Le tentazioni/Zia Jacobba
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ZIA JACOBBA
uesta che parrà una storiella da focolare (così noi chiamiamo le fiabe), è invece una storia vera, accaduta in un villaggio della Baronia di Sardegna.
Quando avrò detto che ai tempi di Tolomeo questo villaggio, — ora fra i più miseri del Nuorese, — era fra le città più opulente delle colonie romane, forse ne saprete qualche cosa.
Quando aggiungerò che il nostro governo ha già messo all’asta quasi tutte le case e i terreni di questo villaggio, per l’imposta che i miseri abitanti non riescono a pagare, voi che nei giornali avete letto la strepitante notizia di un comune sardo messo all’asta, ne saprete quanto me.
Questo accade però: si fa l’asta; vengono espulsi gli abitanti coi loro stracci, che restano più o meno sulla via. Nessuno si presenta all’asta e tanto meno alla subasta; cosicchè gli stabili vengono aggiudicati al demanio. Si fa egregiamente e regolarmente ogni cosa, ma appena i funzionari hanno terminato la cerimonia e se ne sono andati, gli espulsi rimettono entro le case, — che hanno aperture poco solide, — le loro mobilie, e tornano ad abitarvi tranquillamente, in barba al demanio che non se ne accorge o non vuole accorgersene.
Lo stesso avviene delle terre: i proprietari continuano a coltivarle senza essere più molestati dal commissario; talchè molti finiscono col lasciarsi subastare i terreni per non pagare più imposte, che, a dir la verità, sono superiori alle rendite.
Così la buona parte degli abitanti sarebbe pressochè felice, — liberatasi dall’incubo dell’esattore, — se le piene, il sole, e sopratutto la malaria non facessero le vendette di quel flagello dell’umanità, chiamato elegantemente “messo erariale.„
Della miseria poi non si parli. In primavera molti Baroniesi tolgono le tegole dai loro tetti e le vendono a Nuoro: riusciranno nel prossimo inverno a ricoprire la loro stamberga? Quesito difficile a risolversi; per cui lo lasciamo lì.
E tutto questo sia detto per l’ambiente.
Ora, fra le catapecchie espropriate nel 93 c’era quella di zia Jacobba Varche. Messa tre volte all’asta per L. 3,72, e nessuno presentatosi, il gran palazzo restò al demanio. Nel frattempo zia Jacobba era stata a Nuoro; al ritorno si diresse senza esitare alla dimora già sua e vi rientrò tranquillamente. Tranquillamente per modo di dire, giacchè zia Jacobba aveva la morte nel cuore. Un continuo fremito di tristezza le scomponeva la povera faccia gialla.
Ma il suo dolore era causato da ben altra disgrazia. Sentite la storia di zia Jacobba Varche.
⁂
Ella era una povera donna, misteriosa e bizzarra, sulla cinquantina. Come quasi tutte le povere donne della Baronia, soffriva le febbri miasmatiche, tanto più che passava le giornate nelle paludi, tra le verdi acque stagnanti, pescando sanguisughe. Pescando per modo di dire; perchè tuffava le gambe nell’acqua malefica, aspettando che le sanguisughe vi si attaccassero ferocemente. Ella poi si curvava, staccava dalle sue povere carni lo schifoso animaletto e lo introduceva a viva forza entro un’ampolla verdognola, a metà colma d’acqua.
Dopo la morte del marito, zia Jacobba e Chianna (Lucia Anna), la sua piccola figlia, vivevano di questo mestiere. Con l’ampolla verdognola entro cui le sanguisughe s’allungavano e restringevano continuamente, la povera donna recavasi a Nuoro e nei villaggi. Chianna intanto, nella casetta nera, filava del lino con un fuso più lungo di lei, e dava attenzione al porchetto e alle galline.
Siccome il porchetto litigava spesso con le galline, le quali a dire il vero erano molto impertinenti e gli beccavano le mosche persino negli occhi, Chianna, dopo avergli dato da mangiare, lo metteva entro un sacco, ridendo delle sue strida. Le galline si disponevano in circolo, guardavano l’agitato sacco con un solo occhio, tondo, fisso, rosso, e parevano ridere anch’esse. Qualcuna poi starnazzava le ali, camminava lesta lesta, facendo un certo picchiettìo coi suoi passettini, e andava a beccar le mosche proprio sul sacco. Il porchetto raddoppiava le sue strida; Chianna ritornava a filare cantando.
Ritornando zia Jacobba trovava il pajolino che bolliva, il suolo spazzato, il porchetto quieto entro il sacco, le galline sedute a far le uova, e Chianna che filava cantando.
La benedizione di Dio era in quella povera casetta nera: la caffettiera non mancava ogni giorno di saltar ballando sul focolare.
Zia Jacobba si sentiva felice, nonostante le sue febbri, alle quali infine c’era avvezza. Ogni volta che ritornava dalle paludi o dai suoi viaggi, provava una indicibile gioia rivedendo Chianna, e le copriva la testina di baci, chiamandola la pulcina dalla cresta d’oro, oppure la sua santina d’argento. Infatti il visino della piccina rassomigliava a quello di certe madonnine pisane che s’incontrano in qualche vecchia chiesetta sarda.
Zia Jacobba invece era molto brutta, viepiù deformata dalla febbre che le gonfiava lo stomaco. Il suo corsetto di velluto nero, poi, sembrava coperto dal fango verdastro delle paludi; e le sue babbuccie di cuojo, non conservando più nè forma nè colore, dicevano lo strazio delle lunghe leghe percorse sulla polvere marmorea degli stradali, sotto il crudele cielo di acciajo azzurrognolo, luminosamente cinereo nelle ardenti lontananze.
Le vicine volevano bene a Chianna, ma parlavano male della madre, e dicevano strane cose sul suo conto. Il fatto era questo: zia Jacobba era linguacciuta e guardava tutti con gli occhi torvi. Ora, siccome l’amore si ottiene solo a forza d’amore, zia Jacobba non ne otteneva punto.
Per fortuna poteva campare sul suo; altrimenti nessuno le avrebbe dato un sorso d’acqua. Tutte parlavano male di lei: e dicevano che avesse relazioni col diavolo. Uhm! questo è nulla, perchè veramente qual’è la donna che non ha relazioni col Maligno? Ma si diceva anche, — e questo era il più, — che zia Jacobba avesse relazioni personali con gli spiriti delle rovine di Castel Roccioso, fra le quali, a quanto pare, vivono ancora le anime delle antiche baronesse e dei rispettivi baroni.
Diceva zia Sebia (Eusebia), quell’anima perduta, che più che aver relazioni col diavolo gli aveva venduto l’anima, quella donna alta, scarna, con gli occhi verdi e le labbra grosse sporgenti, che stava in fondo al vicinato:
— Quando comare Jacobba fa vedere d’esser a Nuoro o in casa del diavolo, per vender la sua pesca, è invece al castello, facendo la serva a loro, lavandoci i panni, portandoci le legna ed altre cose ancora.
Zia Jacobba, però, poco si curava delle cattive lingue. La felicità di casa sua era superiore ad ogni cosa. Chianna era tutto il suo mondo; fuori di Chianna non c’era per lei altro al mondo.
Ora avvenne una cosa tremenda. Chianna buscò le febbri: anche il suo visetto di smalto antico si deformò, anche il suo piccolo stomaco si gonfiò, quasi un mucchio di rane palustri color giunco v’avesse preso abitazione.
Un giorno le vicine videro zia Jacobba e la piccina avviarsi verso lo stradale.
— Dove andate, comare? — chiese zia Sebia.
— A Nuoro, per curare questa bambina, — zia Jacobba rispose con profonda tristezza. (Il porchetto e le galline erano state vendute).
Zia Sebia rise con gli occhi verdi scintillanti. Come mai quelle due potevano andar a Nuoro; come potevano neppure arrivarci?
Eppure si seppe più tardi che eran salite in vettura per arrivarci, e che a Nuoro il medico visitava Chianna quasi fosse stata figlia di signori.
Lungo tempo zia Jacobba restò lontana; in modo che le nottole e i sorci davano ogni sera meravigliose feste da ballo entro la casetta. Il fuso di Chianna fu tutto rosicchiato e sul pajolino brillò il verderame. Poi l’esattore mise tre volte all’asta lo stabile, per lire tre e centesimi settantadue di imposte arretrate.
Spero vi ricorderete il resto.
Ma zia Jacobba ritornava sola perchè Chianna era morta.
⁂
Il focolare era spento; la cenere sembrava polvere. Le grigie tende dei ragni tremolavano qua e là per gli angoli e sotto il tetto come i sottili merletti fiamminghi di cui deve essere adorna la Desolazione. Il sacco del porchetto era tutto trapuntato; e i sorci cominciavano già a ricamare la coperta del letto, povera coperta di lana a striscie gialle e nere, filata e tessuta vent’anni prima da zia Jacobba, per il corredo nuziale.
La povera donna pianse lungamente, finchè nei suoi occhi non restò una lagrima e nella sua gola un singulto.
Non doveva esser vera la sua relazione col Maligno, perchè in tal caso gli avrebbe venduto l’anima pur di riaver la figliuola.
I giorni scorrevano tetri e lenti, in una profonda miseria di pane e d’affetti.
E il dubbio che Chianna fosse morta per forza di qualche malefica magia, metteva una continua febbre nelle pupille della povera donna. I sortilegi per il danno o la morte delle persone odiate si eseguivano con statuette di sughero, flagellate di chiodi e d’aculei, e collocate in luogo sotto il quale o sopra il quale la persona presa di mira passasse. L’effetto era sicuro e terribile: per magico incanto i chiodi e gli aculei pungevano il corpo del malcapitato, causando malattia e morte. Ritrovando la magia e disfacendola, la persona poteva salvarsi; non così se non veniva ritrovata o, se ritrovata, gettata sul fuoco senza estrarne i chiodi.
Negli ultimi giorni della malattia di Chianna, qualche pia persona aveva insinuato il dubbio d’un sortilegio.
Ritornata nel suo paese, zia Jacobba pensava, più che a riprendere una vita ormai rotta e disfatta, a scoprir la malìa e vendicarsi.
Cercò sopra il tetto, sotto il suolo, nella porta, in ogni ripostiglio. Invano. Non trovò che vermi, tarli, sorci; tutte cose che, sebbene malefiche, non potevano esser magie.
Allora, insensibilmente, si avvicinò alle vicine di casa, comunicando loro il segreto ed ajzzandole l’un l’altra per saper qualche cosa.
— Ha perduta la ragione, — dicevano le vicine fra i loro pettegolezzi.
Ma un giorno zia Jacobba disse a più d’una, sempre in segreto:
— Se riesci ad ajutarmi ti do due scudi. — E li mostrò sulla palma della mano. Erano d’oro, rotondi e gialli come una piccolissima luna!
La notizia si sparse. E allora zia Jacobba non aveva più perduto la ragione, e le vicine si guardarono in cagnesco, e si diedero a cercar la magia con accanimento, quasi i chiodi li avessero loro sul corpo, e cominciarono a spiarsi e lacerarsi. Ma nessuna trovava nulla. E zia Jacobba si persuadeva che Chianna era morta di mal di Dio, quando un giorno venne a trovarla Pottoi (Maria Antonia), figlia di zia Sebia.
Pottoi era stata un po’ amica e comare di Chianna: aveva la stessa età, ed era bellina anch’essa, coi capelli d’un biondo ardente, bruciati dal sole, e gli occhi verdi come quelli di sua madre.
— Io so chi ha fatta la magia e dove si trova, — disse.
— E non potevi squarciarti prima? — gridò zia Jacobba.
— Eh, non pigliatevelo con me, zia mia! Altrimenti non dico nulla.
Zia Jacobba si fece dolce e supplichevole. Allora Pottoi le fece giurare che le avrebbe dato i due scudi d’oro, e che mai avrebbe palesato chi aveva scoperto la magia. La povera donna giurò. Poi si avviarono assieme verso le paludi ove zia Jacobba soleva pescar le sanguisughe.
Pottoi raccolse la sottana fra le gambe, avanzò e scavò fra i giunchi, sui quali Chianna era passata l’ultima volta ch’era andata laggiù; e ne estrasse una statuetta che aveva le forme d’una bambina gonfia per le febbri, tutta tempestata di pezzetti di vetro e di chiodi.
— L’ha fatta zia Maria di Locula, — disse a voce piana.
Zia Maria era una povera tessitrice, del villaggio di Locula, una povera donna che sembrava la più innocente creatura del mondo.
Zia Jacobba, con le mani tremanti e il volto livido, piangeva e imprecava, guardando per tutti i versi la fatale statuetta. Cercò saperne di più, ma Pottoi si chiuse in sovrano silenzio, volle i due scudi d’oro, rotondi e gialli come piccolissima luna, e se ne tornò a casa sgambettando.
L’arcano era questo: avida dei due scudi d’oro, e volendo anche non so per qual causa far male a zia Maria di Locula, zia Sebia aveva qualche giorno prima fatta e sotterrata la statuetta, mandando poi Pottoi a corbellare la povera vedova.
Tutto era andato bene; ma zia Jacobba cadde malata dal dispiacere, e Pottoi si pentì sinceramente del suo mal fare. Non potendo rimediare in altro modo, cominciò a frequentare la casa di zia Jacobba, assistendola e confortandola.
Zia Sebia bastonava la piccina, ma ella andava lo stesso dalla sua vecchia amica: le spazzava la casa, faceva il fuoco, portava l’acqua. A momenti zia Jacobba credeva veder Chianna risuscitata, e tanto si affezionò alla ragazza che l’idea di adottarsela per figliuola la riconciliò con la vita. Appena potè, cominciò le pratiche presso zia Sebia; ma la sua proposta fu respinta con orrore.
Diceva zia Jacobba, con profonda convinzione negli occhi:
— Datemi Pottoi, comare; vedrete che non ve ne pentirete, comare.
Ma zia Sebia aveva un maligno splendore verde negli occhi, e per poco non bastonava la povera donna. L’idea che Pottoi poteva render felice quella disgraziata dava una vertigine di rabbia al suo perfido cuore.
— Ed io fuggo! — disse Pottoi.
La madre le diede una batosta numero uno, e poi la mandò serva a Nuoro. Zia Jacobba non la rivide mai più. L’assenza di Pottoi, a cui s’era tenacemente affezionata, la fine della sua nuova speranza, e le ingiurie ricevute da zia Sebia, furon per lei il colpo fatale. La febbre l’assalì ferocemente: tutto l’inverno passato ella restò a letto, invocando la morte che venne a trovarla verso i primi d’aprile di quest’anno.
Una sua miserissima cugina, che negli ultimi giorni penosi l’assistè per amor di Dio, trovò fra la stoppia del saccone del letto una scatoletta piena di quei doppi scudi d’oro, rotondi e gialli come piccolissime lune. Questa fortuna colossale, per quanto misteriosa, le permette di sposare un bel giovine, che alla luce di quelle piccole lune non vuol vedere che la sposa è sdentata e discretamente calva per i suoi cinquantanni.
Zia Sebia dice ch’è denaro del diavolo, e dicendo così gli occhi suoi sembrano di vitriolo; ma intanto si rode notte e giorno i pugni e muore di dispiacere.