Le supplici (Eschilo)/Primo canto intorno all'ara

Primo canto intorno all'ara

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Eschilo - Le supplici (472 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1921)
Primo canto intorno all'ara
Canto d'ingresso Primo episodio
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PRIMO CANTO INTORNO ALL’ARA


Dànao ascende l’altura. Le fanciulle son disposte attorno all’altare di Diòniso, in mezzo all’orchestra. E intorno all’altare compiono lente evoluzioni danzate, cantando le strofe che seguono.



Strofe I
Il rampollo divino
ora s’invochi, il vindice
torello oltremarino1,
concetto al tocco e all’alito
di Giove, sopra i floridi
paschi, dalla giovenca progenitrice nostra:
ché giunse il di’ scritto nei fati, ed Èpafo
die’ a luce: il nome suo l’origin mostra.

Antistrofe I
In questi erbosi lochi,
ove pascea nostra avola,
il suo nome or s’invochi,

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si dia certo segnacolo
della nostra progenie,
rammemorando l’esito
di quell’antico affanno:
ché, quando a lungo le sporrò, veridiche
le incredibili cose anche parranno.

Strofe II
Se ascolti questo mio lagno flebile
alcun degli àuguri di questo suolo,
penserà certo d’udir la misera
rosignoletta, sposa di Tèreo2,
dallo sparviero cacciata a volo,

Antistrofe II
che dalle prische sue terre profuga,
leva, a rimpiangerle, nuovo lamento,
e insieme il fato piange del figlio
che dalla barbara materna furia
colpito cadde, di sua man spento.

Strofe III
Vaga di gemiti, anch’io
levo le ioniche note3,
dilanio le tenere gote
che il vampo del Nilo imbruní:
il cuore inesperto di lagrime
dilanio, mietendo lamenti,

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ignara se alcun dei parenti
vorrà dare asilo alla misera
che il bruno paese4 fuggí.

Antistrofe III
Numi dei padri, ascoltatemi
voi cui diletta è giustizia:
non rida la sorte propizia
all’uomo che ingiusto operò.
Punite l’iniquo connubio,
punite la rea tracotanza:
l’altare e la santa osservanza
dei Numi, tutelano il supplice
che stanco alla pugna scampò.

Strofe IV
Deh!, fosse pur vero
ch’io sono di Giove progenie!
Di Giove il pensiero
nessuno è che valga a sorprenderlo;
e pure in fortuna di tenebre
il raggio ne brilla
fra il buio, all’umana pupilla!

Antistrofe IV
Sui piedi secura
ogni opera sta, che nel cèrebro
di Giove matura,

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né crolla riversa: ché i tramiti
dei suoi pensamenti si stendono
oscuri ed arcani;
né scioglierli posson gli umani.

Strofe V
Essi scrollano i miseri
mortali giú dai vertici
di turrite speranze,
né d’arme alcuna violenza affrancano.
Agevol tutto è ai Dèmoni:
da le superne stanze
del ciel, dai puri seggi, ogni disegno
recano a certo segno.

Antistrofe V
Questa umana protervia
mirino: come infuria
per le mie nozze, questa
stirpe, die in folli desiderî germina,
E infitto reca il pungolo
della foia funesta,
che, senza alcun riparo aver, la fiede,
e morte è sua mercede.

Strofe VI
Queste miserie, queste sciagure,
con voci acute, con voci oscure
geme: dal pianto — spezzato è il canto.

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Ahimè! ahimè!
Acconcio, mentre pur viva sono,
io per me l’ululo di morte intono.
     E invoco il suolo Apio
— o terra, t’è cognita
la barbara mia querimonia —
e avvento le mani, a distruggerla,
sovressa la veste sidonia.

Antistrofe VI
Quando è lontana l’ora di morte,
quando sorride prospera sorte,
d’ostie profumi — volano ai Numi.
Ahimè! ahimè!
Il mio travaglio qual fine avrà?
Dove il maroso ci spingerà?
     E invoco il suolo Apio
— o terra, t’è cognita
la barbara mia querimonia —
e avvento le mani, a distruggerla,
sovressa la veste sidonia.

Strofe VII
La dimora di tronchi alberi, ch’à compagini di funi,
ci condusse remigando, tra procelle e flutti, immuni,
col soffiar di venti prosperi.
Non mi lagno. Deh!, sicuro
cosí Giove affretti l’esito
d’ogni evento nel futuro.

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     La progenie della madre venerabile
schivi il letto dei mariti,
delle nozze il laccio evíti.

Antistrofe VII
Sopra me che a lei m’affido, volga il guardo ora la figlia
del Signor dei Numi, Artèmide, cui pudore e su le ciglia.
Sopra quelli che m’inseguono
con gran possa ella s’abbatta:
ella deve, intatta vergine,
me salvar, vergine intatta!
     La progenie della madre venerabile
schivi il letto dei mariti,
delle nozze il laccio evíti.

Strofe VIII
O, spènteci di laccio,
stringendo i rami supplici,
andrem, fosca progenie,
dal sole in bruno tinte,
al Nume che tutti ospita,
al Giove sotterraneo
che sui defunti vigila,
poi che ci avran gli Olimpî Dei respinte.
     Ahimè, Giove, ahimè!, l’ira
dei Celesti contro Io, me pur flagella:
noto il geloso zelo
m’è di tua sposa, che sconvolge il cielo.

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Ahi! da qual vento spira
orrido, la procella!

Antistrofe VIII
Né lode di giustizia
avrà Giove, che il figlio
dalla giovenca natogli
manda d’onore spoglio.
Ei gli fu padre: florida
crebbe sua stirpe, e supplice
ora l’implora: ei l’occhio
torce. — Deh! m’oda dall’aereo soglio!
     Ahimè, Giove, ahimè!, l’ira
dei Celesti contro Io me pur flagella:
noto il geloso zelo
m’è di tua sposa, che sconvolge il cielo.
Ahi!, da qual vento spira
orrido, la procella!
Compiute le evoluzioni danzate, le Danaidi si aggruppano ancora, ferme, intorno all’altare di Diòniso.


Note

  1. [p. 350 modifica]Il vindice torello oltremarino è Epafo, figlio d’Io (vedi introduzione). Egli, allettando l’origine argiva delle Danaidi, deve impetrare per esse il soccorso degli Argivi, e cosí vendicarle della tracotanza dei cugini.
  2. [p. 350 modifica]Assai nota è la favola di Procne. Non intendiamo bene perché Eschilo la dica inseguita dallo sparviere: aveva certo in mente qualche particolare della leggenda e qualche favola che piú non conosciamo.
  3. [p. 350 modifica]Ossia, canto in lingua ellena. Cosí interpreta lo scoliaste: meglio, penso, del Westphal, il quale crede si parli del modo musicale ionio.
  4. [p. 350 modifica]Il paese bruno è l’Egitto: analogamente, nelle iscrizioni egiziane l’Arabia è detta il paese rosso.