non seguirá mai nella mia persona, perché in qualsivoglia tempo e stato nel quale sia per trovarmi, conserverò sempre l’immutabile mia devozione verso il re e la real sua corona. La medesima costanza manterrò ancora in riverire sempre Vostra Eminenza, in ammirar l’infinito suo merito ed in udire gli applausi del singolar suo valore, del che io la supplico a restar persuasa, non desiderand’io cosa piú che goder l’onore della sua grazia, e meritare i frutti che mi posson venire dalla benignissima sua protezione. Sopra il contenuto di questa lettera io ho discorso a lungo qui col signor conte di Brasac, e pregatolo insieme con occasione del suo ritorno a voler compiacersi d’esserne egli il presentatore, e riferire a Vostra Eminenza quel piú che gli ho communicato sopra di ciò. Spero ch’ella si degnará ascoltarlo benignamente e di gradir quegli ossequi per nome mio nella sua persona, che non le possono esser resi, come vorrei, dalla mia. E per fine a Vostra Eminenza bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, li 3 di novembre 1632.

X

Al signor Cardinal de’ Medici, a Fiorenza.

Posso affermare a Vostra Eminenza con veritá ch’io non poteva sentir mortificazion maggiore di quella, ch’ho provata nelle durezze della signora donna Costanza sopra il particolare del matrimonio. Dal Guerini sará dato a Vostra Eminenza pieno ragguaglio di quanto è seguito nella materia. Bene assicuro Vostra Eminenza che da me e dal marchese mio fratello e da ogni altro della mia casa, si mostrerá sempre verso il signor marchese Roberto Capponi quel medesimo desiderio [p. 391 modifica] affettuoso di servire in ogni tempo alla sua ed alla propria persona di lui specialmente, che noi tutti avressimo fatto apparire, se il matrimonio si fosse concluso. Nel resto per quel che tocca alla devotissima servitú di noi verso di Vostra Eminenza, può ella credere, ch’avendola noi portata dal nascimento, la conservaremo nel piú vivo grado di riverenza sino all’ultimo spirito. Ed io qui per fine le bacio umilissimamente le mani, e da Dio le prego ogni maggior grandezza e prosperitá.

Di Roma, li 19 di maggio 1634.

XI

Al medesimo, a Fiorenza.

Non mi parrebbe di sentir gusto intiero della venuta a Roma di Vostra Eminenza se non lo scoprissi anticipatamente a lei stessa con questa lettera. Io la supplico dunque a credere che niuno piú di me ha goduto di questa nuova, e che niuno mi passerá nel desiderio ch’avrò di testificarle qui di presenza la singoiar mia devozione verso di lei. Ho stimato con tale occasione di dover passar anche un altro offizio con Vostra Eminenza, ed è il supplicarla che s’ella stimasse d’aver maggior gusto e commoditá in questa mia abitazione, che nell’altre qui della sua serenissima casa, ella voglia disporne con ogni maggior libertá, potendo Vostra Eminenza restar sicura che questa per me sarebbe la maggior grazia che da lei potessi ricevere. Con ogni maggior sinceritá e devozione d’affetto passo quest’offizio con Vostra Eminenza. E per fine le bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, li 21 d’ottobre 1635.
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XII

Al granduca di Toscana, a Fiorenza.

Vostra Altezza che sa l’infinito mio desiderio, ed obligo di servire alla sua serenissima casa e persona, potrá considerare facilmente da se medesima quant’io goda che il signor Cardinal de Medici ora sia per venire a Roma. Ho voluto nondimeno significare io medesimo a Vostra Altezza questo mio senso, e renderla certa che niuno qui piú di me servirá con maggior devozione il signor cardinale, né piú ambirá di ricevere ed eseguire in qualsivoglia maniera l’onore de’ suoi commandamenti. Appresso a quest’offizio prendo ardire di passarne un altro con Vostra Altezza stimulato pure dalla mia singolare devozione verso di lei e del signor cardinale, ed è l’offerire con sincerissimo affetto questa mia abitazione per servizio di Sua Eminenza quando fosse per averne maggior gusto e commoditá che nell’altre ch’ha qui in Roma cotesta serenissima casa. Assicuro Vostra Altezza che per me questa sarebbe una delle maggiori grazie ed onori che potessi ricevere. E per fine le bacio affettuosissimamente le mani.

Di Roma, li 21 d’ottobre 1635.

XIII

Al signor doge di Venezia.

Con eccesso di tanta benignitá si compiacque la serenissima republica di condurre al suo servizio il marchese Cornelio mio nipote questi anni addietro, che non mi è giunto nuovo ora l’eccesso pure di tanto onore, che Vostra Serenitá s’è degnata di fare a lui ed alla mia casa nell’averlo poi ricondotto. Come la prima volta io resi quelle affettuose grazie che [p. 393 modifica] doveva alla Serenitá vostra della risoluzion presa allora, cosí vengo a passar il medesimo offizio con ogni piú viva e piú devota espressione d’animo per questo presente successo. E perché le grazie giá ricevute da Vostra Serenitá si benignamente, mi danno speranza ch’io sia per riceverne delle nuove, io ardisco supplicarla che si degni di conceder licenza al detto mio nipote di poter dare una scorsa a Roma per uno o due mesi, affinché dovendo io medesimo trattar con lui d’alcuni affari domestici de’ piú importanti che possano occorrere per servizio commune della mia casa, e suo proprio, egli possa trovarsi qui meco a pigliar quelle risoluzioni che sopra di ciò saranno piú convenienti. Riceverei pur’anche a singoiar grazia ch’egli potesse restar abilitato a fermarsi ordinariamente coi suoi a casa, con quella licenza però che gliene dovesse conceder prima l’eccellentissimo generale, e per trasferirsi poi secondo l’occorrenze dove lo chiamasse la necessitá del servizio. Da questo mio termine sí devoto di confidenza, che mi fa ricorrere a supplicare Vostra Serenitá di nuovi favori, potrá ella comprendere quanto sia affettuoso all’incontro il mio desiderio di servire la serenissima republica, e quanto avidamente io sia per incontrare sempre mai le occasioni. Sanno gli ambasciatori che sono stati in Fiandra ed in Francia al tempo di quelle mie nunziature con qual prontezza io abbia procurato servirli, e della continova mia devozione verso Vostra Serenitá ho dato medesimamente ogni segno possibile a’ suoi ministri publici in questa corte. All’obligo che di ciò porto dal nascimento, come io sempre sin’ora ho accompagnata la volontá, cosí l’accompagnerò in ogni tempo ancora nell’avvenire, e supplicando Vostra Serenitá a volere coi suoi commandamenti farne piú espressa pruova qui per fine da Dio le prego il colmo di tutte le felicitá piú desiderabili, e le bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, li 30 di gennaio 1637.
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XIV

Alla signora Vittoria Bentivoglio.

Riconosco nella lettera di Vostra signoria i soliti concetti della signora donna Costanza e del signor Girolamo, e parmi, per dire il vero, che non vi si scorga altro del suo, che l’esser di sua mano. Posso assicurar Vostra signoria con ogni maggior sinceritá che l’affetto particolare da me prestato alla signora donna Matilda, e la stima che fo del suo merito m’hanno indotto a secondare i suoi sensi e quelli di mio fratello in questa materia di matrimonio, perché per altro avrei goduto di veder libero Cornelio, e padrone di se medesimo, e s’ingannarebbe d’assai Vostra signoria s’ella credesse, per quello che tocca alla persona di lei, che il rispetto della sua dote mi facesse desiderare il fine di questo negozio. L’essere Vostra signoria del nostro sangue, dotata di sí rare virtú, ed allevata sotto una Signora di tanto esempio, sono stati i rispetti veri che m’hanno mosso a desiderarlo. Nel resto questa è una pratica della signora donna Matilda, di mio fratello e de’ suoi figlioli; onde lascio ch’essi principalmente si sodisfaccino, trattandosi del loro interesse. E per quello che tocca alla mia propria persona, assicuro Vostra signoria, che con tenerezza di padre, con affetto di zio, e con rispetto di servitore considererò sempre, ed abbraccierò tutte le cose sue. Pregola a restar persuasa di ciò pienamente e le bacio di cuore le mani.

Di casa, 23 di marzo 1637.

XV

Al signor duca di Modona, a Modona.

Stimarei di commettere un grand’errore, se col ritorno a Modona del signor commendator Testi io non rinovassi in memoria a Vostra Altezza la singolar mia osservanza verso di [p. 395 modifica] lei, e l’infinito desiderio ch’ho di servire alla sua serenissima casa. Nelle frequenti occasioni ch’abbiamo avute di trattare qui insieme il detto signor commendatore ed io, egli avrá potuto scoprire in me pienamente tutto quello che riferisco di sopra. Onde l’ho pregato a farne ancora una pienissima fede all’Altezza vostra, e supplicarla in nome mio ch’ella voglia favorir me all’incontro della sua grazia, ed onorare tutta la casa mia insieme della solita sua benignissima protezione. Ed assicurando Vostra Altezza ch’io non bramerò cosa piú in questa corte, che di ricevere ed eseguire i suoi desideratissimi commandamenti le bacio umilissimamente le mani.

Di Roma, li 17 d’ottobre 1637.

XVI

A monsignor Cornaro cherico di camera, che fu poi creato cardinale da papa Urbano VIII. — A Roma.

Cosi è, lo confesso. A me toccava di rispondere a Vostra signoria illustrissima, e l’avrei fatto non meno per sodisfare al gusto che al debito: ma prima fui impedito da certo male di fegato, e l’occupazioni poi m’hanno tirato sí oltre ch’io mi veggo ora prevenuto di nuovo da quest’ultima sua cortesissima lettera. Se posson valere queste ragioni io resterò scusato a bastanza; e se non gioveranno mi confesserò vinto da Vostra signoria illustrissima, vinto, ciò è, in queste dimostrazioni esterne d’amore; ché nell’affetto interno ben sa ella che non può aver vittoria alcuna sopra di me. Per godere il fresco e finire di confirmarmi nella pristina sanitá, io mi truovo apunto ora in villa. Venni cinque di sono a Noesi, casa di campagna del signor Cardinal di Retz, lontana da Parigi quattro leghe picciole di camino. La stagione ora non può essere invero piú dilettevole per villeggiare; né la villa dove mi truovo piú deliziosa per goder la stagione. È fabricata questa casa [p. 396 modifica] in un sito eminente, ha giardini ha boschi ha pianure e colline; e questa sorte di scena non può esser piú bella perché non può esser piú varia, offerendosi agli occhi ora tutte queste cose insieme ed ora ciascuna a parte con tal diletto che la vista medesima alle volte resta confusa non sapendo in qual modo piú dilettarsi. A tante vaghezze ne manca una sola, ch’è l’acqua. Se questo luogo avesse fontane sarebbe forse il piú delizioso di Francia, e potrebbe quasi superar San Germano, casa del re ch’è qui appresso una lega. Ho veduto anche San Germano con quest’occasione. Il sito è in collina, e veramente non può esser piú bello. Ha particolarmente di regio alcune discese grandissime di scale balaustrate, ch’in doppio ordine maestosamente spiccandosi dal palazzo calan giú per lunghissimo tratto sin quasi al par della Senna, la quale ivi sotto nel piano con lenta fuga va poi dolcemente serpendo e con molti giri il suo corso dolcemente ancora incontrando. Non si possono imaginare insomma paesi piú ameni di questi. Né qui sono le colline, come da noi, erte scoscese ed orride in molte parti, e se pur vestite, vestite d’un verde squalido e semivivo. Ma queste verdeggianti colline di Francia ritenendo quel color vivo di primavera tutto il tempo che stanno verdi, s’alzano soavemente, ed hanno tramezzate campagne immense ch’ondeggian con la medesima soavitá; onde le viste son tali che molte volte l’occhio non le può seguitare, e l’una riesce piú vaga e piú desiderabil sempre dell’altra. In questo luogo del signor Cardinal di Retz io mi son trattenuto sei giorni. Avrei voluto fermarmici un poco piú, ma è giunto l’ordinario di Roma che mi richiama dimani a Parigi per cacciarmi forse nuovamente di lá e farmi trasferire alla corte a Monseò, luogo pur’anche bellissimo per la qualitá del sito de’ giardini e degli edifizi. Da Monseò, tornata che sia la corte a Parigi, potrebbe forse andar poi il re a Fontanableò, casa la maggiore ch’abbiano i re di Francia in campagna, ma senza vista perché è situata in un grandissimo bosco tutto piano e tutto popolato da un numero infinito di cervi, ch’è la caccia piú familiare de’ re. Questi tre luoghi di campagna, ciò è, Fontanableò [p. 397 modifica] San Germano e Monseò, sono i piú vicini a Parigi e dove la corte piú si trattiene; la qual subito gli converte in cittá, si grande è il numero della gente che d’ordinario seguita il re, e tanta quella che per occasioni straordinarie in ogni tempo e da ogni parte si tira dietro la corte. Io ne sono stato pur fuori questi sei giorni, e particolarmente fuor di Parigi, che col suo strepito vasto di tanto popolo e di tante carrozze e carrette qualche volta m’aggira gli occhi e mi stordisce l’orecchie. Mentre io godo questo riposo e questo silenzio, eccomi a rispondere alla lettera di Vostra signoria illustrissima, eccomi tutto con lei; e ben son tutto con lei, poiché le ho fatta parte cosí minuta di questa villa e di me medesimo in questo tempo che l’ho abitata. E ciò basti per ora di me e di cose private. Quanto alle publiche nostre d’Italia, veggo quel che Vostra signoria illustrissima ne scrive e quel che ne teme. Io nondimeno resto nelle mie speranze di prima, e confido che dopo un sí buon aggiustamento nelle cose di terra sia per cessare ancora ogni novitá in quelle di mare. Il che piaccia a Dio di far succedere quanto prima, e che la nostra Italia impari dalle miserie di questa guerra a goder tanto piú da qui inanzi le felicitá della pace. Noi qui ora viviamo in altissima quiete, ma quiete però di Francia, che non suole aver altro di certo che l’incertezza. Come il mare quando è piú tranquillo non è però men profondo né meno esposto al furore delle tempeste, cosí la Francia quando piú promette tranquillitá allora convien meno fidarsi di quel che promette. Ma intanto goderemo la presente bonaccia, e lasceremo alla divina providenza gli accidenti futuri. Gran perdita abbiamo fatta qui ora con la morte del signor Cardinal di Perrona! Era l’Agostino di Francia; era uno de’ maggiori ornamenti del nostro secolo; sapeva tutte le cose, e chi l’udiva in una scienza avrebbe stimato che non avesse fatto mai altro studio che in quella sola. Torno alla lettera di Vostra signoria illustrissima prima di finir questa mia. Veggo gli auguri ch’ella mi fa con l’andata di monsignor d’Amelia in Ispagna, e riconosco la solita sua parziale volontá verso le cose mie, che tanto fa lei ecceder nel desiderio [p. 398 modifica] quant’io manco dalla mia parte nel merito. Io prego Dio ch’a quelle di Vostra signoria illustrissima conceda in breve ogni piú felice successo, e per proprio suo gusto e perché la sua nobilissima casa, seminario di porpore, possa ben presto goder questa ancora nella persona di lei che si pienamente n’è meritevole. E per fine le bacio con ogni piú vivo affetto le mani.

Di Noesi, li 22 di settembre 1618.

XVII

Al signor Paolo Gualdo arciprete di Padova.

Seppi la partita del signor Giovan Battista nipote di Vostra signoria inanzi alla risoluzion del partire. Confesso che il pensier non mi piacque. Esser fuggito di Francia prima che vi fosse, si può dir, giunto? E forse che non meritan le cose di questo regno e di questa corte d’essere osservate con particolare attenzione? Che il peregrinare in paesi esterni per non impararvi altro che a saper riferire, tornando a casa, le riviere le campagne le selve i monti le piazze delle cittá il numero ed il vestito degli abitanti, ciò non è altro che un pigliar cognizione di cose mute e inanimate, e che pascon piú gli occhi che l’animo. Chi va fuori del suo paese a veder il mondo, voglio che m’osservi principalmente i costumi delle nazioni forestiere, le nature de’ re, le qualitá de’ loro consigli, le forze loro, le leggi de’ regni, lo stato della religione; come sia mista l’autoritá del comandare con la forma dell’ubbidire; come si stia coi vicini; qual sia l’umor peccante in ciascun governo, e qual sarebbe il rimedio se vi potesse aver luogo la medicina. Tali e si fatte cose concernenti il governo vorrei che m’osservassero e mi possedessero ben le persone che girano il mondo. Come l’anima a noi dá l’essere, cosí il governo dá l’essere a’ regni. Onde a questa parte bisogna applicar l’attenzione, e questa procurar di sapere. Tutto il resto ha del [p. 399 modifica] materiale, come in noi pure non hanno moto le membra se non in quanto l’anima le fa muovere. Ma il governo de’ regni non può esser compreso in un giorno o due. Vi bisogna studio, e lo studio vuol tempo. E se tutte queste cose si ricercano in alcuna parte, si ricercano in Francia, ch’è uno stato sí grande, sí diviso in materia di religione, sí spesso agitato dalle discordie civili, ch’ha una delle maggiori corti d’Europa ed uno de’ piú riguardevoli governi del mondo, con tant’altre sue proprietá degne d’esser considerate che gli anni non basterebbono per venirne in quella cognizione che converrebbe. Ma sopra tutte l’altresue qualitá proprie, quella delle continove mutazioni che vi si veggono, è unica e singolare. E se per farsi atto a’ maneggi publici niuna cosa può giovar piú che il veder molti publici avvenimenti, cedano pur tutti gli altri paesi alla Francia, perché la Francia in questa parte può servir di scuola a tutti gli altri paesi. Qui dunque bisognava che il signor Giovan Battista si trattenesse almen tutto il tempo che durerá l’ambasciaria del signor Contarmi. Vostra signoria di giá vede che memorabil caso egli avrebbe potuto osservar nel principio del suo arrivo a Parigi, in quest’uscita sí inopinata di Blois della regina madre che genera qui una commozione si grave. Quanto vorrei poter essere col nostro signor Bono! per discorrere cosí ora con lui di questo successo tanto improviso, come giá due anni sono trattavano dell’altro si inaspettato, allora che pur la regina si ritirò da Parigi. Grand’accidente senza dubbio gli parerá questo. Grande per se medesimo, e maggiore per le publiche conseguenze. E di giá qui noi siamo all’armi ed alla vigilia di strani casi, se Dio non ha compassion della Francia.

Ma lascio la Francia e vengo alla lettera di Vostra signoria, che m’è stata resa sí tardi ch’è una vergogna. E pur s’io desidero l’ali ad alcune lettere, le desidero particolarmente a quelle di lei; tanto m’è caro ogni nuovo testimonio dell’amor suo, e tanto gusto m’apporta ogni nuova commemorazione delle cose di Padova. Quanto al Tedeschi, ben mi pareva di poter credere ch’egli non avrebbe avuto cuore di venir qua. Ma né [p. 400 modifica] anche si degna piú di scrivermi non che di poetare in mia lode. M’ha tutto rallegrato Vostra signoria con la menzione del nostro monsignor di Feltre. È un secolo ormai che il crudel non mi scrive. Bella scusa di quel sito boreale, per non far la residenza di verno! Io l’ho fatta nove anni in Fiandra e non mi vi sono agghiacciato. Che s’io torno mai in Italia, aspetti egli pure. Ma sospendo le minaccie per ora. Al signor Bono mille baciamani affettuosissimi, e mille rinovazioni d’invidia di cotesta sua si dolce quiete di Padova; ch’a me vien fatta parere ogni di piú dolce, e dalla privazione per se medesima e dalla contrarietá di questa mia sí strepitosa vita di Francia. Ed a Vostra signoria prego ogni maggior contentezza.

Di Parigi, li 20 di marzo 1619.

XVIII

Al signor cavalier Marini, a Parigi.

Perché non vidi Vostra signoria, il mio signor cavaliere, al mio partir da Fontanableò! che senz’altro v’avrei o condotto meco o rapito. Se ben credo che il vostro venire sarebbe stato effetto di volontá e non di forza, stimand’io che sareste venuto volentieri a veder Fontanableò, che tiene il primo luogo fra le case reali ch’hanno i re di Francia in campagna. Ma se non ho potuto goder la vostra conversazione, ho goduto almen quella de’ vostri versi nell’armonia della vostra dolce sampogna. Per istrada questo è stato il mio gusto; ed ora che sto fermo questa è la maggior ricreazione ch’io abbia. O che vena! o che puritá! o che pellegrini concetti! Ma di tant’altri vostri componimenti che sono di giá o finiti o in termine di finirsi che risoluzion piglierete? Gran torto invero fareste alla gloria di voi medesimo, alla liberalitá d’un re cosí grande, alla Francia ed all’Italia cospiranti in un voto stesso o piú tosto emule nella partecipazione de’ vostri applausi, se ne differiste piú [p. 401 modifica] lungamente la stampa. Sopra tutto ricordatevi, il mio cavaliere, di grazia (come tante volte v’ho detto) di purgar l’Adone dalle lascivie in maniera ch’egli non abbia da temere la sferza delle nostre censure d’Italia, e da morir piú infelicemente al fine la seconda volta con queste ferite che non fece la prima con quelle altre che favolosamente da voi saranno cantate. Confido però che non vorrete essere omicida voi stesso de’ vostri parti. Fra tanto goderemo il suono di questa soave sampogna. In fronte della quale, perché avete voluto voi porre quella lunga lettera, o piú tosto apologia, all’Achillini ed al Preti? Troppo avete abbassata la vostra virtú, e troppo onorato il livore de’ vostri malevoli. All’invidia il maggior castigo è il disprezzo, e mai saetta non ferí il cielo. Chi è giunto alla vostra eminenza non deve far caso alcuno di quattro o sei ombre vane, che non concorrono a’ comuni applausi di tutto il teatro. Chi mi troverete voi di grand’uomini antichi o moderni, in qualsivoglia professione, ch’in sua vita non abbia avuto degli emuli? E fra i poeti, lasciando i piú antichi e parlando de’ piú moderni che noi medesimi abbiam conosciuti, il Tasso ed il Guarini non hanno provato anch’essi i denti della malignitá e dell’invidia? E nondimeno, chi si ricorda piú dell’opposizioni fatte a’ loro poemi o chi non se ne ride? Vivono ora che sono morti; e cosí è succeduto agli altri grand’uomini in lettere o in arme, e in ogni altra professione e scienza. La posteritá insomma è quella che dá la vita e la morte agli ingegni; di lá ne vien la vera sentenza e da quel tribunale incorrotto ed incorruttibile bisogna aspettarla. E tanto basti in questa materia. A bocca il resto. Se ben io penso di fermarmi qui in Melun tutta la settimana presente, per godere un poco piú questa buon’aria e questo bel sito. A Fontanableò son di giá stato una volta, e dimani vi tornerò. Gran casa invero e degna d’un tanto re! Benché sono piú case insieme, aggiunte l’una all’altra in vari tempi senza ordine alcuno; onde di tutte viene a formarsi una vasta mole indigesta e confusa; ma questa medesima confusione è piena di grandezza e di maestá. Il sito è basso ed ha piú tosto dell’orrido, massime in questo [p. 402 modifica] tempo che la campagna non è ancora verde. Giace in mezzo d’un’ampia foresta, e s’alzano intorno alla casa varie colline coperte di sassi, che sí come non rendono frutto alcuno alla terra cosí non porgono diletto alcuno alla vista. La foresta è piena di cervi, e perché questa è la caccia che piú frequentano i re di Francia perciò vien nobilitato questo sito, poco nobile per se stesso, da sí vasta abitazione e sí maestosa. Non vi mancan però giardini bellissimi; ed oltre alla prima fontana che diede il nome alla casa, ve ne sono molte altre che rabbelliscono grandemente. Ma perché non date una scorsa qua voi medesimo? Giungerete anche a tempo di veder piú d’una volta Fontanableò prima ch’io torni a Parigi. Intanto da questa mia lunga lettera, e scritta in convalescenza, Vostra signoria vedrá il piacere ch’io ho preso in participar della sua conversazion di lontano, giá che non ho potuto d’appresso. E per fine le prego ogni bene e contento.

Di Melun, li 7 d’aprile 1620.

XIX

Al signor Muzio Ricerio segretario del sacro collegio, a Roma.

A Dio, Muzio, a Dio. Ma questo è un a Dio di ritorno a casa, e non di partita. Ed eccomi apunto di ritorno in Italia, giunto a Turino e uscito di giá, col divino aiuto, fuori dell’Alpi felicemente. Questa è la quarta volta che le ho passate, e ciascuna volta in ciascuna delle stagioni dell’anno; la prima di state per la via degli svizzeri andando alla nunziatura di Fiandra; la seconda d’inverno per la Germania, tornando da quei paesi; la terza d’autunno per la Savoia; e la quarta di primavera pur’anche per la Savoia, ora che ritorno cardinale da quelle parti. Da Lione in qua spezialmente cominciai a godere la primavera, la quale m’ha poi sempre accompagnato per l’Alpi, e con cielo e strade apunto di primavera; dal [p. 403 modifica] Monsenese infuori ch’ho trovato coperto di neve e con chioma tutta ancora d’inverno, come apunto conveniva al padre dell’alpina famiglia. Ma ben possono bastar queste quattro volte, e certo son sazio d’Alpi e stracco di viaggi in maniera che non è possibil di piú. La mia partita di Parigi fu sí inaspettata come inaspettato fu il caso che la produsse; ciò è, la morte improvisa di papa Paolo di santa memoria. E sí breve intervallo è corso dal tempo della mia promozione a quello della sua morte, e poi dal caso della sua morte alla necessitá della mia partita; e mi sono trovato in tante agitazioni di corpo e d’animo nella congiuntura di questi accidenti, che tuttavia ne rimango stordito e non so dir bene ancora s’io mi sia in Italia o in Francia, cardinale o nunzio, con papa Paolo vivente o col nuovo pontefice Gregorio che gli è succeduto. Seppi la sua creazione di qua da Parigi alcune giornate; e non si poteva certo far la migliore; e ben l’ha mostrato il cospirante consenso del sacro collegio e Tessersi quasi ad un tempo chiuso ed aperto il conclave. Onde voi avrete avuto poco da maneggiarvi nel vostro offizio, e poco da stare imprigionato in sí nobil carcere. Ma ritorno a me stesso ed al mio viaggio. Sino a Lione io venni in lettica, e per l’Alpi mi son fatto condurre parte in lettica e parte in sedia su le spalle incallite di quelle camozze umane chiamate maroni. Dalla corte di Roma partii con tutte quelle dimostrazioni d’onore e di stima che piú si potevan desiderare. Qui in Turino ho ricevuto parimente ogni piú onorevole e benigna accoglienza da questi prencipi serenissimi. Poco prima di me è partito di qua il signor Cardinal di Surdis, che se ne viene a Roma. Anch’io partirò fra due giorni, piacendo a Dio, e con la maggiore impazienza del mondo di poter giungere quanto prima alla corte. Intanto eccovi per pegno di memoria e d’affetto questa lettera che mi precorre. Voi all’incontro montate alla piú alta cima della mia casa di Montecavallo, e con uno di quegli occhiali di vista lincea spiate il mio arrivo, e venite subito ad incontrarmi. Ebbi la vostra lettera che m’annunziava la prossima futura mia promozione, ma non ho avuto poi l’altra in [p. 404 modifica] congratulazion dell’effetto. Sará forse giunta a Parigi dopo la mia partita. Ebbi similmente quella relazione intorno alle cose avvenute di fresco in Polonia. Ma, e di questa e di mille altre materie, a bocca. Ora ben posso dir, Muzio mio. Né voi me lo potete negare, essendo segretario del sacro collegio del quale sono ora anch’io fatto membro. Se ben non mi sodisfo di quel mio solamente comune agli altri. Voglio da voi un mio, tutto mio. E voi al fine me lo dovrete, perché io sarò tutto vostro. E per fine vi prego ogni maggior contentezza.

Di Turino, li 20 di marzo 1621.

XX

Al duca di Monteleone, a Madrid.

1.

Prima d’ogni altra cosa, per amor di Dio, Vostra eccellenza mi lasci doler del caldo. O che caldo crudele! o che caldo di fuoco! Un caldo insomma che ha trasportato il cielo di Spagna in Francia, e Siviglia a Turs. E veramente io compatisco Vostra eccellenza, se costi a proporzione ha fatto il caldo che qui. E questo nostro par tanto piú insoportabile quanto avevamo avuta prima l’estate solo di nome, perché i giorni erano riusciti quasi tutti di primavera, ed il luglio propriamente un aprile. Ma quest’agosto è una fiamma. Non si dorme la notte, non si riposa il giorno, e della notte bisogna far giorno, come s’usa costí. Ed a punto ieri l’altro il grande scudiere venne a trovarmi qui all’abbazia di Marmotier, dov’io alloggio, ch’era sul far della notte, e il duca di Guisa ier mattina, ch’era sul principio quasi del giorno. Passerá questa furia al fine; ché ben sa Vostra eccellenza quanto le passioni qua, eziandio degli elementi medesimi, [p. 405 modifica] son fuggitive. Abastanza mi son doluto del caldo. Trattiamo ora d’altre materie. Io mi trovo al presente in Turs per occasion della corte. E quanto alle cose publiche, tutto qui si riduce al negozio della regina madre. Ma potiamo sperare che pur finalmente lo vedremo presto finito, e con quella perfezione che tutti i buoni hanno desiderato. Di giá la regina si risolve di venire a trovare il re dirittamente qua a Turs. Operò molto invero per la riconciliazione intiera l’andata del signor prencipe di Piemonte ad Angolemme. Il duca di Mombasone v’è poi stato inviato dal re due volte, ch’ha fatto vedere anche piú al vivo la sincera intenzione del signor di Luines suo genero, alla regina; onde Sua Maestá in fine s’è risoluta di dar bando a’ sospetti e di venire a trovare il re. Secondo le passioni, tali sono stati i consigli. Ed anche il dí d’oggi non mancan molti che la consigliano a non fidarsi. Io confesso che sono stato di quelli che piú hanno procurato di persuadere Sua Maestá a venire, e per mezzo del nostro buon padre Gioseppe cappuccino, ch’andò alcuni di sono anch’egli ad Angolemme, io le scrissi e feci dir liberamente che non doveva né temer piú né tardar piú, e ch’io aveva grand’occasione d’assicurare la Maestá sua che le cose non potevano esser meglio disposte da questa parte. Ho avuta poi una sua lettera benignissima, ch’aggradisce il mio consiglio e la libertá da me usata. E veramente non si poteva veder piú chiaro di quel ch’ho veduto io nel cuore del re e del signor di Luines. L’attendiamo qua dunque in breve. E si vorrebbe, se fosse possibile, che il suo primo congresso col re seguisse nel giorno di san Luigi per render tanto piú celebre questo giorno, ch’è per se stesso sí celebre in Francia. Da questa riunione si può sperar senza dubbio un gran bene, sí come dal contrario si poteva temere un gran male, ed ora specialmente nella congiuntura dell’assemblea ch’hanno a far gli Ugonotti questo mese che viene; a’ disegni perversi de’ quali niuna cosa poteva star meglio che la continovazione della discordia nella casa reale. A questo termine son le cose della regina. Memorabile dunque sará ora Turs per la sua [p. 406 modifica] venuta qua in tale occasione, com’è Blois per la sua fuga da quel luogo a’ mesi passati. Nel trasferirmi alla corte io vidi in Blois la fenestra per dove ella scese di mezzanotte, e vidi il resto di quel castello che par riservato agli accidenti piú tragici della Francia, ed in particolare mi feci condurre alle camere dell’appartamento regio dove fu ammazzato il duca di Guisa agli stati generali d’Enrico terzo. — Di qua entrò — mi dicevano —; qui ebbe il primo colpo; qui sfodrò mezza la spada; qui lo finirono, e qua in disparte stava nascosto il re stesso a vederlo morire. — Piú grande fu anche l’orrore che mi cagionò il luogo dove il dí appresso fu crudelmente ammazzato, a colpi d’alabarde, il Cardinal suo fratello. Vidi la camera dove fu imprigionato al medesimo tempo il Cardinal di Borbone, e vidi quella finalmente dove poi otto giorni appresso morí di dolore la regina Caterina, accorata da successi cosí funesti, e dalle conseguenze anche piú funeste ch’ella ne predisse al morire; e considerai con grand’attenzione quelle animate muraglie, che spirano al vivo le miserie delle corone in mezzo alle apparenti loro adorate felicitá. Ma torniamo a Turs ed a questo delizioso paese. Questa veramente si potrebbe chiamar l’Arcadia di Francia, se non che vi manca un Sannazzaro francese che la descriva. Qui però, se non si chiama questo paese l’Arcadia, vien nominato almeno il giardino del regno. E con molta ragione invero; si placidamente vi corre in mezzo questa bellissima Loira; sí amene son le sue sponde, e sí ricche le campagne qua intorno di frutti e d’ogni vista piú dilettevole! Ma che pare a Vostra eccellenza del sito di Turs con questo borgo all’incontro, dov’è situato questo celebre monasterio di Marmotier? Che le pare di quelle isolette che fanno un ponte della natura congiunto a quello dell’arte, per dove si passa il fiume e s’entra nella cittá? E che le pare di tanti arbori che sorgono fra le case dalla parte della cittá, nel borgo, e nelle isolette, ch’ora uniscono ed ora variano con tanto gusto da tutti i lati sí vaghe scene? Molto meglio di me furono osservate forse da Vostra eccellenza queste cose medesime quand’ella fu a Turs, ma ho voluto [p. 407 modifica] anch’io rinovargliene la memoria e con la memoria il piacere. E tanto basti delle cose di qua. In Germania i progressi del conte di Bucoy, dopo l’arrivo della gente di Fiandra, si fanno ogni di maggiori; e in Francfort gli elettori han riconosciuto di giá il re Ferdinando per re di Boemia; ch’è per lui una gran caparra della sua elezione all’imperio. Di qua non si può proceder meglio nelle cose di quelle parti per servizio della religione e per vantaggio di Ferdinando. Finirò questa lettera con accusare a Vostra eccellenza la sua delli 27 del passato, e con rallegrarmi quanto piú vivamente posso con lei che sia stato promosso al cardinalato il serenissimo infante don Ferdinando terzogenito di Sua Maestá cattolica; successo invero che non poteva essere né di piú grand’ornamento al sacro collegio, né di maggior riputazione alla Chiesa tutta. E bacio a Vostra eccellenza con riverente affetto le mani.

Di Turs, li 20 d’agosto 1619.

XXI

Al duca di Monteleone, a Madrid.

2.

Mille favori al solito mi porta quest’ultima lettera di Vostra eccellenza de’ 22 del passato; ma non mi porta giá le nuove che vorrei della sua sanitá. Veggo ch’ella era tornata a ricadere, e quanto dolore io senta di ciò ella medesima può giudicarlo. Ma poiché Vostra eccellenza mi dice che il male aveva cominciato a far tregua, voglio sperare ch’ai fine pur fará con lei un’intiera pace. Del che io starò pregando Dio ben di cuore, ed aspettandone con impazienza l’avviso. Io qui me la son passata bene di sanitá, Dio lodato, non ostante che mi sia convenuto fare un viaggio di 24 giornate [p. 408 modifica] con alcune di caldo grande, e con molte altre incomoditá che si provan nel viaggiare. Seguí la pace, com’accennai a Vostra eccellenza, e com’ella avrá poi inteso piú pienamente. Si videro subito insieme il re e la regina sua madre in Brissac, e si son vedute le Maestá loro di nuovo ultimamente in Poitiers, dove si trovò anche la regina regnante. A Poitiers dunque bisognò che mi trasferissi ancor io per occasione di varie occorrenze publiche, ed in quel luogo mi fermai cinque giorni. Di lá il re se n’andò a Bordeòs, e le due regine diedero la volta a Parigi, dov’è arrivata di giá la regnante e dove s’aspetta la regina madre similmente fra due o tre giorni. Qui mi truovo anch’io di ritorno e con sommo desiderio di quiete, dopo tanti e sí molesti flussi e riflussi d’agitazioni. E pur questa volta si dovrebbe sperare qualche stabil riposo, con la venuta della regina madre a Parigi per trattenersi appresso il re suo figliuolo. Ma nondimeno la Francia non mi può far tanto sperare che non mi faccia anche sempre temere; essendo troppo variabile questo cielo, e troppo frequenti da un giorno all’altro le sue mutazioni. Ottimo in vero è il consiglio ch’ha preso la regina madre di venire a fermarsi in Parigi. A me Sua Maestá disse in Poitiers che non era per cambiarlo in maniera alcuna; al che io l’esortai sempre piú, e le aggiunsi liberamente che, s’ella si fosse risoluta a ciò l’anno passato in Turs, non si sarebbe trovata nelle ultime angustie d’Angiers. In questa determinazione l’ha indotta o l’ha confirmata principalmente il vescovo di Lusson. E ben ci voleva un istrumento d’autoritá e di prudenza tale appresso di lei, in opposizione di tanti altri che in queste discordie riponevano i lor vantaggi. Avremo qui dunque presto unite insieme tutte le persone reali, e da questa lor concordia domestica si può aspettar senza dubbio un gran frutto al publico bisogno del regno. Ma, oh che grande occasione s’è perduta qui ora di frenar l’audacia degli Ugonotti e d’avantaggiar le cose della Chiesa e del re! Pareva che Dio la porgesse con le sue mani. Con le forze del re, ch’erano grandissime, si potevano congiunger subito quelle della regina madre e le [p. 409 modifica] genti levate da Epernon, da Umena e molte altre, e tutte queste forze erano di giá in casa degli Ugonotti, senza ch’essi avessero potuto prevedere in alcun modo una tal tempesta; ond’essi ora non si trovavano pur con un uomo, si può dire, qua dentro; né meno potevano aspettarne un solo di fuori nella presente occupazion generale degli eretici in Alemagna. L’occasione perciò non poteva esser piú bella né piú comoda per reprimer la loro audacia; la quale non è dubbio che sempre anderá crescendo quando abbia tempo da poter crescere, e ch’ogni di maggiormente minaccierá la Chiesa qui dentro e la monarchia reale; poich’ogni dí si conosce meglio che non possono compatirsi tra loro da una parte la potenza legitima della Chiesa e del re, e dall’altra lo spirito ribelle dell’eresia e della fazione ugonotta di questo regno. Ed invero è cosí. Mille guerre esterne in mille occasioni ora ha mosse ed ora ha sostenute la Francia; ma dopo le guerre sono seguite le paci, dopo gli odii le riconciliazioni, e dopo le inimicizie molto spesso ancora le parentele. Mille volte è stata afflitta parimente la medesima Francia, qui in casa, dalle guerre civili ne’ tempi adietro, e nondimeno la monarchia è restata sempre una ed una sempre la Chiesa. Ma dopo che s’è introdotta l’eresia in questo regno e con l’eresia il governo degli Ugonotti fra loro, ch’è del tutto contrario a quel della Chiesa e del re, sempre sono state incompatibili queste contrarietá, e sono state in continovo combattimento per l’una parte la religione e l’autoritá regia, e per l’altra l’eresia e la fazione ugonotta, e non cesseranno mai sinché dall’una non resti l’altra intieramente abbattuta e vinta. Dovendosi dunque presupporre, come vien presupposto qui in generale, che il disegno degli Ugonotti sia di rovinare affatto la religione e l’autoritá regia, e ch’essi a questo fine stiano perpetuamente spiando ogni congiuntura che possa nascere in lor vantaggio, perciò non si doveva ora perderne dalla parte del re una sí favorevole di romper questo lor perverso disegno. Il che consisteva principalmente in levar loro di mano le piazze di sicurezza ed in rompere almen per ora la lor fazione, [p. 410 modifica] la quale se mancasse, verrebbe anche a mancar da se medesima l’eresia con molta facilitá; non potendosi dubitare che sí come l’eresia s’è introdotta principalmente per fazione in questo regno, cosí la fazione non sia quella che in principal luogo ve la mantiene. Questa congiuntura presente insomma non poteva esser piú bella, e molto ben s’è mostrato di conoscerla e piú d’una volta ancora di volere abbracciarla. Ma essendosi lasciata fuggire, bisogna concludere che non sia giunto per anche il tempo nel quale Dio riservi a questo regno una sí gran benedizione, come sará quella di liberarlo da una tal peste. Ché finalmente ben si può credere che Dio gli fará questa grazia un giorno, e che fará prevaler del tutto la causa della Chiesa e del re, la quale di tanto è superiore anche di presente alla fazione ugonotta non meno di forze che di giustizia. E non si debbono stimar poco interessati ancora in un tal successo i vicini cattolici, come ben l’ha fatto apparir spezialmente la Spagna in diverse occasioni d’aiuti somministrati per tal rispetto alla Francia; essendosi troppo bene ivi conosciuto che di qua si spanderebbe lá inevitabilmente il male, non reprimendosi. Né d’alcuna cosa al sicuro goderebbono tanto gli eretici, e massime i calvinisti fieri nemici delle monarchie temporali non meno che dell’ecclesiastica, quanto d’infettar quel paese, e d’involgerlo in quelle divisioni e calamitá ch’essi hanno fatte e fanno provar tuttavia sí miserabilmente in tante altre parti. Ma troppo mi son divertito ormai dal principio di questa lettera, e particolarmente in materie sí note a Vostra eccellenza, e nelle quali non può né deve ella stare ad altro giudizio che al suo medesimo. Torno dunque a ripigliare il filo interrotto. Noi qui abbiamo, come ho detto, la regina regnante, e con ottima sanitá, e non potrei dire a Vostra eccellenza quanto bene s’è governata in questi fastidiosi incontri fra il re e la regina madre. In grand’aspettazione si deve star costí delle cose di Germania. Baviera ha di giá occupata l’Austria superiore, come intenderá Vostra eccellenza, ed ora si truova in Boemia. L’armi di Sassonia son molto lente, e Dio sa ch’al fine non riescano poco [p. 411 modifica] sincere. Il marchese Spinola entrò nel Palatinato; e ad osservar le genti delle Provincie unite rimase il marchese di Belvedere, generail della cavalleria di Fiandra con un buon nervo di soldatesca. Grandi sono all’incontro le forze contrarie, e di giá il Gabor è stato eletto re da’ ribelli ungheri. Da tutte le parti son bilanciate le cose fra speranza e timore. Faccia Dio che la buona causa prevaglia. Ed io per fine a Vostra eccellenza bacio riverentemente le mani.

Di Parigi, li 24 settembre 1620.

XXII

Al duca di Monteleone, a Madrid.

3

Oh mondo! oh sue vanitá! Apena ho ricevuto l’avviso della mia promozione al cardinalato, che m’è sopragiunto quello dell’inaspettata morte di papa Paolo. Ben può credere Vostra eccellenza, ch’a misura degli oblighi io ne senta il dolore. E certo ch’io mi terrò non meno obligato sempre a quella santa memoria per avermi adoperato in suo servizio tanti anni con sí gran confidenza, che per la remunerazione stessa che me n’ha fatta poi godere sí a pieno con tanta benignitá. Di giá veggo Roma tutta in moto per questo caso, e tutta pendente dalla nuova elezione. Cosí potessi giungervi a tempo ancor io per sodisfar, come debbo, ed all’offizio di buon cardinale colla santa sede, ed a quello di buon servitore col signor Cardinal Borghese! Ma tuttavia il freddo è sí aspro, il viaggio sí lungo, e la mia complessione sí tenue che posso desiderare, a mio giudizio, piú che sperare d’esser presente a questo successo. Ed ora apunto è caduta una neve sí alta che, dove l’inverno dovrebbe ormai accostarsi al fine, [p. 412 modifica] pare piú tosto che voglia tornar di nuovo al principio. Per mare il viaggio da Marsilia a Civitavecchia sarebbe troppo incerto, e nella presente stagione troppo ancora pericoloso. Onde mi son risoluto di farlo per terra, con l’entrare di qua in Borgogna, imbarcarmi sulla Sona, di lá caminar per acqua sino a Lione, quindi per terra su l’Alpi della Savoia, e dopo che sarò disceso in Italia, per la strada piú comune poi sino a Roma. Io scrivo in fretta, rubandomi ad ogni altra occupazione questa della partita, la quale seguirá, piacendo a Dio, fra due giorni, essendomi licenziato oggi apunto da queste Maestá. In cose publiche non entro piú, perché di giá ne son fuori. La sostanza è ch’io lascio concorde la casa reale, ben unita la corte, ma non giá del tutto tranquillo il regno. E si vede sempre piú insomma che non potrá mai ridursi in tranquillitá sin che duri in esso la fazione ugonotta, che lo tiene quasi in ondeggiamento continovo e che vorrebbe ad ogni modo introdurre un’Olanda in Francia. Alla Roccella si seguita pur tuttavia nella pertinacia di prima, e l’assemblea vi si raduna contro la proibizione del re. Dall’altro canto Sua Maestá è risolutissima d’impedirla, e con la forza dell’armi quando non possa coll’autoritá delle commissioni. Forse Dio vorrá confonder questi empi, e far che da se medesimi vadano accelerando la lor rovina con la lor propria temeritá. Dal signor marchese di Mirabello intenderá Vostra eccellenza, cosí in questa come in ogni altra materia, quello ch’anderá qui succedendo di mano in mano. Né si può dire invero quanto grande apparisca ogni di maggiormente la sua prudenza e bontá, quanta la compitezza pur anche della signora marchesa sua moglie, e come ben l’uno e l’altra si accomodi al viver di questo paese, ed alle maniere di questa corte. Mostra il signor marchese particolarmente di non desiderar cosa piú, che di veder fra le due corone ogni migliore intelligenza e concordia. E ben si può conoscere quanto abbiano giovato appresso di lui, oltre alla propria prudenza di lui medesimo, quei saggi ricordi ch’ha ricevuti da Vostra eccellenza in materia cosí importante, la quale nel servizio di queste due [p. 413 modifica] monarchie comprende insieme quello di tutta la cristianitá. Ma non piú in lettere da Parigi. Scriverò a Vostra eccellenza in giungendo a Roma, e prima ancora se il viaggio potrá permetterlo. Nel resto so che la sua memoria e grazia non è in alcun tempo mai per mancarmi, sí come sará immutabile sempre all’incontro il mio affetto e la mia osservanza verso di lei. E per fine le prego ogni piú vera prosperitá.

Di Parigi, li 20 di febraro 1621.




Note