Leggenda eterna/Risveglio/I cavalli di San Marco
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I CAVALLI DI SAN MARCO.
Bianca, deserta stendesi
la gran piazza al sopor meridïano;
va d’un cantor girovago
l’ultima nota a perdersi lontano.
Di San Marco le cupole
meravigliose avvolge un nimbo d’oro,
ma nelle nicchie fulgide
par che i santi sbadiglino tra loro.
Son tanti anni che dormono
i forti eroi distesi nella fossa!
Tanti anni che sparirono
i cavalieri dalla toga rossa!
Di Barbarossa il fremito,
che a San Marco portò d’Illiria il vento,
son più di sette secoli
che dentro l’onda paludosa è spento.
Non più giocondi ondeggiano,
d’un tratto sciolti a sgominar la notte,
sull’alta torre i vigili
bronzi, saluto alle tornanti flotte;
e invan quei santi attendono
che un suono, cui li aveva il tempo avvezzi,
che un urlo di vittoria
di quel tedio infinito il gelo spezzi...
La gloria fu; ma un torpido
sonno San Marco e il suo popolo ha vinto;
ma sovra gli archi fremere
s’odon ora i cavalli di Corinto,
i cavalli che al fervido
sol della Grecia, nel clamor guerriero,
baldi passar vedeano
i rapsodi cantando inni d’Omero,
passar d’Epiro i giovani
che Arato incontro all’oppressor traea,
passar rombando i plaustri
vittoriosi della Lega Achea.
*
O immane ala dei secoli,
pulsar ti sento; e dagli umani inciampi
teco sciolto lo spirito
migra del tempo per gli aperti campi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Te vedo, o Roma, o torbida
Roma, qual’eri. Il perfido dimone
della follia destavasi
torvo allora negli occhi di Nerone,
e il forsennato Cesare
s’udia ruggir: — Ciò che non piega, infrango! —
E la palmata clamide
ebbro vedeasi trascinar nel fango.
Invan Claudio di porpora
rivesti le corrose assi del soglio!
Le forti romane aquile
stridon ferite appiè del Campidoglio,
e in pugno alto la fiaccola
tra gli arsi templi e i portici crollanti,
te vedran cupo assorgere
i nipoti pigmei d’avi giganti.
*
Io penso, io penso... Or passano
bianchi veli e lucenti occhi d’almee,
sui vespri d’oro assorgono
nitidi i minareti e le moschee...
Pur, così allora, o vecchia
Tracia, il tuo ciel non ti vedea; la mano
ne’ templi tuoi sacrilega
posto ancor non aveva il musulmano.
Nè sui delubri l’aurea
mezzaluna in quei dì; ma grande e tristo
di libertà segnacolo,
la terribil s’ergea croce di Cristo...
Io vedo, io vedo... Incurvasi
il mar tra verdi rive; ecco il giocondo
sorriso aprir Bisanzio
a un esulante vincitor del mondo.
Giovanilmente destasi
la ribelle d’un tempo or lieta e doma,
e vince nel magnifico
suo nuovo maggio la superba Roma...
E tu passi, o de’ secoli
ala immane, e paesi e imperii morti
spazzi, a novelli popoli
maturando nel volo ampio le sorti!...
*
Son giunte! eccole al Bosforo
le gloriose! di novello alloro
cinte, alle antenne attorconsi
le rosse insegne dai rabeschi d’oro:
le insegne che s’aprirono
sulla terra e sul mar libero il varco,
stemmate dell’aligero
leon, levate al grido di: San Marco!
*
Quante vedeste, o bronzei
corsier, dagli erti scali ampie lanciare
gallute navi e rapide
galee pugnaci nell’Adriaco mare?
Quanta echeggiò nel tempio
onda di preci; e al puro etere immenso
quanti volaron cantici
e nubi di fragrante arabo incenso?
Quanti osanna scoppiarono
del Bucintoro al sùbito raggiare,
e quante nozze strinsero
in cospetto del sol Venezia e il mare,
prima che voi, dal turbine
dei fati, come lieve in aere penna,
travolti foste e ai margini
posati là della cruenta Senna?
Anche laggiù, non tedio
v’attendea di silenzi e sonni ignavi;
sovra possente incudine
là si battean dell’avvenir le chiavi,
là posto avea, con vindice
braccio, l’arguta libertà di Francia
il diritto dei popoli
e quel dei re, dentr’unica bilancia,
e ancor bello e terribile
stringea laggiù repubblicano saio
il Côrso, e piovea folgori
sul Direttorio al sole di Brumaio.
*
Della vecchia basilica
quando tornaste alle colonne, e quando
de’ Dogi i figli alzarono
memori a voi le ciglia lagrimando,
ucciso in Campoformio
tacea l’alto Senato, e uno straniero
vessillo ergeasi lugubre
in San Marco, dipinto a giallo e nero.
Ben le catene scotere
volle, ruggì, di sangue i ferri tinse
superbamente indomito
il Leon, cui più forte il giogo avvinse
e un dì, coi gagliardi omeri
levato il sasso dell’avel, rizzossi
dinanzi al torvo austriaco
lunga una schiera di fantasmi rossi:
lo stuolo dei magnifici
cui cantò il mare i funerali elogi,
il grande, il forte, il libero,
il glorïoso esercito dei dogi.
Di Marghera tuonarono
quel giorno a festa i fervidi cannoni;
rotti precipitarono
giù dall’aste con l’aquile i pennoni;
scoppiò dai petti un unico
evviva; sfavillò l’occhio dei forti;
vibrar nell’aria limpida
l’esultante s’intese inno dei morti.
*
O d’adorati martiri
inutile, ma santa opra! O possente
d’eroi sospiro! Italia
per voi più forte e più gentil si sente!
Vano, vano d’un popolo
alto valor! Voi li vedeste, o fieri
cavalli, i nostri giovani
far muraglia col petto agli stranieri:
Voi lo vedeste il funebre
mattin ch’estenüate larve intorno
a un vessillo si strinsero,
voi lo vedeste il maledetto giorno,
il giorno che famelici
spettri, che agonizzanti anime in nera
gramaglia ricoprirono
un’altra volta la rossa bandiera;
che le scarne mordendosi
man, quegli eroi, dalla plebaglia folta
degli alemanni videro
la repubblica uccisa un’altra volta.
*
O tuoni alti di giubilo,
o voci di campane, o nel fulgore
del meriggio svolgentesi
alta nel vento insegna tricolore,
Per voi, per voi l’Adrìaca
donna schiuse le ciglia semispente,
per voi si colorarono
un istante le gote alla morente.
Poi sul deserto e tacito
suo verde flutto dall’algoso fondo
ricadde inerme e lacera
quella che un giorno s’ebbe ai piedi il mondo.
— Tardi giungesti! — in lagrime
sclamò il fratello baciando il fratello.
— Non siete vivi? — chiesero
severamente i morti di Torcello.
— Vivi, ma stanchi e torpidi,
lo spirito infiacchito, il corpo affranto;
le vostre gagliarde anime
voi non ci deste, o chiusi in camposanto!
— Per quasi un mezzo secolo
fisso lo sguardo ad una meta eccelsa,
per quasi un mezzo secolo
abbiam vegliato colla man sull’elsa;
— ed or... compiuto il libero
voto d’Italia e ricomposte l’ire,
or... pace consentiteci,
siamo vecchi... lasciateci morire. —
Fremono i morti e fremono
i bei cavalli di Corinto ardenti,
sempre a protervi scalpiti
pronti ed al corso i muscoli possenti;
fremono i morti... e al fremito
dei loro morti, indifferenti o schivi,
tenacemente dormono
l’orrido sonno dell’ignavia i vivi.